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La mia macchina era parcheggiata a Pershing Square, dove l’avevo lasciata nelle prime ore del mattino. Infilai la moneta nel dispositivo di pilotaggio automatico, girai la chiavetta su autostrada-ovest, tirai fuori Pete dalla borsa, e mi appoggiai allo schienale rilassandomi. O per lo meno cercai di farlo.

Il traffico di Los Angeles era infatti troppo congestionato e veloce perché mi sentissi tranquillo con la guida automatica. Quando finalmente fummo usciti dall’autostrada-ovest e potei riprendere io il volante, avevo i nervi a fior di pelle e desideravo ardentemente bere qualcosa. Ma quando già avevo avvistato un bar mi ricordai l’ordine del medico. Contemporaneamente mi resi conto che più di ogni altra cosa avevo bisogno di mangiare e di dormire. Il dottore aveva ragione: mi sentivo più sobrio di quanto non lo fossi stato da un mese.

Così, trovato un posto di ristoro volante, mi fermai, e mentre preparavano pollo per me e polpette per Pete, scesi a sgranchirmi un po’ le gambe.

Mezz’ora dopo, sazio, trovai un angolino appartato e fermai una seconda volta per fumarmi una sigaretta in santa pace mentre Pete procedeva a un’accuratissima operazione di pulizia.

Dan, figliolo mio, pensavo, il medico ha ragione, devi smetterla di bere. Non stai meglio, adesso? E anche per il resto, ha ragione il medico? È vero che farei meglio a non sottopormi al sonno freddo? È vero che agendo come ho deciso dimostro di non essere un vero uomo? Ma che me ne importa? Quello che mi interessa è di potermi svegliare nell’anno 2000!

E va bene, fa’ come vuoi… Ma non sarebbe meglio sistemare le cose prima di andartene?

Certo, certo, ma come? Non voglio più Belle, dopo quello che mi ha fatto. E allora, cos’altro potrei fare? Denunciarli? Non fare lo stupido, sai bene che non hai la minima prova contro di loro. E poi, nelle cause, chi vince di sicuro sono solo e sempre gli avvocati.

Pete disse: — Vrrr! Lo sai!

Sì, Pete aveva ragione. Lui, quando aveva da regolare i conti con un altro gatto, non gli faceva certo causa, ma lo invitava a risolvere la questione a quattr’occhi, da gatto a gatto.

— Hai ragione come sempre — gli dissi. — Adesso vado da Miles, gli dico il fatto suo, e poi ce ne andremo io e te a fare il Lungo Sonno. Ma prima devo liberarmi il gozzo.

Trovai nelle vicinanze una cabina telefonica e chiamai Miles. Era in casa, e gli dissi di aspettarmi che sarei stato da lui dopo pochi minuti.

Sono nato nel 1940, un anno in cui, a detta di molti, l’individualismo era agli sgoccioli, e si preparava l’avvento all’era delle masse. Mio padre non la pensava così, e per questo mi aveva chiamato Daniel Boone Davis, in segno di amore per la libertà personale e di fiducia in se stessi.

Quando scoppiò la Guerra delle Sei Settimane, m’ero già laureato in ingegneria meccanica e mi trovavo sotto le armi. Non feci mai valere la mia laurea per ottenere una destinazione in qualche reparto di retrovia o per essere esonerato dal servizio militare, perché avevo ereditato da mio padre la teoria di arrangiarmi dando il minor fastidio possibile. Non comandare, non essere comandato, cercare di avere meno grattacapi che potevo. Volevo fare il mio periodo di servizio e poi rimettermi a lavorare, e basta. Allo scoppio della guerra ero sergente al Centro Armi di Sandia, nel Nuovo Messico, occupato a caricare di atomi le bombe atomiche e a pensare alla via migliore da prendere una volta che la guerra fosse finita. Quando Sandia fu distrutta io mi trovavo in missione a Dallas, e da lì fui mandato a Oklahoma City. Pete mi seguì in tutte le mie peregrinazioni.

Avevo un amico, Miles Gentry, un veterano richiamato. Aveva sposato una vedova, che era morta prima della guerra. Miles abitava ad Albuquerque, dove lo aspettava Federica, detta Ricky, sua figliastra. Ricky si affezionò molto a Pete e a me, e quando la guerra fu finita io e Miles decidemmo di mettere su una piccola azienda insieme. Miles era un ottimo uomo d’affari, io un buon tecnico, e la nostra unione era destinata a dare buoni frutti.

Trovammo, per quattro soldi, un vecchio capannone dell’aeronautica, nel deserto del Mojave, e lì iniziai i progetti della Domestica Perfetta. Sì, il creatore della domestica perfetta sono io, e io ho anche inventato tutta la serie degli elettrodomestici relativi, anche se su di essi non troverete il mio nome.

Mentre ero militare avevo pensato molto alle possibilità di un tecnico della mia specie. Potevo andare alla Standard, alla Du Pont, alla General Motors…, sì, e poi? Dopo trent’anni di fedele servizio, mi avrebbero messo in pensione, con un bel pranzo in mio onore. A saperci fare, avrei potuto entrare in qualche industria aeronautica, ma avrei sempre dovuto dipendere da altri e, salvo che per il periodo militare, ero sempre stato abituato a essere io il padrone di me stesso.

