XXXVIII L’ARTIGLIO

Quella notte, gli uomini del lago saccheggiarono il castello; io non mi unii a loro e non dormii all’interno di quelle mura. Al centro della macchia di pini dove avevamo in precedenza tenuto consiglio, trovai un punto così ben protetto dai rami che il sottostante tappeto di aghi secchi era ancora asciutto. Mi distesi là dopo aver lavato e fasciato le mie ferite. L’impugnatura della spada che era stata mia, e prima ancora del Maestro Falaemon, giaceva accanto a me, cosicché ebbi l’impressione di dormire con una cosa morta; ma questo non mi procurò alcun sogno.

Mi destai con la fragranza dei pini nelle narici. Urth aveva volto quasi completamente la faccia verso il sole; il corpo mi faceva male, e gli innumerevoli tagli causati dalle schegge di pietra bruciavano e pungevano, ma quella era la giornata più calda che avessi mai sperimentato da quando avevo lasciato Thrax per avventurarmi sulle montagne. Uscii dal boschetto e vidi il Lago Diuturna che brillava al sole e l’erba novella che cresceva fra le pietre.

Sedetti su una roccia sporgente, con la massa del muro del castello di Baldanders che si levava alle mie spalle ed il lago azzurro disteso ai miei piedi; per l’ultima volta, rimossi l’estremità della lama rovinata che era stata Terminus Est dalla bella impugnatura di argento ed onice. È la lama a personalizzare una spada, e Terminus Est non esisteva più, ma io portai l’impugnatura con me per il resto del viaggio, anche se bruciai la fodera di pelle umana. Un giorno, quell’impugnatura reggerà un’altra spada, anche se non potrà essere altrettanto perfetta e non sarà mia.

Baciai ciò che rimaneva della mia lama e lo gettai nel lago.

Poi, iniziai la mia ricerca fra le rocce. Avevo solo una vaga idea della direzione in cui Baldanders aveva gettato l’Artiglio, ma sapevo che aveva mirato verso il lago, e, sebbene lo avessi visto superare il muro di cinta, ero convinto che anche un braccio possente come quello del gigante non poteva essere riuscito a far raggiungere l’acqua ad un oggetto tanto piccolo.

Scoprii ben presto, tuttavia, che se era caduto nel lago, l’Artiglio era perduto per sempre, perché l’acqua aveva una profondità di molti ells in ogni punto. Comunque, mi sembrava ancora possibile che l’Artiglio non avesse raggiunto il lago e si fosse incastrato in qualche crepaccio che ne soffocava la luminosità.

E mi misi a cercare, timoroso di chiedere agli uomini del lago di aiutarmi, e timoroso di sospendere le ricerche per riposare o mangiare, per paura che qualcun altro trovasse la gemma. Scese la notte, accompagnata dal grido del tuffolo che salutava lo svanire della luce, e gli uomini del lago mi offrirono di condurmi alle loro isole, ma io rifiutai. Essi temevano che la gente della riva arrivasse, o che stesse organizzando un attacco per vendicare Baldanders (non avevo osato dire loro che sospettavo che il gigante non fosse morto e che vivesse ancora sotto le acque del lago), e così alla fine, dietro mio incitamento, mi lasciarono solo, a continuare a frugare carponi fra le rocce appuntite del promontorio.

Poi, fui troppo stanco per continuare a cercare al buio, e mi sistemai su una sporgenza di pietra per attendere lo spuntare del giorno. Di tanto in tanto, mi sembrava di vedere una luce azzurra brillare in qualche fessura vicina o nelle acque sottostanti, ma ogni volta che tentavo di stendere la mano per prenderla o cercavo di alzarmi e camminare verso il bordo della sporgenza per guardare giù, mi svegliavo con un sussulto e scoprivo di aver sognato.

Un centinaio di volte mi domandai se qualcun altro avesse trovato la gemma mentre io dormivo sotto il pino, ed imprecai contro me stesso per aver dormito; ed un centinaio di volte ancora rammentai a me stesso come sarebbe stato meglio per la gemma essere rinvenuta da qualcuno piuttosto che andare perduta per sempre.

