Venni rinchiuso al buio per un periodo di tempo che più tardi scoprii essere durato tutta la notte e gran parte del mattino successivo. Eppure, sebbene dove giacevo fosse buio, inizialmente non me ne resi conto, perché le mie allucinazioni non avevano bisogno della luce di una candela. Le ricordo ancora, così come ricordo ogni cosa, ma non ti annoierò, mio ultimo lettore, con l’intero catalogo dei fantasmi che vidi, anche se sarebbe per me molto facile descriverli qui. Quello che non è facile, è esprimere i miei sentimenti relativamente ad essi.
Sarebbe stato un grande sollievo per me poter credere che quei fantasmi erano tutti in qualche modo creati dalla droga somministratami (che era, come intuii allora e come appresi più tardi, quando potei interrogare coloro che curavano i feriti dell’esercito dell’Autarca, contenuta nei funghi affettati nella mia insalata), così come i pensieri e la personalità di Thecla, confortanti a volte e disturbanti in altre occasioni, erano stati contenuti nel frammento della sua carne che avevo mangiato al banchetto di Vodalus. Eppure, sapevo che non poteva essere così, e che tutte le cose che vedevo, alcune divertenti, altre orribili e terrificanti, altre ancora semplicemente grottesche, erano un prodotto della mia mente. O di quella di Thecla, che ora faceva parte della mia.
O piuttosto, come iniziai a comprendere là nell’oscurità, mentre osservavo una parata di donne della corte… esultanti estremamente alte e piene della rigida grazia delle porcellane costose, i volti incipriati con polvere di perle e di diamanti e gli occhi allargati, come lo erano stati quelli di Thecla, dall’applicazione di minuscole dosi di certi veleni durante l’infanzia… prodotti della mente che ora esisteva come combinazione delle menti che erano state la sua e la mia.
Severian, l’apprendista che ero stato, il giovane uomo che nuotava sotto il Forte della Campana, che una volta era quasi affogato nel Gyoll, che aveva vagabondato da solo nei giorni estivi nella necropoli in rovina, che aveva dato alla Castellana Thecla, una volta giunto al nadir della sua disperazione, il coltello rubato, era scomparso.
Ma non era morto. Perché aveva supposto che ogni vita dovesse terminare con la morte e mai con qualcosa d’altro? Non era morto, ma era svanito, così come una singola nota svanisce per non riapparire mai più quando diviene un’indistinguibile ed inseparabile parte di qualche melodia. Quel giovane Severian aveva odiato la morte, e per misericordia dell’Increato, la cui pietà in effetti (come è saggiamente detto in molti posti) ci confonde e ci distrugge, non era morto.
Le donne volsero i lunghi colli a guardarmi: i loro volti ovali erano perfetti, simmetrici, privi di espressione eppure lascivi. All’improvviso compresi che esse non erano… o almeno non erano più… le castellane della Casa Assoluta, ma erano divenute invece le cortigiane della Casa Azzurra.
Per qualche tempo, così mi parve, la parata di quelle donne seducenti ed inumane continuò, e, a ciascun battito del mio cuore (di cui in quel momento ero consapevole come non lo ero mai stato prima o come non lo sarei più stato, perché mi pareva di avere un tamburo che mi sussultava in petto) esse invertivano i loro ruoli senza mutare neppure il più piccolo dettaglio del loro aspetto. Come mi è talvolta capitato, in sogno, di capire che una certa figura era in effetti qualcun altro cui non somigliava affatto, così sapevo che un momento quelle donne erano gli ornamenti della presenza autarchiale, ed il momento successivo erano donne in vendita per una notte in cambio di una manciata di oricalchi.
