XXVIII LA CENA DEL CAPO VILLAGGIO

Si fece quasi sera prima ancora che raggiungessi le prime case. Il sole tracciava un sentiero d’oro rosso sulle acque del lago, un sentiero che sembrava prolungare la strada del villaggio fino ai margini del mondo, cosicché la si sarebbe potuta percorrere per penetrare in un più grande universo. Ma il villaggio, sebbene, quando lo raggiunsi, mi si rivelasse povero e piccolo, era più che soddisfacente per me che avevo camminato per così tanto tempo in luoghi alti e remoti.

Non c’erano locande, e, dal momento che nessuna delle persone che mi sbirciavano da sopra il bordo dei davanzali mi sembrava particolarmente ben disposta a lasciarmi entrare, chiesi quale fosse la casa del capo del villaggio, spinsi da un lato la donna grassa che mi venne ad aprire e mi misi a mio agio. Quando finalmente il capo del villaggio giunse a vedere chi si era autonominato suo ospite, io avevo già tirato fuori la pietra per affilare, l’olio e lo straccio e mi stavo chinando sulla lama di Terminus Est mentre mi riscaldavo accanto al fuoco. Il capo del villaggio esordi con l’inchinarsi, ma era tanto curioso nei miei confronti che non seppe resistere alla tentazione di darmi un’occhiata mentre s’inchinava, al punto che io trovai difficoltà nell’evitare di guardarlo a mia volta, il che sarebbe stato fatale per i miei piani.

— L’ottimate è il benvenuto — disse l’uomo, atteggiando ad un sorriso le guance avvizzite. — Molto benvenuto. La mia povera casa… tutto il nostro povero villaggio, sono a sua disposizione.

— Io non sono un ottimate — gli risposi. — Io sono il Gran Maestro Seyerian, dell’Ordine dei Cercatori della Verità e della Penitenza, comunemente detto la corporazione dei torturatori. Tu, capo villaggio, ti rivolgerai a me chiamandomi Maestro. Ho avuto un viaggio difficile, e se mi procurerai una buona cena ed un letto decente, sarà difficile che io arrechi ulteriori disturbi a te o alla tua gente prima di domattina.

— Avrai il mio letto — replicò prontamente l’uomo, — e tutto il cibo che riusciremo a trovare.

— Dovete avere abbondanza di pesce fresco, qui, ed uccelli acquatici. Li voglio entrambi, ed anche riso selvatico. — Mi rammentai che una volta, mentre discuteva sui rapporti della nostra corporazione con le altre della Cittadella, Maestro Gurloes mi aveva detto che uno dei modi migliori per dominare un uomo è quello di chiedergli qualcosa che non è in grado di fornire. — Miele, pane fresco, e burro dovrebbero bastare, a parte le verdure e l’insalata, ma, dato che non ho preferenze in merito, lascerò a te di farmi una sorpresa. Portami qualcosa di buono, e qualcosa che non abbia mai mangiato prima, in modo che io possa raccontarlo quando tornerò alla Casa Assoluta.

Mentre parlavo, gli occhi del capo del villaggio si erano fatti sempre più rotondi, e, alla menzione della Casa Assoluta, che in quello sperduto villaggio non doveva essere indubbiamente altro che la più vaga delle voci, essi parvero sul punto di schizzargli fuori dalle orbite. Cercò di mormorare qualcosa in merito al bestiame (probabilmente non erano in grado di produrre burro a quell’altitudine), ma io lo congedai con un cenno, e poi lo acciuffai per la collottola perché non si era richiuso la porta alle spalle.

Quando se ne fu andato, corsi il rischio di togliermi gli stivali. Non è mai opportuno apparire troppo rilassati in presenza dei prigionieri (ed il capo ed il suo villaggio erano ora miei prigionieri, pensai, anche se non erano rinchiusi), ma mi sentivo certo che nessuno avrebbe osato entrare in quella stanza prima che fosse stato approntato un qualche pasto. Finii di oliare Terminus Est, poi ne affilai nuovamente le estremità. Ciò fatto, trassi fuori l’altro mio tesoro (anche se in effetti non era mio) dalla sacca e lo osservai alla luce del pungente fuoco. Da quando avevo lasciato Thrax, esso non premeva più contro il mio petto come un pugno di ferro… addirittura, mentre vagavo fra le montagne ero giunto al punto di dimenticarmene per una mezza giornata, ed una volta o due lo avevo afferrato in preda al panico, temendo, quando mi ero finalmente rammentato di lui, di averlo perduto. In quella stanza squadrata e dal tetto basso, in cui le rotonde pietre delle pareti sembravano scaldarsi il ventre al fuoco come autorevoli cittadini, esso non brillava come aveva fatto nello jacal del ragazzo dall’occhio malato, ma non era neppure inerte come quando l’avevo mostrato a Typhon. Ora, piuttosto, sembrava irradiare luce, al punto che potevo quasi immaginare il gioco di energie sulla mia faccia. Il marchio a forma di luna crescente nel cuore della gemma non mi era mai parso più distante di così, e, sebbene esso fosse scuro, ne emanava un punto di luce.