E allora? Non disponendo di capitali, avrei potuto fare come Ford e Wright. Ma non era più l’epoca romantica dei pionieri dell’industria. Quei tempi se n’erano andati per sempre.

Le industrie che progredivano di più e offrivano i migliori vantaggi erano quelle in cui regnava l’automazione.

Un paio di sorveglianti automatici, e tutto un enorme complesso industriale poteva funzionare: macchine minatrici che scavavano il carbone da sole e da sole lo caricavano e lo scaricavano, macchine che stampavano i biglietti in una città e mettevano nell’apposito spazio il timbro venduto in sei altre, e così via. Perciò, nei ritagli di tempo che ogni tanto mi capitavano quando ero al servizio dello Zio Sam, m’ero occupato a fondo di elettronica e cibernetica, nonché di circuiti speciali.

Tutto era automatico, ormai, meno una cosa: l’interno di una casa. Non crediate che io volessi inventare una casa scientifica, piena di aggeggi strani, quadranti, pannelli, leve e cose simili. No, le donne non l’avrebbero voluta.

Volevano soltanto una caverna bene addobbata e da tenere in ordine senza alcuna fatica. Nonostante che una donna di servizio fosse ormai un animale da leggenda, il problema delle domestiche era sempre vivo e scottante, e non ho mai conosciuto una padrona di casa che non avesse in sé un briciolo dell’antica tiranna. Sono tutte convinte che una povera ragazza di campagna dovrebbe essere grata e felice di poter lustrare i loro pavimenti quattordici ore su ventiquattro.

Per questo chiamai la mia creatura Domestica Perfetta, in quanto faceva riandare col pensiero ai tempi in cui mia nonna tiranneggiava una povera immigrata semischiava. Fondamentalmente, l’apparecchio era una lucidatrice-aspirante perfezionata, e noi progettavamo di immetterlo sul mercato a un prezzo di concorrenza.

La Domestica Perfetta, alludo al primo modello, non al robot semi-intelligente in cui la trasformai più tardi, puliva i pavimenti di ogni tipo, in qualunque stato fossero, e senza bisogno di sorveglianza. E pavimenti da pulire ce ne sono sempre.

Scopava, spazzava, lustrava, aspirava, a seconda che i circuiti della sua mente idiota decidessero di fare questo o quello. Girava dalla mattina alla sera alla ricerca di angoletti polverosi, e se trovava qualcosa di più grosso di un pisello lo poneva su un vassoio, che le avevo sistemato sul davanti, perché qualcuno più intelligente di lei decidesse se era da conservare o da buttare via. Passava e ripassava sui pavimenti puliti alla ricerca di macchie e sporcizia, finché la sua padrona non entrava nell’ordine di idee di girare un interruttore. Aveva un impianto autonomo di energia, e bastava attaccarla qualche minuto a una presa di corrente perché ne mangiasse a sufficienza per una giornata di lavoro.

Come vedete, la differenza tra il mio apparecchio e le comuni lucidatrici-aspiranti non era molta, tuttavia il fatto che eseguisse il lavoro da sola fu determinante per il suo enorme successo.

Il sistema di movimento autonomo l’ottenni copiando uno schema comparso su un numero di Scientific American negli ultimi anni del ’40. Presi un circuito mnemonico del cervello di un missile telecomandato (il bello degli aggeggi segretissimi è che non sono brevettati), aggiunsi i sistemi di aspirazione e pulitura presi da una dozzina di congegni, compresa una scopa elettrica in uso negli ospedali militari, e le mani meccaniche in uso negli impianti atomici per maneggiare le sostanze fortemente radioattive. Insomma, nella mia macchina di nuovo c’era soltanto il fatto di aver messo insieme tutti quei congegni. Quanto al lampo di genio richiesto dalle nostre leggi, ebbene questo consisteva nel saper trovare un avvocato specialista in brevetti.

Ma il vero, autentico genio stava nel sistema di produzione. In realtà tutto l’apparecchio avrebbe potuto essere fabbricato ordinando le parti necessarie dopo averle scelte sul catalogo Sweet, eccettuate un paio di canne tridimensionali e un circuito stampato. Il circuito era costruito sotto contratto, e le canne me le facevo da solo nel capannone pomposamente chiamato «stabilimento», adoperando residuati di guerra. Nei primi tempi, io e Miles lavorammo da soli. Il prototipo costò 4137 dollari e 9 centesimi. I primi cento apparecchi ci costarono circa 39 dollari l’uno, e li rivendemmo a un grossista di Los Angeles per 85. Poi Life dedicò due pagine alla mia Domestica Perfetta, e noi fummo costretti a cercare qualcuno che ci aiutasse a costruire quella mostruosità.

Belle Darkin si unì a noi poco tempo dopo. Fino ad allora avevamo battuto a macchina, con un dito solo, la nostra corrispondenza su una Underwood del 1908, ma quando assumemmo Belle come stenodattilo e contabile, le comperammo una macchina da scrivere elettrica del modello più recente ed elegante. Tutto il guadagno lo impiegavamo nello «stabilimento», dove io vivevo con Pete oltre che lavorare, mentre Miles e Ricky abitavano in una baracchetta poco distante. Per difenderci, formammo una società. Ma le leggi esigevano che i soci fondatori fossero tre, e così prendemmo con noi Belle, cui affidammo una parte delle azioni, e che nominammo segretaria tesoriera. Miles era presidente e direttore generale, io direttore tecnico e presidente del comitato azionisti con il 51 per cento delle azioni.

