XIII SULLE MONTAGNE

La primavera era terminata e stava iniziando l’estate quando mi allontanai di soppiatto dal Capulus nella luce grigiastra, ma anche d’estate non fa mai caldo sulle montagne, salvo quando il sole picchia su di esse ed è vicino allo zenith. Tuttavia, non osai scendere nelle valli dove si annidavano i villaggi, e, per tutto il giorno, continuai a camminare, con il mio manto di fuliggine avvolto intorno ad una spalla perché sembrasse il più possibile l’abbigliamento di un eclettico. Smontai anche Terminus Est e la rimontai senza l’elsa, in modo che, vista da lontano, la spada nel fodero potesse essere scambiata per un bastone.

A mezzogiorno, il terreno su cui stavo avanzando era ormai tutto di pietra, e così diseguale da costringermi ad arrampicarmi più che a camminare; due volte scorsi sotto di me il bagliore di un’armatura, e, guardando giù, vidi drappelli di dimarchi galoppare lungo sentieri tanto pericolosi che la maggior parte delle persone non li avrebbero percorsi neppure a piedi, i loro mantelli scarlatti agitati dal vento. Non trovai piante commestibili e non incontrai altra selvaggina che non fossero uccelli da preda che volavano alti; del resto anche se avessi trovato qualcosa, non avrei avuto alcuna possibilità di abbatterla con la mia spada, e non avevo altre armi.

Tutto questo può sembrare un quadro piuttosto disperato, ma la verità è che io ero eccitato dal vasto panorama montano, lo scenario dell’impero dell’aria. Da bambini, non siamo in grado di apprezzare adeguatamente simili viste perché, non avendo ancora conservato nella nostra immaginazione spettacoli del genere, con le emozioni e le circostanze che li accompagnano, li percepiamo senza profondità psichica. Io osservavo adesso quelle vette coronate di nubi avendo nella mente il ricordo di Nessus come appariva dalla punta conica della nostra Torre di Matachin, e quello di Thrax come l’avevo vista dai bastioni del Castello di Acies, e, per quanto misera fosse la mia situazione, fui sul punto di svenire dal piacere.

Trascorsi quella notte raggomitolato al riparo di una nuda roccia. Non mangiavo da quando mi ero cambiato d’abito al Vincula, ed ora mi sembrava che fossero passate settimane, se non addirittura anni. In effetti, erano trascorsi solo pochi mesi da quando avevo portato quel consunto coltello da cucina alla povera Thecla ed avevo visto il suo sangue filtrare, come un verme carminio, sotto la porta della cella.

Se non altro, avevo scelto bene la pietra che mi riparava: essa bloccava il vento, cosicché, fintanto che rimanevo dietro di essa, avevo l’impressione di riposare nella quieta e gelida aria di una caverna, mentre solo un paio di passi a destra o a sinistra erano sufficienti ad espormi alla piena violenza del vento ed a gelarmi fino alle ossa, in un istante.

Dormii per circa un turno di guardia, credo, senza sognare nulla che rammentassi al risveglio, poi mi destai con l’impressione… che non era un sogno, ma quella sorta di consapevolezza priva di fondamento o di pseudoconsapevolezza che avvertiamo talvolta quando siamo stanchi o spaventati… che Hethor si stesse chinando su di me. Mi sembrava di sentire il suo respiro, fetido e gelido, sulla mia faccia e di vedere i suoi occhi, non più opachi, lampeggiare fissi nei miei. Quando fui perfettamente sveglio, vidi che le punte di luce che avevo scambiato per le sue pupille erano in realtà due stelle, grandi e molto brillanti nell’aria rarefatta e sottile.

Tentai di dormire ancora, chiudendo gli occhi e costringendomi a rammentare i luoghi più caldi e comodi che avevo conosciuto: la camera da artigiano che mi era stata data nella nostra torre e che mi era parsa così lussuosa, dopo il dormitorio degli apprendisti, perché singola e munita di morbide coperte; il letto che avevo una volta condiviso con Baldanders, la cui ampia schiena aveva proiettato un calore intenso come quello di una stufa; l’appartamento di Thecla nella Casa Assoluta; l’accogliente cameretta di Saltus in cui avevo alloggiato insieme a Jonas.