Come le carogne, d’estate, attirano le mosche, così la corte attira saggi spuri, filosofi, ed acosmisti che vi rimangono fintanto che i loro scopi ed il loro ingegno sono in grado di mantenerli, nella speranza (all’inizio) di essere ricevuti dall’Autarca e (in seguito) di ottenere la posizione di tutore presso qualche famiglia di esaltati. A sedici anni circa, Thecla si era sentita attratta, come credo accada spesso alle giovani donne, dalle loro letture di teogonia, todicia e simili, e ne rammento in particolare una in cui una pheobad proponeva come verità estrema l’antica teoria filosofica dell’esistenza di tre Adonai, quella della città (o del popolo), quella dei poeti e quella dei filosofi. Il suo ragionamento era che fin dall’inizio della consapevolezza umana (se tale inizio c’era mai stato) numerose persone, nelle tre categorie, avevano tentato di penetrare il segreto del divino. Se esso non esiste, lo avrebbero scoperto già da molto tempo; se esso esiste, non è possibile che la Verità stessa li guidi fuori strada. Eppure, le credenze della popolazione, le introspezioni dei rapsodisti e le teorie dei metafisici sono così divergenti che ben pochi di loro riescono anche lontanamente a comprendere quel che dicono gli altri, e qualcuno, che non sapesse nulla di nessuna delle loro idee, potrebbe ben credere che non esista fra esse la minima connessione.

Non potrebbe essere, chiedeva la pheobad (ed ancora ora non son certo di conoscere la risposta), che invece di viaggiare, come si suppone, lungo le loro tre strade verso una medesima conclusione, essi stiano invece avanzando verso tre conclusioni completamente diverse? Dopo tutto, nella vita reale, quando vediamo tre strade che partono dallo stesso crocevia, non presumiamo mai che puntino tutte e tre verso la stessa meta.

Trovavo allora (e trovo ancora) che questa supposizione sia altrettanto razionale quanto è repellente, e che essa rappresenti tutto quel monomaniacale tessuto di argomentazioni, intrecciato così fittamente che dalla sua rete non può sfuggire la più piccola scintilla di luce né la più minuta obiezione, in cui la mente umana finisce per trovarsi invischiata ogniqualvolta l’argomento è tale che non sia possibile appellarsi in alcun modo ai fatti materiali.

In verità, l’Artiglio era quindi qualcosa d’incommensurabile. Nessuna quantità di denaro, nessun mucchio di arcipelaghi o imperi poteva accostarsi al suo valore più di quanto l’indefinita moltiplicazione di una distanza orizzontale potesse essere eguagliata ad una pari distanza verticale. Se esso era, come io credevo, un oggetto proveniente dall’esterno dell’universo, allora la sua luce, che io avevo visto tanto spesso brillare debolmente e talvolta con vigore, era in un certo senso la sola luce che noi possedessimo. Se esso era andato distrutto, saremmo rimasti ad annaspare nel buio.

Pensavo di aver sempre attribuito un elevato valore alla gemma per tutto il tempo che l’avevo posseduta, ma, mentre sedevo là, su quella sporgenza di pietra sovrastante le acque del Lago Diuturna immerse nel buio, mi resi conto di quanto fossi stato folle a portarla con me, attraverso tutti i miei selvaggi scontri e le mie pazze avventure, fino a quando l’avevo perduta. Poco prima dell’alba, giurai di togliermi la vita se non fossi riuscito a ritrovarla prima che scendesse nuovamente la notte.

Non saprei dire se sarei stato capace o meno di mantenere quel voto. Ho amato la vita da quando mi riesce di ricordare. (Fu, credo, proprio quell’amore per la vita a conferirmi l’abilità che possedevo nella mia arte, poiché non potevo sopportare di veder estinta quella fiamma che amavo, se non in un modo perfetto.) Certo amavo la mia vita, ora mescolata a quella di Thecla, quanto ognuno ama la propria, e, se avessi infranto quel voto, non sarebbe stata la prima volta che facevo una cosa simile.

Ma non ci fu bisogno di verificare. Verso la metà della mattinata di una delle giornate più belle che io abbia mai sperimentato, quando la luce del sole era una languida carezza ed il moto delle onde sottostanti una musica gentile, trovai la gemma… o ciò che ne rimaneva.

