9

Quando arrivai al Ricovero albeggiava appena. Trovai il portiere notturno, lo stesso che mi aveva risposto quando avevo telefonato, e sua moglie, infermiera di notte.

Sebbene avessi la barba lunga, gli occhi arrossati per il sonno, gli abiti in disordine per la fretta con cui li avevo indossati, loro non si mostrarono diffidenti. Anzi, la signora Larrington, l’infermiera, cercò di rendersi utile quanto più poteva. Prese una fotografia e, mostrandomela, chiese: — E lei? E vostra cugina, signor Davis?

Sì, era lei, Ricky. Non c’erano dubbi. Certo, non si trattava della Ricky che avevo conosciuto, perché questa non era una bambina ma una bella ragazza sorridente, di vent’anni o poco più.

Ma gli occhi erano immutati, e l’espressione, ferma e dolce a un tempo, era quella di sempre.

La stereofoto si confuse davanti ai miei occhi offuscati dalle lacrime: — Sì — balbettai con voce soffocata. — Sì, è Ricky.

Il signor Larrington rimproverò la moglie. — Nancy, non avresti dovuto fargli vedere la foto.

— Perché, cosa c’è di male? — disse lei.

— Conosci bene il regolamento — la rimproverò il marito. Poi, a me: — Signore, come vi ho già detto per telefono, non diamo informazioni sui nostri clienti. Quindi, siate così gentile da tornare alle dieci, quando sono aperti gli uffici.

— Potrebbe tornare alle otto, se ha tanta premura. A quell’ora c’è il dottor Bernstein — intervenne sua moglie, sempre conciliante. — E poi la cugina di questo signore è già uscita. Non è la ragazza che è partita per Brawley?

Suo marito protestò, ma la donna era decisa a proteggermi, e mi consigliò di andare a fare colazione in un caffè lì vicino, per ingannare il tempo in attesa delle otto. Seguii il suo consiglio, e all’ora fissata tornai al Riverside.

Il dottor Bernstein era un giovanotto rigido e serio, molto compreso delle sue funzioni. Non si lasciò commuovere dalla mia eloquenza, e si limitò a promettermi che avrebbe parlato col direttore, ma solo dopo aver controllato presso il dottor Albrecht la verità sul mio conto.

Volente o nolente, non riuscendo a ottenere altro da lui, me ne andai. E forse commisi uno sbaglio, perché invece di aspettare l’esito del suo colloquio col direttore preferii recarmi in quel paese, Brawley, che l’infermiera aveva nominato qualche ora prima.

Arrivato a Brawley, dovettero passare tre giorni prima che mi fosse possibile ritrovare traccia di Ricky. Sì, era vissuta là, con la nonna, la quale però era morta da vent’anni, e lei s’era sottoposta al Lungo Sonno. Brawley ha solo centomila abitanti, così potei scoprire anche tracce del suo passaggio recente, ma con mio disappunto appresi che non era sola. Io ero sulle tracce di una ragazza sola, invece scoprii che viaggiava insieme a un uomo. Chi poteva essere? Seguii una falsa pista a Calexico, poi tornai a Brawley, dove trovai altre tracce che mi portarono a Yuma. E qui rinunciai a continuare perché Ricky si era sposata. Quel che lessi sul registro del municipio mi sconvolse al punto che piantai tutto in asso e presi il primo mezzo celere per Denver, dopo aver scritto in fretta e furia a Chuck per chiedergli di vuotare la mia scrivania e portare tutto nella mia camera.

A Denver mi fermai il tempo necessario per recarmi alla sede di una ditta fornitrice di materiale per odontotecnici. Non ero mai stato a Denver dopo che era diventata la capitale. Alla fine della Guerra delle Sei Settimane, Miles e io eravamo andati direttamente in California, e così trovai la città mutata al punto da non potermici orizzontare. Mi avevano detto che tutti gli uffici governativi erano in un sotterraneo scavato sotto le Montagne Rocciose, ma con tutto questo, Denver era ancora più estesa di Los Angeles.

Comunque, mi feci portare da un tassi direttamente al magazzino della ditta, dove acquistai dieci chilogrammi d’oro, isotopol97, sotto forma di bobine di filo. Lo pagai 86 dollari al chilo, cioè molto caro dal momento che l’oro per usi meccanici era sui 70 dollari al chilo, tuttavia l’oro per uso meccanico si vendeva in leghe introvabili in natura, o negli isotopi 196 e 198, mentre io, per lo scopo che avevo in mente, volevo oro fino.

