XXXI IL POPOLO DEL LAGO

Pia ed io trascorremmo la notte su una delle isole galleggianti, dove io, che avevo amato tanto spesso Thecla quando era prigioniera ma non incatenata, amai Pia che era invece incatenata ma libera. In seguito, lei rimase distesa sul mio petto e pianse di gioia… non tanto, credo, per la gioia che potevo averle dato io, quanto per la gioia di essere libera, anche se la sua gente, gli isolani, che non possedevano altri metalli tranne quelli che ottenevano a mezzo di scambi o di razzie dal popolo della riva, non avevano gli attrezzi adatti a rimuovere le sue manette.

Ho sentito dire da uomini che hanno amato molte donne che alla fine essi erano arrivati a notare certe somiglianze fra alcune delle donne amate, ed allora per la prima volta scoprii che questo era vero, in base alla mia esperienza personale, perché il corpo sottile e la bocca avida di Pia mi rammentavano Dorcas. Ma era anche una cosa falsa, in una certa misura: Dorcas e Pia si somigliavano nell’amore così come talvolta si somigliano i volti di due sorelle, ma io non avrei mai confuso l’una con l’altra.

Quando ero arrivato sull’isola mi sentivo troppo stremato per apprezzare appieno la meraviglia che essa costituiva; poi era quasi calata la notte. Ancora oggi, tutto ciò che rammento è che la piccola barca venne tirata in secco e che andai in una capanna dove uno dei nostri salvatori accese un fuoco; là oliai Terminus Est, che gli isolani avevano preso al capo villaggio prigioniero e restituito a me. Ma, quando Urth girò nuovamente il suo volto verso il sole, fu un’esperienza meravigliosa stare in piedi, con una mano appoggiata all’aggraziato tronco di un salice e sentire tutta l’isola rollare sotto di me!

I nostri ospiti cucinarono un po’ di pesce per colazione, e prima che avessimo finito, arrivò una barca che trasportava due isolani con altro pesce e radici vegetali di un tipo che non avevo mai assaggiato prima. Le facemmo arrostire sotto la cenere e le mangiammo ancora calde: il loro sapore somigliava più che ad ogni altra cosa a quello delle castagne.

Arrivarono altre tre barche, poi un’isola con quattro alberi e vele quadrate legate ai rami di ciascuna pianta che la facevano sembrare un’intera flottiglia, se vista in lontananza. Il capitano era un uomo anziano, e costituiva l’autorità più simile ad un capo che quegli isolani possedessero. Il suo nome era Llibio, e, quando Pia me lo presentò, lui mi abbracciò come i padri fanno con i figli, qualcosa che prima di allora nessuno aveva mai fatto con me.

Dopo quell’abbraccio, tutti gli altri, Pia inclusa, si allontanarono da noi per permetterci di parlare privatamente, se tenevamo bassa la voce… alcuni uomini entrarono nella capanna ed il resto (ora erano una decina in tutto) si recò verso il punto più lontano dell’isola.

— Ho sentito dire che tu sei un grande combattente, un uccisore di uomini — iniziò a dire Llibio.

Gli spiegai che ero effettivamente un uccisore di uomini, ma non grande.

— È così. Ogni uomo combatte in risposta… per uccidere altri, eppure la sua vittoria non viene dall’uccidere quegli altri, bensì dall’uccidere una certa parte di se stesso.

— Tu — replicai, per far vedere che avevo compreso, — devi aver ucciso tutte le parti peggiori del tuo essere. Il tuo popolo ti ama.

— Anche di questo non ci si deve fidare. — Llibio fece una pausa, fissando l’acqua. — Noi siamo poveri e pochi, e se il popolo avesse prestato ascolto ad un altro in questi anni… — Scosse il capo.

— Ho viaggiato in luoghi lontani, ed ho osservato che di solito i poveri hanno più saggezza e virtù dei ricchi.

— Sei gentile. — Llibio sorrise. — Ma il nostro popolo ha ora tanta saggezza e virtù che ne può morire. Non siamo mai stati numerosi, e molti di noi sono periti nell’inverno passato, quando l’acqua si è gelata.

— Non avevo pensato a quanto debba essere difficoltoso l’inverno per voi, che non avete né lana né pelli, ma, ora che me lo hai fatto notare, vedo che deve essere davvero duro.