Si era frantumata sulle rocce; c’erano frammenti abbastanza grandi per adornare l’anello di un tetrarca e frammenti non più grandi delle pagliuzze luminose visibili nella mica, ma nulla di più. Piangendo, raccolsi quei frammenti uno per uno, e, quando mi accorsi che erano altrettanto inerti e privi di vita quanto i gioielli che i minatori portano ogni giorno alla superficie, i monili razziati dei progenitori da lungo tempo morti, li portai fino al lago e ve li gettai dentro.

Scesi per ben tre volte fino al limitare delle acque con una manciata di frammenti azzurri in mano, tornando ogni volta nel punto in cui avevo trovato la gemma spezzata per raccogliere gli altri; e, dopo il terzo viaggio, trovai, incastrata talmente bene fra due pietre che alla fine fui costretto a tornare al boschetto di pini per prendere qualche ramo con cui disincagliarla e tirarla fuori, una cosa che non era azzurra e non era una gemma, ma che ardeva di un’intensa luce bianca, come una stella.

Fu con curiosità, più che con reverenza, che la trassi fuori. Era così dissimile dal tesoro che avevo cercato… o, per lo meno, così dissimile dai frammenti azzurri che stavo raccogliendo… che fino a che non l’ebbi in mano non mi venne in mente che le due cose potessero essere collegate. Non saprei spiegare come fosse possibile per un oggetto di per sé nero emettere luce, ma questo lo faceva. Avrebbe potuto essere stato intagliato nel giaietto, tanto era scuro e lucido; eppure splendeva, un artiglio lungo quanto l’ultima falange del mio mignolo, crudelmente ricurvo ed appuntito, la realtà del cuore scuro contenuto all’interno della gemma, che doveva essere stata un semplice involucro per esso, una lipsanotheca o una coppella.

Rimasi per lungo tempo inginocchiato, con la schiena rivolta al castello, guardando quello strano, lucente tesoro e poi le onde e poi di nuovo l’oggetto, nel tentativo di afferrarne il significato. Vedendolo così, senza il suo involucro color zaffiro, avvertivo profondamente un effetto che non avevo mai percepito durante tutti i giorni, prima che mi fosse tolto nella casa del capo villaggio. Ogni volta che lo fissavo, esso sembrava cancellare i miei pensieri. Non come fanno il vino e certe droghe, che rendono la mente incapace di pensare, ma sostituendo il pensiero con una condizione più elevata, innalzandomi sempre più fino a che temetti che non sarei più riuscito a tornare allo stato cosciente che definisco normalità. Ripetutamente, distolsi a forza lo sguardo da esso, e, ogni volta che emersi alla realtà, ebbi l’impressione di aver ottenuto una qualche inesprimibile capacità introspettiva rispetto ad immense realtà.

Alla fine, dopo una lunga serie di queste coraggiose avanzate e timorose ritirate, arrivai a comprendere che non avrei mai raggiunto un’effettiva conoscenza in merito al minuscolo oggetto che tenevo in mano, e con quel pensiero (perché era un pensiero) pervenni ad un terzo stadio, uno stato di felice obbedienza priva di riflessione, poiché non c’era più nulla su cui riflettere, un’obbedienza a qualcosa che non sapevo cosa fosse e priva della minima sfumatura di ribellione. Quello stato permase per tutto quel giorno e per buona parte di quello successivo, che mi trovò ormai ben addentro sulle colline.

Qui mi fermo, dopo averti condotto, lettore, da una fortezza all’altra… dalla cintata città di Thrax, che domina il corso superiore dell’Acis, al castello del gigante, che dominava la spiaggia settentrionale del remoto Lago Diuturna. Thrax era stata per me la porta di accesso alle selvagge montagne… Così pure, questa torre solitaria doveva dimostrarsi un altro accesso… l’uscio stesso della guerra, di cui qui aveva avuto luogo una singola e distaccata schermaglia. Da quel tempo ad ora, quella guerra ha tenuto vincolata la mia attenzione quasi senza pausa.

Qui mi fermo. Se non desideri immergerti nella lotta al mio fianco, lettore, non ti biasimo. Non è una lotta facile.

Загрузка...