Mi avvolsi i fili d’oro a spirale intorno al petto, e partii per Boulder. Dieci chili d’oro sono un bel peso, e mi facevano sembrare un botticella, ma io volevo essere sicuro di averlo sempre con me, e in lingotti sarebbe stato ancora più ingombrante.

Il professor Twitchell abitava ancora a Boulder, ma non insegnava più, e trascorreva quasi tutto il suo tempo al bar o al circolo della facoltà. Mi ci vollero quattro giorni per trovare il bar frequentato dal professore, perché non m’era stato possibile andare da lui al circolo precluso a un estraneo quale ero io. Quando finalmente lo scovai, mi accorsi che non era difficile fargli accettare un bicchierino.

Il professore era una figura tragica, nel senso classico della parola. Era un grand’uomo, un grandissimo uomo in declino. Il suo nome avrebbe potuto essere messo a fianco di quelli di Einstein o di Newton, e invece, così com’erano andate le cose, solo pochissimi specialisti del suo campo conoscevano l’enorme importanza del suo lavoro. Quando lo conobbi io, il suo brillante ingegno era già offuscato dalla delusione, dagli anni e dall’alcol. Ne riportai la stessa impressione che se avessi visitato le rovine abbandonate di un magnifico tempio.

La prima volta che l’incontrai, alzò gli occhi su di me e disse: — Di nuovo voi.

— Come?

— Non eravate uno dei miei studenti?

— No, signore, non ho mai avuto questo onore. — Di solito quando la gente insiste a dire che deve avermi già visto da qualche parte tronco netto, negando la possibilità del fatto, ma questa volta dissi invece: — Forse mi scambiate per mio cugino, che si è laureato nell’ottantasei e che seguì i vostri corsi, come non ha mai perso l’occasione di far sapere.

— Davvero?

Come non ci si inimica certo una madre dicendole che il suo bambino è bellissimo, così mi bastò questo velato complimento perché il professore mi invitasse a sedere e permettesse che gli offrissi una bibita. Nei quattro giorni da che lo cercavo avevo fatto il possibile per saper tutto sul suo conto, così conoscevo i libri che aveva scritto, le pubblicazioni che aveva presentato nei vari congressi, e dove e quando aveva tenuto le sue conferenze più importanti. Avevo anche cominciato a leggere uno dei suoi libri, ma a pagina nove ero stato costretto a rinunciare, anche se, forse, qualcosa capivo.

Gli lasciai intendere che mi occupavo, a tempo perso, di problemi scientifici, e che in quel periodo ero alla ricerca di materiale per un libro che avevo intenzione di scrivere e intitolato Geni nell’ombra.

— Che specie di libro dovrebbe essere?

Ammisi, con riluttanza, che avrei voluto cominciarlo col racconto della sua vita, posto naturalmente che lui non avesse niente in contrario e desistesse, per una volta, dalla sua avversione per la pubblicità. Il professore non si lasciò commuovere, nemmeno quando gli dissi che sarebbe stato suo dovere verso i posteri. Ma il giorno seguente cambiò idea e si disse disposto ad aiutarmi purché io dedicassi tutto un libro alla sua biografia.

Da quel momento in poi non fece che parlare, parlare e parlare, mentre io prendevo appunti, senza fingere, perché non volevo metterlo in sospetto, e inoltre spesso lui mi invitava a rileggere qualche brano.

Ma non alluse una sola volta ai viaggi nel tempo. Alla fine, presi il coraggio a due mani e dissi: — Professore, è vero che, se non fosse stato per un certo colonnello che una volta fu mandato qui, voi avreste vinto il Premio Nobel?

Lui imprecò per tre minuti in uno stile magnifico, poi mi chiese: — Chi ve ne ha parlato?

— Sapete, professore, mentre eseguivo ricerche presso il Dipartimento della Difesa… non ve ne avevo già parlato?

— No.

— Ecco, in quell’occasione un giovane fisico che prestava la sua opera al Dipartimento mi raccontò la faccenda. Aveva letto il rapporto del colonnello, e dichiarò che se vi avessero permesso di rendere pubblica la vostra scoperta, voi oggi sareste il più famoso fisico vivente.

— Assolutamente vero.

— Ma questo colonnello… non ricordo il nome, ordinò che doveva essere dichiarato segreto di Stato.

— Quel colonnello era un incompetente presuntuoso, incapace persino di trovare il cappello che portava sulla zucca.