— Noi ci spalmiamo di grasso, che aiuta molto — replicò il vecchio, scuotendo il capo, — e le foche ci forniscono mantelli migliori di quelli che possiede il popolo della riva. Ma quando viene il ghiaccio, le nostre isole non si possono muovere, e il popolo della riva non ha bisogno di barche per raggiungerle e così ci può assalire in forze. Ogni estate noi li combattiamo quando vengono a prendere il nostro pesce, ma ogni inverno essi ci uccidono, giungendo sul ghiaccio a catturare schiavi.

Pensai allora all’Artiglio, che il capo villaggio mi aveva preso per inviarlo al castello e dissi:

— Il popolo di terra obbedisce al padrone del castello. Forse, se faceste la pace con lui, egli impedirebbe loro di attaccarvi.

— Una volta, quando io ero giovane, queste contese provocavano un paio di morti all’anno. Poi è giunto il costruttore del castello. Conosci la storia? — Scossi il capo. — Lui è giunto dal sud, come te, a quanto mi dicono. Aveva molte cose che la gente della riva desiderava, come tessuti, argento e attrezzi ben forgiati. Sotto le sue direttive, essi costruirono il castello, ed erano i nonni e i padri di coloro che formano oggi il popolo della riva. Usarono gli attrezzi a vantaggio di quell’uomo, e lui, come aveva promesso, permise loro di tenerli dopo che ebbero terminato il lavoro, e donò loro molte altre cose. Mentre lavoravano ancora, il padre di mia madre andò dalla gente della riva e chiese se non si accorgevano che si stavano creando un padrone con le loro stesse mani, dato che il costruttore del castello avrebbe potuto fare loro tutto quello che voleva e poi ritirarsi dietro le forti mura che essi avevano costruito per lui, dove nessuno l’avrebbe potuto raggiungere. Essi risero del padre di mia madre, e risposero che erano molti, il che era vero, e che il costruttore del castello era uno soltanto, il che era altrettanto vero.

Gli chiesi se avesse mai visto quel costruttore, e, se sì, che aspetto avesse.

— Una volta — mi rispose. — Era in piedi su una roccia e parlava al popolo della riva mentre io passavo con la mia barca. Posso dirti che era un ometto, un uomo che, se tu fossi stato là, non sarebbe arrivato più in alto della tua spalla. Non era un tipo tale da ispirare terrore. — Llibio fece un’altra pausa, gli occhi vacui che non vedevano l’acqua del lago ma i tempi remoti del passato. — Eppure, il terrore arrivò. Il muro esterno era stato completato, e il popolo della riva era tornato a dedicarsi alla caccia, alle chiuse ed ai greggi. Poi, il più importante fra loro venne da noi e disse che avevamo rubato i loro animali ed i loro bambini e che ci avrebbero distrutti se non li avessimo restituiti.

Llibio mi fissò in volto e mi strinse la mano nella sua che era dura come il legno. Guardando lui, io vidi anche gli anni ormai svaniti. Essi dovevano essere apparsi già abbastanza cupi allora, anche se il futuro che avevano generato… quel futuro in cui io sedevo con lui, la spada in grembo, ad ascoltare la sua storia… era ancora più cupo di quanto Llibio avesse potuto a quel tempo immaginare. Eppure, in quegli anni c’era stata anche gioia per lui, perché era un uomo giovane e forte, e, sebbene ora non stesse pensando a questo, il ricordo era nei suoi occhi.

— Noi rispondemmo che non divoriamo bambini, che non avevamo bisogno di schiavi che pescassero per noi e che non avevamo pascoli per il bestiame. Già allora, essi dovevano sapere che non eravamo colpevoli, perché non mossero guerra contro di noi. Ma quando le nostre isole si avvicinavano alla riva, sentivamo le loro donne piangere nella notte.

«In quei tempi, il giorno dopo la luna piena era un giorno di mercato, nel quale quelli di noi che lo desideravano andavano a riva a comprare coltelli e sale. Quando giunse il successivo giorno di mercato, vedemmo che la gente della riva aveva scoperto dov’erano finiti i bambini ed il bestiame, e che tutti mormoravano fra loro. Allora chiedemmo perché non andavano al castello e non lo attaccavano, dato che erano molti, ma essi presero invece i nostri figli, ed uomini e donne di tutte le età, e li incatenarono fuori dalle porte del villaggio, in modo che la loro gente non venisse catturata… o addirittura li condussero fino alle porte del castello e li legarono ad esse.