Nulla mi fu di aiuto: non riuscivo a dormire, ma non osavo continuare a camminare per timore di cadere in qualche precipizio a causa del buio. Trascorsi quindi il resto della notte a fissare le stelle; era la prima volta che avevo modo di osservare la maestà delle costellazioni che il Maestro Malrubius ci aveva spiegato quando io ero ancora il più piccolo degli apprendisti. Com’è strano il fatto che il cielo, che di giorno è un terreno immobile su cui si possono veder muovere le nubi, divenga di notte lo sfondo per il movimento di Urth, cosicché noi percepiamo il rotolare del pianeta sotto di noi, così come il marinaio percepisce sotto i suoi piedi il moto della marea. Quella notte, avvertii con tanta forza questo movimento che il continuo roteare del pianeta mi fece quasi venire le vertigini.

Era forte in me anche la sensazione che il cielo fosse un pozzo senza fondo in cui l’universo sarebbe precipitato per sempre. Avevo sentito dire che, se si fissano le stelle troppo a lungo, si prova la terribile sensazione di essere trascinati via da esse. Il mio timore… ed avevo paura… non era però quello generato dai soli remoti, ma piuttosto dal vuoto sbadigliante; in certi momenti il mio terrore arrivò ad un punto tale da spingermi ad afferrare la roccia con le dita gelate, perché mi sembrava di essere sul punto di precipitare dalla superficie di Urth. Indubbiamente, siamo tutti soggetti a questo tipo di timore, dal momento che si dice che non esista clima tanto mite da permettere alla gente di dormire all’aperto.

Ho già narrato come mi fossi svegliato con la sensazione che il volto di Hethor mi stesse fissando (credo perché avevo pensato molto ad Hethor da quando avevo parlato con Dorcas), e di come avessi scoperto, nell’aprire gli occhi, che di quel volto non rimaneva alcun particolare salvo le due stelle brillanti che avevo scambiate per occhi. Inizialmente, cercai di riconoscere le costellazioni, di cui avevo spesso letto i nomi, anche se avevo solo un’idea molto vaga della parte di cielo in cui era possibile individuarle. Dapprima, tutte quelle stelle mi parvero un tremendo ammasso di luci privo di lineamenti, per quanto splendido, come le scintille che scaturiscono da un fuoco, ma, naturalmente, cominciai ben presto a notare che alcune erano più luminose di altre e che i loro colori non erano per nulla uniformi. Poi, in modo inaspettato, dopo che le stavo fissando ormai da molto tempo, la forma di un perytone parve balzare fuori dalla massa altrettanto distintamente come se l’intero corpo dell’uccello fosse stato cosparso di una polvere di diamanti. L’istante successivo era scomparso, ma riapparve ben presto, e, con esso, altre forme, alcune corrispondenti alle costellazioni di cui avevo sentito parlare, altre che erano, temo, un prodotto esclusivo della mia immaginazione. Particolarmente chiara mi apparve un’amphisbaena, cioè un serpente con una testa a ciascuna estremità del corpo.

Quando tutti quegli animali celesti mi apparvero, rimasi incantato dalla loro bellezza, ma non appena mi fu chiaro (il che accadde ben presto) che non li potevo cancellare con un semplice atto di volontà, cominciai a sentirmi atterrito da essi come lo ero stato dal notturno abisso in cui quelle creature si muovevano. Eppure, questo non era un terrore semplicemente fisico ed istintivo come l’altro, ma piuttosto una sorta di filosofico orrore di fronte al pensiero di quel cosmo in cui erano state tracciate rozze immagini di bestie e di mostri, dipinte con soli fiammeggianti.

Dopo che mi fui coperto la testa con il mantello, cosa che fui costretto a fare per non impazzire, mi trovai a riflettere sui mondi che ruotavano intorno a quei soli. Tutti noi sappiamo che essi esistono, che molti di loro sono semplici ed interminabili pianure rocciose, altri sfere di ghiaccio o di colline di cenere solcate da fiumi di lava, come si dice che sia Abaddon; ma molti altri mondi, più o meno belli, sono abitati da creature discese dal ceppo umano o almeno non troppo diverse da noi. Inizialmente pensai a cieli verdi e ad erba azzurra ed a tutte quelle fantasie infantili che sono solite assalire la mente che cerca di concepire l’immagine di mondi diversi da Urth, ma alla fine mi stancai di quelle idee puerili e cominciai invece a riflettere sull’esistenza di società e forme di pensiero completamente dissimili dalle nostre, su mondi in cui tutti gli abitanti, sapendo di discendere da un’unica coppia di coloni, si trattavano come fratelli e sorelle, su mondi dove non c’era altra moneta corrente che l’onore, per cui ognuno lavorava solo per poter essere autorizzato ad associarsi con qualche uomo o donna che avesse salvato la comunità, su mondi, infine, in cui non esisteva più la lunga guerra combattuta fra gli uomini e le bestie. Insieme a questi pensieri, me ne vennero centinaia di altri nuovi… come la giustizia potesse essere eliminata là dove tutti si amavano, per esempio; come un mendicante che non possedeva più altro che la sua umanità potesse mendicare un po’ di onore, o come potesse riuscire a vestirsi ed a nutrirsi un popolo che non intendeva uccidere alcun animale senziente.