— Fu davvero una cosa tremenda dunque che il mondo venisse privato della vostra scoperta, o per lo meno dell’annuncio di essa. So infatti che non potete nemmeno parlarne.

— Uhm!

Quella sera non riuscii a cavargli altro, e mi ci volle una settimana per indurlo a farmi entrare nel suo laboratorio.

Era situato in un edificio che ospitava anche altri laboratori dove altri studiosi eseguivano le loro ricerche, ma lui non aveva mai voluto cedere la sua tana, nemmeno quando s’era ritirato dalla professione attiva, rifiutandosi di dare la chiave a chicchessia e tantomeno di farlo smantellare.

Quando ci entrai, il laboratorio puzzava come una cantina chiusa da secoli.

Il professore aveva bevuto, ma non abbastanza da avere le idee confuse. Mi fece una conferenza sulla matematica della teoria temporale e dello spostamento temporale, non alluse mai alla sua scoperta come al viaggio nel tempo ma mi avvisò di non prendere appunti, cosa che del resto non sarebbe servita a niente, perché quando Twitchell cominciava con — È perciò ovvio… per continuare un quarto d’ora senza fermarsi, parlava di cose ovvie solo per lui e il Padreterno.

Quando ebbe finito l’esposizione strettamente scientifica della sua teoria, trovai il momento di intervenire con una domanda: — Quel fisico mio amico — dissi — mi ha raccontato che l’unico neo nella vostra scoperta era che mancava la possibilità di calibrarla con esattezza, vero? Cioè, che sarebbe impossibile determinare l’ampiezza dello spostamento temporale.

— Cosa? Fesserie! Giovanotto, se una cosa non si può misurare, non appartiene alla scienza. — Borbottò un poco fra sé, come un pentolino in ebollizione, poi continuò: — Qua, adesso vi mostrerò io — e mi voltò le spalle per occuparsi dei suoi macchinari. Di essi, tutto quello che era visibile era il cosiddetto luogo temporale, una bassa piattaforma sormontata da una gabbia e munita d’un quadrante che avrebbe potuto andar bene per la manovra d’una caldaia o di una camera a bassa pressione.

— Avete qualche spicciolo? — mi chiese tornando a voltarsi.

Ne cavai di tasca una manciata, e lui scelse due pezzi da cinque dollari, quei begli esagoni di plastica verde menta emessi da pochi mesi. Confesso che glieli vidi prendere con una stretta al cuore, perché ero alquanto a corto di denaro.

— Avete un temperino?

— Sì.

— Allora incideteci sopra le vostre iniziali.

Eseguii, poi lui mi fece mettere le due monete, una vicina all’altra, sulla piattaforma.

— Prendete nota del tempo esatto. Io ho manovrato i comandi in modo che lo spostamento duri una settimana, con una differenza di sei secondi in più o in meno.

Guardai l’orologio, mentre il professor Twitchell contava: — Meno cinque… quattro… tre… due… uno… Via! — Non voglio dire che spalancai gli occhi per lo stupore, perché Chuck mi aveva già raccontato. Ma sentir raccontare, e vedere, son due cose diverse.

Il professore disse allegramente: — Ecco fatto! Torneremo qui fra una settimana a partire da stasera, e aspetteremo di vederne tornare una. Quanto all’altra… perché ne avete messo due, vero?

— Sì, certo.

— E io dov’ero?

— Ai comandi, professore, e cioè a tre metri e più di distanza dalla gabbia posta sulla piattaforma.

— Benissimo. Venite un po’ qui, adesso. — Mentre ubbidivo, lui si frugò in tasca. — Ecco qua uno dei vostri pezzi. L’altro lo riavrete fra otto giorni — e così dicendo mi porse un pezzo di cinque dollari verde, sul quale vidi subito le mie iniziali.

Non sapevo cosa dire, ma il professore non si aspettava commenti, perché continuò: — La vostra rivelazione mi aveva turbato, così la settimana scorsa sono tornato qui. Era più d’un anno che non ci mettevo piede… Ho trovato questa moneta sulla piattaforma, e ho capito che avevo usato… cioè che avrei usato l’apparecchio entro una settimana.

Guardai la moneta e la tastai.

— Dunque era nella vostra tasca, quando siamo venuti qui stasera?

— Certo.

— Ma come potevate averla in tasca se ce l’avevo in tasca io?