Voglio spiegare perché avevo voluto il controllo delle azioni: semplicemente per l’innato desiderio di essere sempre il padrone di me stesso. Miles lavorava bene e io avevo fiducia in lui, ma dopo tutto io avevo messo il 60 per cento del capitale e il 100 per cento dei progetti e delle invenzioni. Miles non avrebbe mai potuto creare da solo la Domestica Perfetta, mentre io ne avrei potuto costruire a dozzine di tipo svariato e trovare altrettante dozzine di soci come lui. Devo aggiungere però che, come uomo d’affari, Miles era in gamba, mentre io non valevo niente.

Comunque, volevo avere la certezza di controllare la situazione e dare carta bianca a Miles per dimostrargli la mia fiducia. Come si vedrà, la libertà e la fiducia che gli avevo concesse risultarono eccessive.

La Domestica Perfetta, modello 1, si vendeva come il pane, e io ero immerso nel lavoro dalla mattina alla sera. Ma intanto pensavo che in una casa non ci sono soltanto i pavimenti da tenere puliti: ci sono i vetri delle finestre, e le vetrine dei negozi, e le vasche da bagno e così via. A furia di pensare e provare, scoprii che un congegno elettrostatico poteva togliere lo sporco come per magia da qualunque superficie liscia silicea. Questa fu l’embrione di Vanda Vetrina, e c’è da meravigliarsi che nessun altro ci avesse ancora pensato. Dopo averne fatto il prototipo, continuai a lavorarci intorno in modo da poterne ridurre il costo di vendita, non solo, ma da renderlo facilmente riparabile in caso di guasto. Ciò che infatti aveva contribuito a ridurre le vendite degli elettrodomestici, negli ultimi tempi, era che, più erano perfezionati, meno facile era trovare i pezzi di ricambio o l’operaio specializzato in caso di guasto. Specialmente se si guastavano di domenica. Perciò volevo mettere in vendita la mia Vanda Vetrina con tutti i pezzi di ricambio facilmente sostituibili e pronti all’uso. Miles non era di questo parere, e fu allora che scoppiò il primo litigio. Lui voleva iniziare subito le vendite, io volevo aspettare, e nessuno dei due era disposto a cedere. Poi intervenne Belle Darkin, e io cedetti perché lei mi persuase che Miles aveva ragione, e io ero già tanto cotto di lei che le avrei dato la Luna, se solo me l’avesse chiesta.

Belle non era solo una segretaria perfetta, ma aveva un aspetto che avrebbe fatto la delizia di Prassitele, ed emanava una certa fragranza che mi faceva andare in estasi. Fu probabilmente per questo che mi chiesi come fosse mai possibile, con la scarsità di brave segretarie, che una ragazza del tipo di Belle si fosse adattata a lavorare con noi.

Poco dopo aver appianato quel primo diverbio fra me e Miles, lei accettò di dividere con me le mie fortune. — Dan caro, diventerai qualcuno — dichiarò. — E io spero di appartenere alla categoria di donne adatte a un uomo come te.

— Ma certo!

— Zitto, caro… appunto perché ti apprezzo tanto non voglio sposarti subito e caricarti del peso d’una famiglia che potrebbe tarparti le ali. Voglio prima aiutarti nel lavoro, e quando sarai un industriale affermato, ci sposeremo.

Io tentai di obiettare, ma lei era decisa. — No, caro. Abbiamo davanti a noi una lunga strada. La Domestica Perfetta deve diventare potente e conosciuta come la General Electric, ma quando saremo sposati non vorrò più pensare agli affari, per potermi dedicare interamente a te e alla nostra casa. Quindi devo prima pensare al tuo benessere e al tuo avvenire. Fidati di me, caro.

E io mi fidai.

Belle non permise che le acquistassi il costoso anello di fidanzamento che avevo scelto, e allora io le cedetti una parte delle mie azioni. Fui felicissimo di farlo, naturalmente. Ripensandoci più tardi, però, non fui più molto sicuro che l’idea fosse partita da me e non da lei.

Dopo che ci fummo scambiati la promessa, lavorai più accanitamente di prima, pensando a cestini per i rifiuti che si sarebbero vuotati da soli, e a una macchina che riponesse i piatti dopo averli lavati e asciugati… Tutti erano felici, eccetto Pete e Ricky. Pete ignorava Belle, come aveva sempre ignorato tutto quello che disapprovava ma che non era in suo potere cambiare. Ma Ricky era davvero profondamente infelice.

La colpa era mia, bisogna dirlo. Fin da quando aveva sei anni, a Sandia, Ricky era stata «la mia ragazza» e io le avevo «promesso di sposarla» non appena sarebbe diventata grande. Allora avremmo vissuto insieme noi tre: io, lei e Pete. E adesso come spiegarle che era stato tutto uno scherzo?

Io non ho molta passione per i bambini. In genere li considero esseri che non diventano civili se non quando sono cresciuti, e neanche allora, qualche volta. Ma la piccola Federica mi ricordava la mia povera sorellina, e per di più amava Pete e sapeva come trattarlo. Io credo che lei mi volesse bene soprattutto perché la trattavo da adulta, senza quei vezzeggiativi e quelle moine che di solito gli adulti si sentono in dovere di prodigare ai bambini. Quanto a lei era un tipino serio, pieno di dignità. All’epoca del mio fidanzamento con Belle aveva circa undici anni, e odiava Belle con una intensità di cui credevo d’essere il solo ad accorgermi.