Mi azzardai a chiedere da quanto tempo durasse la cosa.

— Da molti anni… da quando io ero giovane, come ti ho detto. Qualche volta, la gente della riva combatteva, ma più spesso non lo faceva. Due volte giunsero guerrieri dal sud, inviati dal popolo orgoglioso che vive nelle alte case sulle rive meridionali. Mentre essi erano qui, i combattimenti cessarono, ma non ho idea di cosa si disse all’interno del castello. Il costruttore, di cui ti ho parlato, non venne mai più visto da nessuno, una volta che il castello fu completato.

Llibio attese che io dicessi qualcosa. Io avevo la sensazione, come mi capitava spesso nel parlare con gente più anziana di me, che le parole che avevo udito e quelle che lui aveva pronunciato fossero differenti, che nel suo discorso vi fosse un carico di sottintesi, di allusioni e di implicazioni altrettanto invisibile per me quanto lo era il suo respiro, come se il Tempo fosse stato una sorta di candido spirito che si ergeva in mezzo a noi e cancellava con le sue lunghe maniche la maggior parte di quanto veniva detto prima che io avessi potuto udirlo.

— Forse è morto — azzardai infine.

— Un malvagio gigante abita ora là, ma nessuno lo ha mai visto.

— Eppure — replicai, reprimendo a stento un sorriso, — direi che la sua presenza dovrebbe costituire un forte deterrente nell’impedire alla gente della riva di attaccare il castello.

— Cinque anni fa, essi lo attaccarono di notte come gli insetti che invadono un cadavere: bruciarono il castello e uccisero tutti coloro che vi trovarono dentro.

— Allora continuano a farvi guerra per abitudine?

— Dopo lo scioglimento delle nevi, quest’anno — replicò Llibio, scuotendo il capo, — la gente del castello è tornata. Aveva le mani piene di doni… ricchezze e le strane armi che tu hai rivolto contro il popolo della riva. Ci sono anche altri che vanno là, ma noi del lago non sappiamo se vanno in veste di padroni o di servitori.

— Vengono dal nord o dal sud?

— Vengono dal cielo — replicò Llibio, indicando là dove brillavano debolmente le stelle, sbiadite dalla maestà del sole, ma io pensai soltanto che intendesse dire che i visitatori erano giunti a bordo di velivoli e non chiesi altro.

Durante tutto il giorno, la gente del lago continuò ad affluire. Molti erano a bordo di barche come quella che aveva seguito il capo villaggio; ma altri scelsero di far navigare le loro isole fino a portarle vicino a quella di Llibio, cosicché ci trovammo come in mezzo ad un continente galleggiante. Non mi fu mai chiesto direttamente di guidarli contro la gente del castello, eppure, man mano che il giorno passava, cominciai a rendermi conto che questo era il loro desiderio ed essi cominciarono a capire che li avrei guidati. Nei libri, credo, queste cose avvengono convenzionalmente, per mezzo di fieri discorsi, ma la realtà delle cose talvolta è differente. Essi ammiravano la mia alta statura e la mia spada, e Pia aveva detto loro che ero un rappresentante dell’Autarca e che ero stato inviato a liberarli.

— Anche se siamo noi quelli che soffrono maggiormente — mi disse Llibio, — il popolo della riva è riuscito ad impossessarsi del castello. Sono più forti di noi in guerra, ma non tutto quello che hanno bruciato è stato ricostruito, ed essi non avevano un capo venuto dal sud.

Interrogai sia lui che gli altri in merito alle terre circostanti il castello, e spiegai che non avremmo attaccato fino a che la notte avesse reso difficile per le sentinelle scorgere il nostro avvicinarsi. Anche se non lo dissi, volevo attendere l’oscurità perché questo rendeva impossibile sparare con precisione; se il padrone del castello aveva dato al capo villaggio i proiettili del potere, mi sembrava probabile che avesse conservato per sé armi molto più efficaci.