Finalmente riposi la gemma, vergognandomi un poco di aver giocherellato con una cosa di tanto valore come fosse stato un ciottolo. Trassi fuori il libro marrone, ed avrei voluto leggerne un brano, se solo avessi potuto; ma, sebbene la febbre sembrasse avermi lasciato, ero ancora molto affaticato, e la tremolante luce del fuoco faceva danzare sulla pagina le vecchie parole scarabocchiate e presto sconfisse i miei occhi, al punto che la storia che stavo leggendo mi parve in certi momenti essere un cumulo di sciocchezze, ed in altri aver a che fare con la mia situazione… viaggi senza fine, la crudeltà della folla, ruscelli colmi di sangue. Una volta mi parve di scorgere il nome di Agia, ma quando guardai meglio, la parola era divenuta la parola ancora: «Agia balzò, e contorcendosi intorno alle colonne del carapace…»

La pagina sembrava luminosa e al contempo indecifrabile, come il riflesso di un vetro visto in una polla tranquilla. Chiusi il libro e lo riposi nella mia giberna, senza essere certo di aver realmente visto alcuna delle parole che avevo pensato un istante prima di aver letto. Agia doveva effettivamente essere balzata giù dal tetto di zolle della casa di Casdoe, e certo contorceva le cose, poiché aveva distorto l’esecuzione di Agilus facendone un omicidio. Si suppone che la grande testuggine che, secondo il mito, reggerebbe il mondo e sarebbe quindi un’incarnazione dell’universo, abbia rivelato in tempi antichi la Regola Universale, andata perduta, in base alla quale si può essere sempre certi di agire correttamente. Il suo carapace rappresenta la coppa del cielo, il suo piastrone le pianure di tutti i mondi, mentre le colonne del carapace dovrebbero rappresentare le armate del Teologumeno, terribili e splendenti…

Eppure, non ero certo di aver letto nulla di tutto questo, e quando tirai nuovamente fuori il libro e tentai di ritrovare la pagina non vi riuscii. Per quanto sapessi che la mia confusione era esclusivamente dovuta alla stanchezza, alla fame ed alla luce, provai quel timore che mi aveva sempre assalito in molte occasioni della mia vita, quando qualche piccolo incidente mi aveva reso consapevole di un’incipiente insanità mentale. Mentre fissavo il fuoco, mi parve più probabile di quanto mi sarebbe piaciuto credere che un giorno, magari a causa di un colpo in testa, o magari senza alcun motivo determinato, la mia ragione e la mia immaginazione si scambiassero di posto… proprio come due amici che tutti i giorni vanno a sedersi sulla stessa panchina in un giardino pubblico, ed un giorno decidono di scambiarsi di posto, giusto per amor di novità. Allora avrei visto come reali tutti i fantasmi della mia mente, mentre avrei percepito solo nel modo vago in cui solitamente percepiamo paure ed ambizioni, le persone e le cose del mondo reale. Questi pensieri, espressi a questo punto della narrazione, devono sembrare dettati da una sorta di prescienza, ed io li posso giustificare soltanto dicendo che, tormentato come sono sempre dalla mia memoria, ho meditato molto spesso nello stesso senso.

Un leggero bussare alla porta pose fine alla mia vaga fantasticheria; mi infilai gli stivali e chiamai:

— Avanti!

Una persona che badò bene a restare fuori dal mio campo visivo, per quanto fossi certo che si trattava del capo villaggio, spinse indietro la porta, ed una giovane donna entrò portando un vassoio d’ottone carico di piatti.

Fu soltanto quando la ragazza ebbe deposto il vassoio che mi accorsi che era completamente nuda, fatta eccezione per quelli che inizialmente scambiai per rozzi gioielli. E soltanto quando s’inchinò, portandosi le mani alla fronte nel gesto di saluto tipico del nord, vidi che le bande di metallo cupamente brillante intorno ai suoi polsi non erano braccialetti, bensì manette d’acciaio temprato congiunte da una catena.

— La tua cena, Grande Maestro — disse la ragazza, ed indietreggiò verso la porta fino a che potei notare la carne dei suoi tondi fianchi premuta contro il battente. Con una mano, la ragazza tentò di sollevare il chiavistello, ma, sebbene udissi il suo debole scricchiolare, la porta non cedette. Indubbiamente, la persona che l’aveva fatta entrare la stava tenendo chiusa dall’esterno.