Decisi perciò di mettere le cose in chiaro. Avete mai provato a far parlare un adolescente di qualcosa che si rifiuta di prendere in considerazione? Vi assicuro che restereste più soddisfatti se rivolgeste la parola all’eco del Gran Canyon. Finii così col mettermi il cuore in pace, pensando che Ricky avrebbe cambiato idea non appena si fosse resa conto di quanto Belle fosse cara.

Pete era un altro paio di maniche, e se io non fossi stato tanto innamorato avrei visto nel suo comportamento un chiaro segno che io e Belle non ci saremmo mai potuti capire. A Belle il mio gatto «piaceva», certo, certo! Asseriva di adorare i gatti come adorava la mia «piazzetta» in cima alla testa e ammirava tutto quello che facevo e dicevo. Ma è difficile ingannare un gatto. Ci sono persone portate per i gatti e altre che, per quanto si sforzino, non li possono soffrire. E se cercano di fingere, si tradiscono, perché non sanno come vanno trattate quelle bestie. Il protocollo gattesco è più severo di quello diplomatico.

È un protocollo, il loro, che si basa sul rispetto individuale e reciproco, un rispetto che ha qualcosa della dignitad de hombre dei sudamericani, e che si rischia la vita a offenderlo.

I gatti non hanno senso dell’umorismo, sono tremendamente egocentrici, e altrettanto permalosi. Se qualcuno, a questo punto, mi chiedesse perché mai uno debba perdere tanto tempo per loro, sarei costretto a rispondere che non c’è alcun motivo logico. Sarebbe lo stesso che chiedere a qualcuno che ama i formaggi piccanti perché gli piace proprio il pecorino. Ciononostante ho molta simpatia per quel Mandarino che fece tagliare una manica preziosamente ricamata per potersi muovere senza disturbare il gatto che ci si era addormentato sopra.

Belle cercò di dimostrarmi che amava Pete, trattandolo… come un cane. E se ne ebbe in cambio un bel graffio. In seguito all’incidente, Pete, che è un gatto di buon senso, preferì allontanarsi per qualche tempo, intuendo che io sarei stato capace di picchiarlo per quello che aveva fatto. Infatti picchiare un gatto è peggio che inutile, perché un gatto può imparare con la pazienza, mai con la violenza.

Così disinfettai Belle con la tintura di iodio, poi cercai di spiegarle perché aveva sbagliato.

— Ma se lo vezzeggiavo! — protestò lei.

— D’accordo, cara, ma non è così che si vezzeggiano i gatti. Così si fa con i cani. Non bisogna dare affettuose pacche in testa a un gatto ma si deve accarezzarlo, e poi non bisogna fare movimenti bruschi e improvvisi nelle sue vicinanze, né toccarlo senza avergli fatto capire prima quali sono le tue intenzioni, ed esserti accertata che le gradisca. Se non ha voglia di essere vezzeggiato, lascerà fare per un po’, perché i gatti sono molto educati, ma sarà meglio smettere prima che ti faccia intendere con le unghie che la sua pazienza si è esaurita. — Tacqui, e, dopo un attimo di esitazione, aggiunsi: — A te non piacciono i gatti, vero?

— Cosa? Ma che sciocchezze dici! Mi piacciono molto! — Però aggiunse: — Non che abbia avuto molti gatti fra i piedi, finora, a dire la verità. È una micia un po’ permalosa, la tua, no?

— Pete è un gatto maschio — corressi io. — No, non è affatto permaloso, per il solo fatto che non ha mai avuto motivo di esserlo. Però tu devi imparare a trattare i gatti. Ah, dimenticavo: non bisogna mai prenderli in giro.

— Ma che cosa dici?

— Forse non mi sono spiegato bene. Non ho detto che non siano buffi. Anzi, a volte sono estremamente comici, ma siccome non hanno il senso dell’umorismo, se gli fai uno scherzo si offendono, e, dopo, diventa difficilissimo farseli amici. Adesso, appena Pete tornerà, ti farò vedere come devi trattarlo.

Ma Pete se ne stette via un pezzo, e io non ebbi mai occasione, in seguito, di insegnare a Belle come si tratta un gatto. Lei gli parlava e lo trattava educatamente, ma tenendolo a debita distanza, e così faceva lui. Quanto a me, non ci pensai più, perché non volevo permettere che una faccenda di così poco conto, come credevo che fosse, influisse sui miei rapporti con la donna che amavo.

Solo un’altra volta il soggetto Pete rischiò di compromettere l’armonia fra me e Belle. Fu quando, mentre parlavamo della casa in cui saremmo andati a vivere dopo sposati, io espressi il desiderio di abitare in una villetta vicino allo stabilimento, anche perché Pete era abituato a trascorrere parecchio tempo all’aperto per le sue scorribande. Belle, che sosteneva invece la necessità di vivere in un appartamento cittadino, protestò: — Che sciocchezze anteporre al nostro benessere quello di un gatto! Se Pete è un po’ troppo vivace, come dici tu, lo porteremo dal veterinario, che con una piccola operazione lo renderà docile e mansueto.