— Dio del Cielo, ragazzo mio, non avete occhi per vedere? Non avete un cervello da far funzionare? Siete incapace di assorbire un semplice fatto solo perché è inusitato ed estraneo alla vostra monotona esistenza? Voi l’avete presa nella vostra tasca stasera, e io l’ho mandata una settimana indietro. Avete visto che è scomparsa. Mercoledì scorso, io, venendo qui, la trovai e me la misi in tasca, e stasera vi ho fatto uno scherzo e ve l’ho messa sotto il naso. Si tratta della stessa moneta, o, per essere precisi, di un segmento posteriore della sua struttura spazio-temporale, con una settimana in più di logoramento e opacità, ma è pur sempre la stessa moneta, agli occhi del volgo. Anche se non più identica, in realtà, di quanto un adulto sia identico al bambino da cui si è sviluppato. È più vecchia, ecco tutto.

— Professore, provate a mandare me indietro di una settimana.

— Neanche parlarne! — tagliò corto lui.

— Perché? Il vostro apparecchio non serve per le persone?

— Certo che funzionerebbe ugualmente.

— Allora perché non acconsentite? Non ho paura. E pensate che avvenimento sarebbe per il libro se potessi riferire per esperienza personale che il dislocamento temporale Twitchell funziona.

— Potete farlo, dal momento che avete assistito all’esperimento con le monete.

— Sì — fui costretto ad ammettere — ma non mi crederebbero. E vero, ho assistito coi miei occhi alla sparizione delle monete, ma chiunque leggesse un mio racconto del fatto direbbe che sono un ingenuo, un visionario che s’è lasciato ingannare da un gioco di prestigio.

— Ma se sapete benissimo che…

— Vi assicuro che l’impressione sarebbe questa — insistetti. — Nessuno riuscirebbe mai a convincersi che io ho davvero visto un dislocamento temporale. Se invece fosse possibile rimandarmi indietro di una settimana, allora narrando per esperienza diretta, come dicevo…

— Sedetevi e statemi bene a sentire — m’interruppe bruscamente il professore, e così dicendo si mise a sedere. Per me non c’era posto, quindi dovetti restarmene in piedi. — Io ho fatto esperimenti con esseri umani, anni e anni fa, ed è appunto perché li ho già fatti che mi rifiuto di farne altri.

— Perché? Sono morti?

— Cosa? No, non dite sciocchezze! — Mi lanciò un’occhiata penetrante, e aggiunse: — Badate di non scrivere niente di questo nel vostro libro.

— Come volete, professore.

— Alcuni esperimenti di minore importanza su esseri viventi dimostrarono che era possibile sottoporli a dislocamento temporale senza che ne avessero a soffrire. Mi confidai in proposito a un collega, un giovanotto che insegnava disegno e altre materie alla scuola di architettura. In realtà, era più un tecnico che uno scienziato, ma mi andava a genio. Questo giovanotto, non c’è niente di male se ve ne dico il nome, Leonard Vincent, era ansioso di provare, e io ebbi la debolezza di accontentarlo. Ma volle sottoporsi a un esperimento in grande, con dislocamento di cinquecento anni.

— E allora?

— Che cosa ne posso sapere? Cinquecento anni, ragazzo mio! Non potrò vivere tanto da sapere cosa gli è successo.

— Credete che sia finito cinquecento anni nel futuro?

— O nel passato. Può essersi ritrovato tanto nel quindicesimo secolo quanto nel venticinquesimo, dato che le possibilità sono pari. Talvolta ho pensato che… No, si tratta solo d’una assonanza di nomi puramente casuale.

Non gli chiesi a cosa alludesse perché d’improvviso l’avevo indovinato, e mi si erano rizzati i capelli in testa al pensiero.

Ma scacciai subito quell’idea, perché avevo ben altri problemi. Inoltre non poteva trattarsi altro che di una coincidenza fortuita… Un uomo non può andare dal Colorado in Italia, per lo meno non poteva farlo, nel quindicesimo secolo.

— Comunque decisi di non tentare più. Mi ero reso conto che esperimenti del genere non erano scientifici, non aggiungevano niente a quanto già sapevo. Se era stato dislocato nel futuro, bene, ma se era finito nel passato… avrei potuto mandare il mio amico a farsi divorare dai selvaggi o dalle bestie feroci.

Oppure, pensai io, il mio amico avrebbe potuto diventare il Grande Dio Bianco. Ma non espressi questo mio pensiero a voce alta. — Io però non vi chiedo certo una dislocazione così ampia nel tempo — dissi invece.

— Vi prego di non parlarne più.

— Come volete, professore. — Finsi di arrendermi, ma non potevo lasciar cadere a quel modo l’argomento. — Scusate — aggiunsi — non si potrebbe fare almeno una prova?