Quando mi ero reso per la prima volta conto, da ragazzo, del fatto che il verde cerchio della luna era in realtà una sorta di isola sospesa nel cielo, il cui colore derivava dalle foreste, ormai presenti da tempo immemorabile, piantate nei primi tempi dell’esistenza della razza dell’Uomo, era maturata in me la decisione di andare lassù, decisione cui si era aggiunta quella di visitare tutti gli altri mondi dell’universo, allorché ero arrivato a sapere della loro esistenza. Avevo abbandonato quel desiderio come fase (pensavo) del divenire adulto, quando avevo appreso che soltanto persone che occupavano posizioni sociali per me apparentemente irraggiungibili riuscivano ad abbandonare la superficie di Urth.

Ora che quell’antico desiderio si era riacceso, sebbene il passare degli anni lo avesse fatto divenire ancora più assurdo (perché certo il piccolo apprendista che ero stato un tempo aveva avuto più possibilità di viaggiare fra le stelle di quante ne avesse il fuorilegge fuoricasta che ero divenuto), si era fatto molto più forte e deciso, perché nel frattempo avevo imparato quanto fosse stupido limitare al possibile i propri desideri. Sarei andato, ero deciso a farlo. Per il resto della mia vita sarei stato incessantemente pronto a cogliere ogni opportunità in quel senso, per quanto minima. Già una volta mi ero trovato da solo in presenza degli specchi di Padre Inire, e Jonas, molto più saggio di me, si era gettato senza esitazione nella marea di fotoni. Chi poteva dire che non sarei più riuscito a trovarmi da solo davanti a quegli specchi?

Con quel pensiero in mente, mi tolsi il mantello dalla testa, deciso a guardare di nuovo le stelle, e scoprii che la luce del sole era trapelata fra le cime delle montagne, attenuando il brillio delle stelle fino a farle sembrare insignificanti. I volti titanici che incombevano su di me erano ora soltanto quelli dei governanti di Urth da lungo tempo deceduti, intagliati nei monti e resi sparuti dal tempo, le guance incavate dalle valanghe.

Mi alzai in piedi e mi stiracchiai. Era evidente che non potevo trascorrere quel giorno senza mangiare, come avevo trascorso la notte precedente, ed era ancor più evidente che non avrei potuto passare all’addiaccio la prossima notte, riparato solo dal mio mantello. Pertanto, pur non osando ancora discendere nelle valli popolate, predisposi il mio cammino in modo che mi portasse verso le alte foreste che potevo vedere sui pendii sottostanti il punto in cui mi trovavo.

Impiegai la maggior parte della mattinata a raggiungere le foreste, e, quando finalmente arrivai alle betulle nane che ne costituivano l’avanguardia, notai che la foresta, pur essendo situata molto più in pendenza di quanto mi fosse parso, conteneva, verso il centro, dove il suolo era più pianeggiante e quindi il terriccio più ricco, alberi di considerevole altezza, così ravvicinati che gli spazi fra i vari tronchi erano di poco più larghi dei tronchi stessi. Quelle piante non avevano, naturalmente, le foglie lucide caratteristiche degli alberi delle foreste tropicali che ci eravamo lasciati alle spalle sulla riva meridionale del Cephissus. Queste erano per lo più conifere dall’irta corteccia, alberi alti e dritti che si allontanavano dalla montagna e mostravano chiaramente sulle loro superfici le ferite lasciate dalle battaglie sostenute contro il vento ed i lampi.

Ero mosso dalla speranza di riuscire ad imbattermi in qualche taglialegna o cacciatore, dai quali avrei potuto pretendere quell’ospitalità che tutti (almeno così ama credere la gente di città) si sentono obbligati ad offrire in terre selvagge. Per parecchio tempo, tuttavia, quella mia speranza venne delusa; mi soffermai ripetutamente ad ascoltare, nella speranza di udire il suono di un’ascia o un abbaiare di cani; ma c’era soltanto silenzio, ed in effetti, sebbene quegli alberi avrebbero potuto fornire una gran quantità di legname, non notai alcun segno che indicasse che venivano tagliati.