Io la guardai inorridito, incapace di ribattere. Poi lasciai cadere il discorso: la data del nostro matrimonio era ancora lontana, e inoltre Belle non permetteva mai che una discussione degenerasse in un litigio.

In quei tempi, infine, io ero occupato col progetto del Servizievole Sergio, e avevo poco tempo da dedicare ad altri pensieri. La Domestica Perfetta e Vanda Vetrina andavano a gonfie vele, ma io non mi accontentavo. Avevo fissa in testa l’idea di creare un automa che fosse capace di svolgere tutte le mansioni domestiche, dalle pulizie alla cottura dei cibi, dal badare a un neonato al cambiare il nastro a una macchina da scrivere. Invece di fare tanti Domestici Perfetti, Vande Vetrine, Gini Giardinieri, Bianchine Bambinaie, volevo creare un’unica macchina che riunisse le doti di tutte le altre, al prezzo di una buona automobile.

Dunque, mi chiesi, cosa deve essere capace di fare il mio Servizievole Sergio? Risposta: tutti i lavori che un essere umano esegue nell’ambito domestico. Esclusi dalle sue mansioni la capacità di rispondere al telefono, in quanto la segretaria telefonica automatica svolgeva già brillantemente questo compito. Per fare tutte quelle cose, dunque, gli occorrevano le mani, gli occhi, le orecchie e un discreto cervello.

Per quanto riguardava le mani, il problema era subito risolto: potevo ordinarle alla stessa ditta che me le forniva per la Domestica Perfetta, solo che stavolta doveva procurarmi il modello migliore, quelle usate per maneggiare e pesare gli isotopi radioattivi, particolarmente sensibili e dotate di facoltà selezionatrici. La stessa ditta poteva fornirmi gli occhi, solo più semplici di quelli che era solita fare, in quanto il Servizievole Sergio non doveva vedere al di là di grossi muri di cemento e schermi di piombo come era per gli occhi installati nei reattori atomici.

Le orecchie le avrei richieste a una delle migliori fabbriche produttrici di materiale radiotelevisivo, anche se dovevo alterare qualche circuito, in modo che le mani fossero controllate simultaneamente dalla vista, dall’udito e dal tatto, come avviene nelle mani umane. Con i transistor e i circuiti stampati, comunque, si possono racchiudere un mucchio di congegni in uno spazio ristretto.

Per evitare che Sergio dovesse salire le scale, gli progettai un collo allungabile, e braccia altrettanto allungabili e flessibili. Ma a questo punto pensai che ci sarebbe stato qualche caso in cui, per forza, avrebbe dovuto superare dei gradini. Perciò decisi di usare come chassis il fondo di una poltrona a rotelle motorizzata.

Restava il cervello, la parte più difficile. Non è complicato mettere insieme un meccanismo che ricordi più o meno lo scheletro umano, ma se fra un orecchio e l’altro non c’è qualcosa che gli impartisca gli ordini di pulire, spazzare, rompere le uova (o non romperle), lavare, e così via, quel coso non è nemmeno un cadavere. Per fortuna io non avevo bisogno di un cervello umano, ma di un congegno capace di eseguire soltanto alcuni lavori.

Qui entravano in campo i tubi mnemonici Thorsen. I missili intercontinentali che avevamo lanciato nelle ultime guerre erano dotati di «pensiero» mediante le valvole di Thorsen e in città come Los Angeles il traffico era regolato da esemplari del genere. Non occorre entrare nella teoria di un tubo elettronico, che nemmeno i Laboratori Bell capiscono a fondo, l’importante è che si può inserire un tubo Thorsen in un circuito di comando, guidare la macchina nel corso di una operazione mediante controllo manuale, e la valvola in tal modo «ricorderà» quello che ha fatto, e in seguito sarà in grado di eseguire la stessa operazione, senza più bisogno di supervisione umana. Nel caso di un missile o del mio Servizievole Sergio, occorreva aggiungere anche circuiti secondari che permettessero all’insieme di «giudicare». In realtà non si trattava di un giudizio vero e proprio. Secondo me una macchina non potrà mai «giudicare». I circuiti secondari avevano il compito di scegliere, fra i tanti di cui erano capaci, il lavoro che conveniva fare date le circostanze. Le istruzioni fondamentali potevano essere numerose e complicate quanto lo era la capacità del tubo Thorsen, una capacità molto ma molto ampia. Bastava, come dicevo, averle fatte fare alla macchina una volta. Una valvola, e Sergio lavava tutti i piatti sporchi in cui si imbatteva. Un’altra, e lavava e ripuliva un bambino piccolo. Una terza, e stirava le camicie alla perfezione, senza mai sbagliare, posto che non si fosse sbagliato nel corso della prima prova. La facoltà di «giudizio», inoltre, dava la capacità di distinguere fra i lavori da eseguire, e scegliere quello più urgente e adatto alla situazione. Nel testone quadrato di Sergio si potevano facilmente inserire tubi Thorsen, ognuno con un «ricordo» diverso, e se cento mestieri non bastavano, mediante uno speciale dispositivo era capace di gridare aiuto quando si imbatteva in una cosa che non aveva mai fatto.

Costruii dunque il mio Sergio servendomi d’una poltrona a rotelle funzionante a elettricità, e una volta finito, il prototipo assomigliò a una piovra incrociata a una gru. Ma, gente, come lustrava bene l’argenteria!