Durante tutto quel tempo, e nei periodi molto più lunghi che lo precedettero e lo seguirono, rimasi in uno stato di notevole disagio. Le ragnatele, che gradualmente identificai per reti da pesca, non erano state rimosse, ma ero stato anche legato con corde, cosicché avevo un braccio inchiodato contro un fianco, e l’altro piegato in modo tale che le dita della mano, che presto s’intorpidirono, mi toccavano quasi il volto. Al culmine dell’effetto della droga, ero divenuto incontinente, ed ora avevo i calzoni inzuppati di urina fredda e puzzolente. Man mano che le mie allucinazioni si fecero meno violente e gli intervalli di lucidità più lunghi, la miseria della mia situazione mi afflisse maggiormente, e cominciai a temere quello che mi sarebbe potuto accadere quando infine mi avrebbero tirato fuori da quel magazzino privo di finestre in cui mi avevano gettato. Supponevo che il capo del villaggio avesse appreso da qualche staffetta che io non ero colui che pretendevo di essere, e certo anche il fatto che stavo sfuggendo la giustizia. In quelle circostanze, potevo solo chiedermi se mi avrebbe giustiziato il capo villaggio stesso (indubbiamente mediante strangolamento, in un luogo come quello), o se questi mi avrebbe consegnato a qualche etnarca o rispedito a Thrax. Decisi di togliermi io stesso la vita se mi si fosse offerta quell’opportunità, ma la cosa mi sembrava tanto improbabile che mi sentivo già morire dalla disperazione.
Finalmente, la porta si aprì, e la luce che entrò, per quanto fosse solo quella proveniente da una stanza in penombra della casa dai muri spessi, mi parve acccecante. Due uomini mi trascinarono fuori come se fossi stato un sacco di farina. Avevano folte barbe, e supposi che fossero state quelle barbe a farmi pensare a pellicce di animali, quando essi avevano aggredito Pia e me. Mi misero in piedi, ma le gambe non mi reggevano e quindi furono costretti a slegarmi ed a togliere le reti che avevano avuto ragione di me là dove la rete mentale di Typhon aveva fallito. Quando fui di nuovo in grado di reggermi, mi diedero una ciotola d’acqua ed una striscia di pesce salato.
Dopo qualche tempo, entrò il capo del villaggio. Per quanto avesse assunto lo stesso atteggiamento pieno d’importanza che indubbiamente usava quando trattava gli affari del villaggio, l’uomo non riusciva ad allontanare un certo tremore dalla sua voce: non potevo capire perché mai dovesse avere ancora paura di me, ma era evidente che ne aveva. Di conseguenza, dal momento che non avevo nulla da perdere a tentare, gli ordinai di liberarmi.
— Questo non lo posso fare, Grande Maestro — mi rispose. — Sto agendo in base ad istruzioni.
— Posso chiederti chi ha osato ordinarti di agire in questo modo verso un rappresentante del tuo Autarca?
— Ho avuto istruzioni dal Castello. — L’uomo si schiari la gola. — Il mio uccello messaggero ha portato lassù il tuo zaffiro la notte scorsa, e questa mattina è tornato un altro uccello con un segno che significava che dobbiamo condurti là.
Dapprima supposi che intendesse parlare del Castello di Acies, dove uno degli squadroni di dimarchi aveva il quartier generale, ma, dopo un momento, mi resi conto che qui, a quaranta leghe almeno di distanza dalle fortificazioni di Thrax, era molto improbabile che il mio interlocutore potesse essere tanto dettagliato.
— Di che castello si tratta? — chiesi. — E le tue istruzioni precludono la possibilità che io mi possa ripulire e faccia lavare i miei abiti prima di presentarmi?
— Suppongo che si possa fare — replicò, incerto, il capo villaggio, e poi, rivolto ad uno degli uomini, chiese: — Com’è il vento?
L’uomo rispose con una mezza scrollata di spalle che, pur non significando nulla per me, parve contenere una qualche informazione per il capo del villaggio.