— L’odore è delizioso — le dissi. — Hai cucinato tu?

— Qualche cosa. Il pesce e le frittelle.

Mi alzai in piedi, ed appoggiai Terminus Est alla rozza parete in modo da non spaventare la ragazza, quindi procedetti ad esaminare il pasto: una giovane anatra, tagliata e cotta alla griglia, il pesce citato dalla ragazza, le frittelle (che più tardi scoprii essere di farina mescolata a molluschi tritati), patate cotte nelle ceneri di un fuoco ed un’insalata di funghi e verdure.

— Niente pane — dissi, — niente miele e niente burro. Mi sentiranno.

— Speravamo, Grande Maestro, che le frittelle ti avrebbero soddisfatto.

— Mi rendo conto che non è colpa tua.

Era passato parecchio tempo da quando ero stato con Cyriaca, ed ora, per quanto avessi cercato di evitarlo, mi trovai ad osservare quella schiava. I lunghi capelli neri le arrivavano alla cintura, e la sua pelle aveva quasi lo stesso colore del vassoio che reggeva, eppure aveva la vita sottile, cosa rara fra le donne autoctone, ed il suo viso era piccante e perfino leggermente aguzzo. Agia, nonostante la pelle chiara e le lentiggini, aveva un viso decisamente più largo.

— Grazie, Grande Maestro. Lui vuole che rimanga qui e ti serva mentre mangi. Se non lo desideri, devi dirgli di aprire la porta e di lasciarmi uscire.

— Gli dirò — replicai, alzando la voce, — di allontanarsi dalla porta e di smetterla di origliare mentre conversiamo. Stai parlando del tuo padrone, suppongo, del capo di questo villaggio.

— Sì, di Zambdas.

— E qual è il tuo nome?

— Pia, Grande Maestro.

— E quanti anni hai, Pia?

Me lo disse, e sorrisi nello scoprire che aveva esattamente la mia stessa età.

— Ora tu mi devi servire, Pia. Io mi siederò là, vicino al fuoco, dove mi trovavo prima che tu venissi, e tu mi porterai il cibo. Hai mai servito a tavola, prima d’ora?

— Oh, sì, Grande Maestro, servo ad ogni pasto.

— Allora dovresti sapere come fare. Cosa mi raccomandi per primo… il pesce? — chiesi, e lei annuì. — Allora portamelo qui, ed anche il vino e qualcuna delle frittelle. Hai mangiato?

— Oh, no, ma non sarebbe giusto che io mangiassi con te — mi rispose, scuotendo il capo fino a far danzare i capelli neri.

— Eppure, vedo che riesco a contare parecchie costole.

— Sarei battuta per questo, Grande Maestro.

— Non finché io sarò qui, per lo meno. Comunque, voglio accertarmi che non sia stato messo in questo cibo qualcosa che io non darei neppure al mio cane, se lo avessi ancora. Il vino sarebbe il candidato ideale, credo; dovrebbe essere grezzo ma dolce, come la maggior parte dei vini di campagna. — Riempii a metà il boccale di pietra e lo porsi alla ragazza. — Bevilo, e se non cadrai a terra in preda alle convulsioni, lo assaggerò anch’io.

Pia ebbe qualche difficoltà a trangugiare il vino, ma alla fine ci riuscì, e mi restituì il boccale con occhi lacrimosi. Allora mi versai un po’ di vino a mia volta e lo trovai cattivo come mi ero aspettato.

Feci quindi sedere Pia accanto a me e le feci mangiare uno dei pesci che aveva fritto con le sue mani, e, quando ebbe finito, ne mangiai un paio anch’io: i pesci erano tanto più buoni del vino quanto il volto delicato di Pia era più bello di quello del vecchio capo villaggio, erano certo stati pescati quel giorno ed in acque molto più pulite e profonde di quelle fangose del Gyoll, da cui veniva il pesce che ero solito mangiare nella Cittadella.

— Incatenano sempre i loro schiavi, qui? — le chiesi, mentre ci dividevamo le frittelle. — Oppure tu sei stata particolarmente ribelle, Pia?

— Io appartengo al popolo del lago — mi rispose, come se fosse sufficiente, il che indubbiamente era per chi avesse avuto familiarità con la situazione locale.

— Penserei che questa gente sia il popolo del lago — replicai, indicando con un gesto la casa ed il resto del villaggio.