Quando glielo mostrai la prima volta, Miles stette a osservare Sergio mentre gli mesceva un aperitivo, e poi girava a cercare un portacenere da ripulire (senza mai toccare quelli puliti), apriva la finestra, e infine passava a dare una spolverata ai miei libri. Sorseggiando l’aperitivo, Miles disse: — Troppo vermut.

— A me piace così. Però posso insegnargli a farli più leggeri per te — risposi. — Ha ancora parecchie valvole vergini in testa.

— Quando potremo produrlo in serie? — volle sapere il mio socio.

— Ritengo di doverci lavorare intorno per qualche annetto — e prima che lui avesse il tempo di dire qualcosa aggiunsi: — Fra cinque anni lo metteremo in commercio.

— Che sciocchezze! Prenditi tutti gli aiutanti che vuoi. Tra sei mesi lo produrremo in serie.

— Un corno! Questo sarà il mio capolavoro, e non intendo farlo conoscere al pubblico finché non sarà perfettamente a punto. Dovrò ridurlo a un terzo circa delle dimensioni attuali, far sì che tutte le parti, salvo le valvole Thorsen, siano facilmente sostituibili, e che sia davvero tanto servizievole che non solo possa mettere il gatto fuori dall’uscio e lavare il pupo, ma anche giocare a ping-pong, se l’acquirente è disposto a pagare qualcosa in più per questa speciale prestazione.

— Sentimi bene, Dan — mi interruppe Miles — ti concedo un anno e non un giorno di più!

— Miles, quando vorrai capirla che il direttore tecnico sono io? Quando sarà pronto e te lo consegnerò potrai farne quello che vorrai, ma non un secondo prima!

Miles rispose: — Per me continua a esserci troppo vermut.

Lavorai giorno e notte intorno a Sergio, fin quando somigliò meno a una macchina spiaccicata contro un albero e più a un aggeggio che una massaia non avrebbe avuto paura di vedersi per casa. Miles veniva di tanto in tanto in laboratorio a constatare i progressi. Io lavoravo per lo più di notte, quando potevo essere solo e tranquillo, dopo aver accompagnato Belle a casa. Dormivo, poi, quasi tutto il giorno, arrivavo allo stabilimento nel tardo pomeriggio, firmavo tutte le carte che Belle mi metteva davanti, controllavo i lavori della giornata, e portavo Belle a cena, prima di rimettermi al lavoro.

Una sera, mentre stavamo finendo di cenare, Belle disse: — Torni allo stabilimento, caro?

— Certo, come sempre.

— Ah, bene, volevo esserne certa, perché verremo anch’io e Miles.

— Come mai?

— Miles ha detto che vuol fare una riunione degli azionisti.

— E perché mai?

— Non ti ruberemo troppo tempo. In realtà, caro, da un po’ di tempo in qua ti sei occupato molto poco degli affari della ditta. Miles vuole mettere in chiaro alcuni punti oscuri e parlare della situazione finanziaria.

— Io mi sono sempre occupato della produzione, che altro avrei dovuto fare?

— Niente, caro. Miles dice che sarà cosa di pochi minuti.

— Ma insomma di che cosa si tratta?

— Non ti arrabbiare, caro, finisci il caffè. Miles non me l’ha detto.

Miles ci stava già aspettando, mi diede una solenne stretta di mano come se non ci vedessimo da mesi. — Si può sapere cosa vuoi? — gli dissi.

— L’ordine del giorno, per favore — disse lui a Belle, e avrebbe dovuto bastare questo a farmi capire che Belle aveva mentito dicendomi di ignorare il motivo della riunione. Lei infatti andò dritta e sicura alla cassaforte, girò la manopola, e l’apri.

— A proposito, cara — dissi — ieri sera ho tentato di aprirla e non ci sono riuscito. Hai cambiato la combinazione?

Intenta com’era a scegliere fra un mucchio di carte, lei rispose senza voltarsi: — Come, non te l’avevo detto? Il poliziotto di ronda mi ha raccomandato di farlo perché ci sono stati parecchi tentativi di furto nei paraggi.

— Capisco, ma farai meglio a dirmi la nuova combinazione, se non vuoi che ti telefoni nel cuore della notte, qualche volta.

— Certo — rispose Belle chiudendo la cassaforte e venendo a deporre sul tavolo un mucchio di fogli.

Miles si schiarì la voce e disse: — Cominciamo.

Sorpreso dal suo tono formale e solenne, lo lasciai andare avanti senza ribattere.

— Desidero rivedere il sistema di gestione dell’azienda, presentare un programma per il futuro, e sottoporre all’assemblea una proposta di finanziamento.

— Una proposta di… Ma sei matto? Gli affari vanno a gonfie vele e aumentano ogni mese. Cosa c’è sotto, Miles? Non sei soddisfatto del tuo assegno? Possiamo votarti un aumento.

— Col nuovo programma di lavorazione occorrerà l’apporto di altro capitale.

— Quale nuovo programma?

— Ti prego, Dan. Mi sono preso la briga di mettere nero su bianco nei minimi particolari. Lascia che Belle ci legga il programma.

— E va bene.