— D’accordo — mi disse questi. — Non ti possiamo liberare, ma laveremo i tuoi abiti e ti daremo qualcosa da mangiare, se lo desideri. — Mentre si accingeva ad andarsene, si volse verso di me con un’espressione quasi apologetica sul volto. — Il Castello è vicino, Grande Maestro, mentre l’Autarca è lontano. Noi abbiamo avuto grandi difficoltà nel passato, ma ora siamo in pace.
Avrei voluto discutere con lui, ma non me ne diede l’opportunità e si chiuse la porta alle spalle.
Pia, ora vestita con una camiciola lacera, venne da me poco tempo dopo. Fui costretto a sottomettermi all’indegnità di essere spogliato e lavato da lei, ma riuscii ad avvantaggiarmi della cosa approfittandone per sussurrarle se poteva fare in modo che la mia spada venisse inviata dove stavo per essere portato io… perché speravo di poter fuggire, anche a costo di rivelare al padrone del castello misterioso la mia situazione e di offrirgli di unire la mia forza alla sua. Così come aveva ignorato le mie parole quando le avevo suggerito di appoggiare il peso della catena su un pezzo di legno per poter fuggire a nuoto, anche ora Pia non mostrò di avermi udito; ma un turno di guardia più tardi, mentre io, rivestito, venivo condotto verso una barca alla presenza dell’intero villaggio, Pia raggiunse di corsa la nostra piccola processione portando Terminus Est fra le braccia. Evidentemente, il capo villaggio aveva sperato di potersi tenere quella bella spada e la sgridò; ma io riuscii ad avvertirlo, mentre ero trascinato a bordo, che non appena fossi giunto al castello, avrei informato chiunque mi avesse accolto dell’esistenza della mia spada. Alla fine, il capo villaggio si arrese.
La barca era di un tipo che non avevo mai visto prima. Per la sua forma, avrebbe potuto essere uno xebec, appuntito a prua ed a poppa e largo nel centro, con una lunga poppa ricurva ed una prua ancor più lunga. Peraltro, la bassa chiglia era costruita con fasci di resistenti canne legate fra loro, fino a formare una specie di traliccio. In un involucro così fragile non poteva essere installato un albero convenzionale, ed al suo posto c’erano tre pali legati a formare un triangolo, la cui stretta base andava da una frisata all’altra. I lunghi lati isosceli sostenevano un bozzello che serviva, come stava accadendo mentre io ed il capo villaggio salivamo a bordo, per issare un pennone incrinato cui era fissata una vela di lino a larghe strisce colorate. Il capo villaggio teneva ora la mia spada, ma, non appena l’ormeggio venne sganciato, Pia balzò nella barca facendo tintinnare la sua catena.
Il capo villaggio era furioso e la colpì, ma non è cosa facile manovrare la vela di un’imbarcazione di quel genere e farla girare subito su se stessa, così alla fine, pur scacciandola, piangente, a poppa, il capo villaggio permise alla ragazza di rimanere. Mi azzardai allora a chiedergli come mai Pia fosse voluta venire con noi, pur supponendo di saperlo già.
— Mia moglie è dura con lei quando io non ci sono — mi rispose. — La picchia e la obbliga a fregare per terra tutto il giorno. Naturalmente, questo è un bene per la bambina, e la rende felice il vedermi tornare a casa. Ma lei preferisce venire con me, e non la posso certo biasimare.
— Né la biasimo io — replicai, cercando di girare la faccia per evitare il suo alito rancido. — Tra parentesi, così arriverà vicino al castello, che suppongo non abbia mai visto.
— Ne ha visto le mura centinaia di volte. Lei proviene dal popolo del lago senza terra, e quella gente viene sospinta in giro dal vento, per cui vedono di tutto.
Se il popolo del lago era sospinto dal vento, così lo eravamo anche noi. Un’aria pura e sottile gonfiò la vela a righe, fece rollare perfino l’ampia carena e ci sospinse rapida sull’acqua fino a quando il villaggio svanì all’orizzonte… anche se i bianchi picchi delle montagne erano ancora visibili e sembravano levarsi dal lago stesso.