— Oh, no, questo è il popolo delle rive. Il nostro popolo vive sul lago, su isole, ma qualche volta il vento spinge le nostre isole vicino alla riva, e Zambdas teme che io possa scorgere la mia casa e cercare di raggiungerla a nuoto. La catena è pesante… vedi com’è lunga… ed io non me la posso togliere, e così il suo peso mi farebbe annegare.

— A meno che tu non trovassi un pezzo di legno cui appoggiarne il peso mentre nuoti con i piedi — obiettai, ma fece finta di non sentire.

— Ti andrebbe un pezzo di anatra, Gran Maestro?

— Sì, ma a patto che tu ne mangi prima un po’, e prima ancora voglio che tu mi parli di queste isole. Hai detto che il vento le spinge qui? Confesso di non aver mai sentito parlare di isole mosse dal vento.

Pia stava fissando con desiderio l’anatra, che doveva essere considerata una delicatezza prelibata in quella parte del mondo.

— Ho sentito dire che ci sono isole che non si muovono. Deve essere una cosa molto antipatica, credo, e non ne ho mai vista una. Le nostre isole si spostano da un luogo all’altro, e talvolta noi stendiamo vele fra gli alberi per farle viaggiare più in fretta. Tuttavia, non si muovono molto bene sotto la spinta del vento perché non hanno un fondo fatto come quello delle barche, ma fondi insulsi come quelli delle vasche da bagno, e talvolta si rovesciano.

— Voglio vedere le tue isole, prima o poi, Pia — le dissi, — e voglio anche vederti tornare ad esse, dato che mi sembra che è là che desideri andare. Devo qualcosa ad un uomo dal nome molto simile al tuo, e perciò cercherò di aiutarti prima di lasciare questo luogo. Nel frattempo, farai meglio ad aumentare le tue forze con un po’ di quell’anatra.

Ne prese un pezzo, e, dopo aver inghiottito qualche boccone, cominciò a staccare porzioni di carne che mi diede con le sue dita. Era molto buona, ancora fumante e ripiena di aromi delicati che mi ricordavano il gusto del prezzemolo, forse a causa delle piante acquatiche di cui quelle anatre si nutrivano. Quando ebbi mangiato quasi un’intera coscia, presi qualche boccone d’insalata per pulirmi il palato.

Credo di aver mangiato in seguito ancora un po’ di anatra, poi una figura nel fuoco attirò la mia attenzione. Un frammento di legno consumato, ardente di calore, era caduto da uno dei ceppi nelle ceneri sotto la grata, ma, invece di rimanere là e di divenire infine nero e spento, parve raddrizzarsi e trasformarsi in Roche, con i suoi capelli rossi tramutati in fiamma vera, Roche che teneva in mano una torcia come era solito fare quando da ragazzi andavamo a nuotare nella cisterna sotto il Forte della Campana.

Mi parve talmente straordinario vederlo là, ridotto ad un ardente micromorfo, che mi volsi verso Pia per indicarglielo. Ebbi l’impressione che la ragazza non avesse visto nulla, ma Drotte, non più alto del mio pollice, era fermo sulla sua spalla, mezzo nascosto fra i suoi fluenti capelli neri. Quando tentai di dire a Pia che Drotte era là, mi trovai a parlare in una nuova lingua, sibilando, grugnendo e schioccando la lingua. Non provai paura per nessuna di queste cose, solo un distaccato senso di meraviglia.

Riuscivo a capire che non mi stavo esprimendo nel normale linguaggio umano, ed osservavo il volto inorridito di Pia come se fosse stato un antico dipinto nelle gallerie del vecchio Rudisind, nella Cittadella. Eppure, non riuscivo a tramutare i suoni che emettevo in parole, e neppure a bloccarli. Pia urlò.

La porta si spalancò. Era rimasta chiusa per così tanto tempo che mi ero quasi dimenticato che non poteva essere chiusa a chiave, ma ora era aperta e due figure erano ferme sulla soglia. Quando la porta si aprì, essi erano uomini, uomini le cui facce erano state sostituite da lisce pellicce simili a quelle di due otarie, ma pur sempre uomini. Un momento più tardi, erano diventati piante, alti steli di viridiana da cui sporgevano le foglie, stranamente angolate e taglienti come rasoi, dell’avern. Ragni, neri e morbidi e dalle gambe multiple si nascondevano là. Tentai di alzarmi dalla sedia, ed essi mi gettarono addosso larghe ragnatele splendenti alla luce del fuoco. Ebbi solo il tempo di scorgere e di ricordare il volto di Pia, con gli occhi dilatati e la bocca delicata raggelata in un cerchio inorridito, prima che una Pellegrina con un becco d’acciaio piombasse su di me e mi strappasse l’Artiglio dal collo.

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