Quando salpammo, ero alla testa di circa un centinaio di guerrieri, anche se la maggior parte di loro era armata di lance con la punta d’osso di foca, oppure di pachos o coltelli. Farebbe bene alla stima di me stesso se adesso scrivessi che avevo acconsentito a guidare quel piccolo esercito perché mosso da un senso di responsabilità e di preoccupazione per la loro situazione, ma non sarebbe vero. Né lo feci perché temessi quello che avrebbero potuto farmi se avessi rifiutato, anche se sospetto che, a meno di ricorrere ad un’elevata dose di diplomazia, fingendo di ritardare o di scorgere un qualche beneficio per gli isolani nel non combattere, mi sarei potuto trovare in una situazione davvero brutta.

La verità è che ero sottoposto ad una forza coercitiva maggiore di qualsiasi pressione da parte loro. Llibio portava intorno al collo un pesce intagliato in un dente, e, quando gli avevo chiesto cosa fosse, aveva risposto che era Oannes, e lo aveva coperto con la mano in modo che i miei occhi non lo potessero profanare, poiché lui sapeva bene che io non credevo in Oannes, che doveva certo essere il pesce-divinità di quel popolo.

In effetti, io non credevo in lui, eppure sentivo di sapere su Oannes tutto ciò che importava sapere. Sapevo che viveva nelle oscure profondità del lago, ma che lo si poteva veder balzare sulle onde durante le tempeste. Sapevo che era il pastore del profondo, che riempiva le reti degli isolani di pesce, e che gli assassini non potevano solcare le acque senza timore, perché Oannes sarebbe apparso accanto alla loro barca con occhi grandi come lune, e l’avrebbe fatta rovesciare.

Io non credevo in Oannes e non lo temevo, ma pensavo di sapere da dove venisse… sapevo che nell’universo esiste un potere che pervade tutto e che rispetto ad esso ogni altro potere è ombra. Sapevo che, in ultima analisi, la mia concezione di quel potere era altrettanto ridicola (ed altrettanto seria) quanto quella di Oannes. Sapevo che l’Artiglio gli apparteneva, e sentivo che era solo dell’Artiglio che sapevo queste cose, solo dell’Artiglio fra tutti gli altari ed i paramenti del mondo. Lo avevo tenuto in mano innumerevoli volte, lo avevo sollevato sulla mia testa nel Vincula, avevo toccato con esso l’ulano dell’Autarca e la ragazza malata nello jacal di Thrax. Avevo tenuto in mano l’infinito ed avevo maneggiato il suo potere; non ero più certo che sarei riuscito a consegnarlo remissivamente alle Pellegrine, se mai le avessi rintracciate, ma sapevo con certezza che non lo avrei ceduto remissivamente a nessun altro.

Per di più, mi sembrava in un certo modo di essere stato prescelto per detenere, sia pure per breve tempo, quel potere. Le Pellegrine lo avevano perduto a causa della mia irresponsabilità nel permettere ad Agia di incitare il nostro cocchiere a gareggiare, e quindi era divenuto mio dovere averne cura, usarlo e forse restituirlo. Ed era certo mio dovere recuperarlo dalle mani, mani mostruose a quanto pareva, in cui era adesso caduto a causa della mia incuria.

Prima di cominciare questo resoconto della mia vita, non avevo intenzione di rivelare alcuno dei segreti della nostra corporazione che mi furono svelati dal Maestro Palaemon e dal Maestro Gurloes appena prima che venissi elevato, il giorno della festa di Santa Katharine, al rango di artigiano. Ma ne rivelerò uno ora, poiché ciò che feci quella notte sul Lago Diuturna non può essere compreso se non si conosce questo segreto. E tale segreto è solo che noi torturatori obbediamo. In tutto l’elevato ordine del corpo politico, quella piramide di vite che è immensamente più alta di qualsiasi torre materiale, più alta del Forte della Campana, più alta del Muro di Nessus, più alta del Monte Typhon, quella piramide che si estende dall’Autarca sul suo Trono della Fenice al più umile impiegato che sgobba per il più disonorato commerciante… una creatura più infima del più infimo mendicante… noi siamo l’unica pietra solida. Nessuno obbedisce realmente se non è pronto a fare l’inimmaginabile per obbedire; nessuno è disposto a fare l’inimmaginabile tranne noi.

Come potevo rifiutare all’Increato ciò che avevo spontaneamente dato all’Autarca quando avevo decapitato Santa Katharine?

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