Per farla breve (Miles adorava lo stile pomposo e le parole difficili), il suo programma si può riassumere in tre punti fondamentali: punto a) togliermi Sergio e affidarne la messa a punto e la lavorazione in serie a un gruppo specializzato in modo da metterlo in commercio al più presto. Feci appena in tempo a protestare, che Miles, senza scomporsi, m’interruppe: — Aspetta! Nella mia veste di Presidente e Consigliere delegato, ho la facoltà di esporre le mie idee. Risparmiati i commenti per dopo, quando Belle avrà finito di leggere.

— E va bene, ma su questo punto la mia risposta sarà sempre no!

Punto b) avevamo per le mani qualcosa di grande come l’automobile agli inizi del secolo, e perciò era nel nostro interesse mettere la lavorazione su un piano nazionale in modo che la produzione fosse pari alla richiesta, evitando eventuali concorrenze fin dall’inizio.

Io cominciai a tamburellare sul tavolo con le dita. Mi vedevo nelle vesti di direttore tecnico di un’azienda colossale come quella prospettata dal mio socio: non mi avrebbero nemmeno permesso di avere un tavolo da disegno.

Comunque, non interruppi la lettura dell’ordine del giorno. Il punto c), che era un corollario del b), asseriva che una produzione su vasta scala non poteva certo essere fatta contando il centesimo: occorrevano milioni. Siccome la Mannix Enterprises aveva il capitale ed era attrezzata per lavorazioni tipo la nostra, Miles proponeva di affiliarci ad essa. Lui sarebbe diventato direttore di reparto, io capotecnico dei laboratori di ricerca… e ti saluto libertà. Tutt’e due saremmo stati alle dipendenze di altri, e i bei giorni sarebbero finiti.

— È tutto? — chiesi.

— Sì. Ora possiamo discuterne, poi passeremo alla votazione.

— Posso avere la parola?

— Parla pure.

Esposi un’idea che mi era venuta lì per lì: cedere la Domestica Perfetta e Vanda Vetrina a qualcun altro che le avrebbe prodotte e vendute dandoci una congrua percentuale, e buttarci a corpo morto su Servizievole Sergio.

Fu la volta di Miles di non lasciarmi finire: — Con il tuo progetto, caro mio, resteremo sempre dei pidocchi. Affiliamoci alla Mannix, invece…

— Affiliandoci alla Mannix dovremo chinare la schiena e leccare i piedi a qualcuno. Ti concedo i quattrini in più… ma non ti bastano quelli che potremo fare noi? Dopo tutto, più di una piscina e di un panfilo per volta non ti servono.

— Non è questo che voglio.

— E cosa allora?

— Dan — rispose Miles guardandomi — voglio che tu ti dedichi alle invenzioni, e col mio progetto potrai continuare a farlo senza pensieri e preoccupazioni materiali. Quanto a me, voglio dirigere una azienda conosciuta e importante. Ti assicuro che ho il talento per farlo. Non ho affatto intenzione — aggiunse dando un’occhiata a Belle — di finire i miei giorni nel deserto di Mojave, come direttore di un inventore solitario.

— Se è questo che vuoi — ribattei — sei libero di andartene quando ti pare, per quanto a me e a Belle possa dispiacere perderti. Troveremo certo qualcuno disposto ad accettare il tuo pacchetto azionario. Per carità, va’ pure, se qui ti senti legato e sminuito! — Le parole di Miles mi avevano colpito profondamente. Non avrei mai creduto che non fosse contento della sua condizione, tuttavia, se la pensava così, non avevo il diritto di tenerlo legato a me.

— Non voglio andarmene — disse lui. — Voglio che la nostra azienda si ingrandisca. Hai sentito la mia proposta, adesso mettiamola ai voti.

— Come vuoi — dissi perplesso. — Credo superfluo aggiungere che il mio voto è «no». Belle, fammi il favore di metterlo a verbale. Così — aggiunsi — per il momento le cose restano al punto di prima, parleremo un’altra volta della mia controproposta. Adesso mi fareste un favore andandovene, perché ho da lavorare.

Ma Miles non si mosse. — Voglio che le cose siano fatte in regola — disse, cocciuto. — Belle, appello nominale, per favore.

— Bene. Miles Gentry, pacchetto azionario numero… — e scrisse il numero delle azioni di Miles — vota… come hai detto?

— Sì.

Belle scrisse «sì» sul taccuino.

— Daniel B. Davis, pacchetto azionario numero… — e qui il numero delle mie azioni, che ascoltai distrattamente — come voti, Dan?

— Ho detto no no e no! — sbottai, seccato di tutte quelle inutili formalità. — E con questo, spero che finalmente sia finita. Mi spiace, Miles…

Ma Belle non aveva finito. — Belle S. Darkin — continuò — vota per le azioni numero… — e ripeté un’altra fila di numeri: — Sì.

Io spalancai la bocca a quel «sì», e poi balbettai: — Tesoro, non puoi fare una cosa simile. Sai che ti ho ceduto quelle azioni perché… ma non puoi disporne a questo modo, contro di me.

— Il risultato delle votazioni! — pretese Miles, ignorando la mia interruzione.

— Due sì contro un no. La proposta è accettata.

— Metti a verbale.

— Subito.

Non ricordo con esattezza quello che accadde nei minuti che seguirono. Prima inveii contro Belle, poi cercai di prenderla con le buone, quindi le dissi che aveva agito in modo disonesto perché il mio era stato un dono simbolico (tanto è vero che avevo appena pagato la rata delle tasse di aprile per tutte le mie azioni), e che se mi faceva una cosa simile da fidanzati, figurarsi dopo sposati!