Alla fine, m’imbattei in una piccola sorgente di acqua gelida che serpeggiava fra gli alberi, fiancheggiata da tenere felci nane e da erba sottile come capelli. Bevvi a volontà, e, per forse mezzo turno di guardia seguii il suo corso giù per il pendio attraverso una successione di cascate in miniatura e di laghetti montani, rimanendo meravigliato, come indubbiamente era accaduto ad altri nel corso d’innumerevoli chiliadi, nel notare che il rivoletto s’ingrandiva, pur non avendo raccolto le acque di alcun visibile affluente.

Alla fine, il ruscello si era ingrossato al punto di minacciare anche gli alberi più grossi, ed io vidi più avanti il tronco di uno di essi, largo almeno quattro cubiti, che era caduto attraverso il ruscello che ne aveva minato le radici. Mi avvicinai senza nessuna precauzione, perché non c’era alcun rumore che mi potesse mettere in guardia, e, sostenendomi ad uno spuntone, balzai sul tronco con un volteggio.

Per poco non precipitai in un oceano d’aria. I bastioni del Castello di Acies, dall’alto dei quali avevo scorto Dorcas in preda alla disperazione, sembravano la semplice balaustra di un balcone se paragonati all’altezza cui ora mi trovavo, e certo il Muro di Nessus è la sola opera dell’uomo che possa rivaleggiare con quel precipizio. Il ruscello cadeva silenzioso in un golfo d’aria che lo trasformava in spuma, in modo da farlo svanire in un arcobaleno. Gli alberi sottostanti parevano giocattoli costruiti da un padre indulgente per il suo bambino, e, al loro limitare, con un piccolo campo alle spalle, vidi una casa non più grande di un ciottolo, con uno sbuffo di fumo, simile allo spettro del nastro d’acqua che era precipitato e morto, che si levava per poi scomparire anch’esso nel nulla.

All’inizio, la discesa dall’altura mi parve fin troppo semplice, poiché la spinta che mi ero dato mi aveva quasi portato al di là del tronco caduto, che giaceva a sua volta per metà oltre l’orlo del precipizio; quando ebbi recuperato l’equilibrio, tuttavia, la discesa mi parve impossibile. La superficie di roccia era liscia per vasti tratti, per quel che potevo vedere, e, anche se con una corda avrei potuto calarmi giù e raggiungere così la casa prima di notte, io non avevo una corda con me, e poi non sarebbe stato molto saggio affidarsi ad una fune abbastanza lunga da superare quel baratro.

Dedicai comunque qualche tempo all’esplorazione della vetta della collina, ed alla fine scoprii un sentiero che, per quanto molto stretto e ripido, mostrava inconfondibili segni di uso corrente. Non riferirò i dettagli della discesa, che in realtà hanno ben poco a che fare con la mia storia, anche se, come si può immaginare, in quel momento richiesero tutta la mia concentrazione. Imparai ben presto a guardare soltanto il sentiero e la parete dell’altura, alla mia destra o a sinistra, a seconda delle svolte della pista, che, per la maggior parte della sua lunghezza, era una ripida discesa larga un cubito ed anche meno. Di tanto in tanto, il sentiero si trasformava in una serie di scalini tagliati nella viva roccia, ed in un punto c’erano solo rientranze per le mani ed i piedi, che discesi come fossero stati una scaletta. Quegli appigli erano molto più comodi, riflettei, se considerati obiettivamente, delle crepe cui mi ero aggrappato di notte all’imboccatura della miniera degli uomini-scimmia, e stavolta mi ero almeno risparmiato il trauma di essere preso di mira da quadrelle di balestre; ma l’altitudine era cento volte maggiore, e faceva girare la testa.

Forse perché ero tanto concentrato nella mia faticosa discesa da essere costretto ad ignorare il precipizio sull’altro lato, divenni ben presto acutamente conscio della vasta e sezionata fetta di crosta del mondo lungo la quale stavo strisciando. Nei tempi antichi… così avevo letto una volta su uno dei testi consegnatimi dal Maestro Palaemon, la terra di Urth era viva, e gli spostamenti del suo cuore vivo facevano eruttare le pianure come fontane e talvolta spalancavano di notte il mare fra isole che fino al precedente tramonto erano state un unico continente. Ora si dice che quel cuore sia morto e si stia raffreddando e riducendo all’interno del suo involucro di pietra come il corpo di una vecchia, in una di quelle case abbandonate che Dorcas mi aveva descritto, che si fosse mummificato nell’aria immota e secca. Così, si dice, sta accadendo ad Urth, e qui una metà della montagna si era staccata dalla sua controparte ed era precipitata ad almeno una lega di distanza.

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