— Come sarebbe a dire?

— Una prova dell’esperimento, disponendo tutto come se dovesse aver luogo, in modo che nel mio libro io possa descrivere fedelmente come avviene il procedimento; infatti ci sono ancora molti punti piuttosto oscuri… e poi smettere al momento di premere il bottone.

Il professore brontolò un poco fra sé, ma poiché aveva una gran voglia di dimostrarmi le meraviglie di cui era capace il suo giocattolo, finì per acconsentire. Prima di tutto mi pesò, poi pesò tante verghe di metallo quante erano necessarie per pareggiare i miei ottanta chili, e dopo avermi fatto entrare nella gabbia, depose le verghe in un altro punto della piattaforma.

— E adesso — aggiunse — visto che tutta questa rappresentazione è fatta in vostro onore ditemi anche di che ampiezza deve essere il dislocamento temporale.

— Potete determinarlo con precisione?

— Ve l’ho già detto. Dubitate della mia parola?

— Oh, no! Bene… oggi è il ventiquattro maggio, facciamo… facciamo trentun anni tre settimane un giorno sette ore tredici minuti e venticinque secondi fa.

— Avete voglia di fare lo spiritoso, eh? Quando ho detto che il mio lavoro è preciso, intendevo dire che ci può essere una percentuale d’errore di uno su centomila, quindi l’ora esatta non la posso garantire.

— Va bene — acconsentii per tagliar corto, roso com’ero dall’impazienza. — Facciamo allora trentun anni e tre settimane. Va bene?

— Ecco fatto.

— Già finito?

— Sì, è tutto pronto, salvo l’energia. Per un esperimento simile non potrei servirmi della tensione che ho usato per il dislocamento delle monete. Ma poiché si tratta di una finzione, è un particolare che non conta.

Lo guardai con un’aria delusa che non era affatto una finzione. — Allora significa che qui in laboratorio non avreste la corrente necessaria per lo spostamento di un corpo come il mio? Avete parlato in teoria, finora?

— Accidenti a voi! Non parlavo affatto teoricamente.

— Ma se non avete l’energia…

— Se proprio insistete, farò gli allacciamenti… Aspettate… — Andò in un angolo del laboratorio dov’era installato il telefono, e parlò per qualche minuto col guardiano notturno della centrale elettrica dell’università.

Discusse vivacemente per alcuni minuti, perché l’altro non era disposto ad acconsentire a una richiesta tanto insolita, ma alla fine fu accontentato, e tornò al pannello dei comandi. Dispose in modo diverso alcuni pulsanti, poi aspettò. Quando si accese una lampadina rossa, disse: — Ecco, ora abbiamo il voltaggio occorrente.

— Proprio come pensavo.

— E allora?

— E allora niente.

— Cosa volete dire?

— Quello che ho detto: che adesso non succederà proprio niente.

— Esatto, perché non ho girato l’interruttore principale. Se lo facessi voi sareste spostato di trentun anni e tre settimane all’indietro.

— Invece vi dico che se anche lo faceste non mi succederebbe niente.

Il professore s’incupì. — Fate apposta per offendermi — disse.

— Pensate pure quello che volete, professore. Io sono venuto qui per controllare la veridicità di una voce. Ho indagato, ho visto un laboratorio con strumenti strani e tante luci sopra, come si potrebbe vedere al cinema. Poi ho visto un grazioso gioco di prestigio… Quanto al resto, sì, ho sentito tante chiacchiere senza l’appoggio di un briciolo di prova. Voi dichiarate di aver scoperto una cosa che secondo me non si può effettuare. Hanno ragione quelli che vi credono matto…

Il poveretto era sull’orlo di un colpo apoplettico, ma io dovevo insistere perché soltanto così mi era possibile stimolare l’unico riflesso ancora efficiente in lui: la vanità.

— Venite fuori — balbettò con una voce strozzata. — Miserabile! Venite fuori che vi strangolo con le mie mani!

— Credete di farmi paura, nonno. Schiacciate il bottone, su, fatemi vedere come siete bravo… Provate… tanto non ci credo!

Lui guardava incerto da me al pulsante. — Un pallone gonfiato, ecco cosa siete — continuai io — un vecchio rottame pieno di bugie. Aveva ragione il colonnello del Dipartimento della Difesa. Non è vero che ha messo il sigillo del segreto sul vostro lavoro… ha messo il vostro incartamento nell’archivio degli inventori matti.

Questa volta non esitò più.

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