Lei mi guardò negli occhi, in un modo che mi fece uno strano effetto sgradevole. — Dan Davis, se davvero credi ancora che siamo fidanzati dopo tutto quello che mi hai detto, sei più stupido di quanto ti ho sempre creduto. — Poi si rivolse a Miles: — Mi accompagni a casa?

— Certo, cara.

Feci per dire qualcosa, ma preferii scappare via, altrimenti li avrei ammazzati tutt’e due.

Naturalmente, quella notte continuai a rigirarmi nel letto senza riuscire a chiudere occhio.

Verso le quattro del mattino mi alzai, feci una telefonata, e alle cinque e mezzo ero davanti allo stabilimento con un furgone da traslochi. Mi avviai al cancello con l’intenzione di aprirlo, entrare, e portare via il prototipo del mio Servizievole Sergio, ma con mia sorpresa vidi che al cancello era stato apposto un grosso lucchetto nuovo fiammante. Dopo il primo attimo di sbigottimento, mi tolsi il soprabito e il cappello, e non senza fatica scavalcai il cancello. Ma anche la serratura all’ingresso principale era stata cambiata.

La stavo fissando, incerto se spaccare un vetro della finestra, quando una voce intimò alle mie spalle: — Ehilà, voi! Mani in alto!

Invece di ubbidire, mi voltai furibondo. Un ometto anziano mi stava puntando contro un’arma capace di distruggere una intera città.

— Chi diavolo siete? — urlai.

— Chi siete voi, piuttosto?

— Io sono Dan Davis, direttore tecnico di questa azienda.

— Oh — disse l’ometto con evidente sollievo, ma senza abbassare l’arma. — Sì, corrispondete alla descrizione, ma per favore mostratemi i documenti.

— Perché? Chi siete voi?

— Io? Non v’importa chi sono, ma appartengo alla Società di Sorveglianza Notturna… eccovi la tessera. Dovreste sapere che la vostra ditta ha da mesi un abbonamento alla vigilanza notturna, ma stanotte io sono stato delegato qui con mansioni speciali.

— Davvero? Bene, se avete una chiave apritemi, e piantatela di puntarmi contro quel cannone.

— Mi spiace, ma non posso. In primo luogo non ho le chiavi, e in secondo luogo mi hanno impartito ordini speciali riguardo a voi. Non devo assolutamente farvi entrare.

— Ah sì? — gridai, sdegnato, e raccolto un sasso feci per scaraventarlo contro un vetro.

— Vi prego, signor Davis…

— Che c’è?

— Non insistete, altrimenti sarei costretto a sparare. Parlo sul serio. Leggete qui, invece — disse, porgendomi una lettera che aveva preso dalla tasca della giacca, e facendomi segno di tornare verso il cancello. — Mi hanno detto di darvela, nel caso foste venuto qui.

Lessi il foglio nella cabina dell’autofurgone.


18 novembre 1970

Egregio signor Davis, nel corso di una normale riunione dei dirigenti tenuta in data odierna, è stato deciso di troncare tutti i vostri rapporti (esclusi quelli di azionista) con la nostra azienda, come è contemplato nel paragrafo tre del vostro contratto. Vi preghiamo di volervi tenere lontano dalla sede della Società. Provvederemo noi a farvi pervenire le vostre carte e i vostri effetti personali.

La Direzione esprime i suoi sentiti ringraziamenti per i servizi da voi resi, e si rammarica che una divergenza d’opinioni l’abbia costretta al presente passo.

Sinceramente vostri,

Miles Gentry, Presidente del Consiglio di Amministrazione e Consigliere delegato. B.S. Darkin, Segretaria e Tesoriera.


Dovetti leggerla due volte prima di ricordarmi che non avevo mai avuto un contratto per cui si potesse invocare il paragrafo tre o qualsiasi altro paragrafo.

Più tardi, un fattorino mi recapitò alla pensione dove abitavo un pacchetto contenente il mio cappello, diverse matite, il regolo, alcuni libri, la mia corrispondenza, e un fascicolo di documenti. Ma non c’erano i progetti e i disegni del Servizievole Sergio.

C’erano dei documenti interessanti, a dire il vero, come ad esempio il mio contratto in cui, al paragrafo terzo, si leggeva che potevo essere licenziato senza preavviso, con un’indennità di tre mesi di stipendio. Ma più interessante ancora era il paragrafo sette: io m’impegnavo a non lavorare per un periodo di almeno cinque anni a partire dal giorno del licenziamento, per aziende in concorrenza con la Domestica Perfetta, e a non fondarne di similari, previo benestare di questa Società. Questo voleva dire che, se fossi andato col cappello in mano a chiedere lavoro a Miles e a Belle, probabilmente me l’avrebbero dato… Credo che mi avessero rimandato il cappello proprio per questo!

C’erano copie di tutti i brevetti, quello della Domestica e quello di Vanda Vetrina, e di altri aggeggi di secondaria importanza. Il Servizievole Sergio non era stato ancora brevettato, almeno lo credevo io. Scoprii più tardi la verità.

Ma i brevetti non erano nominali. Li avevo sempre richiesti per la Domestica Perfetta S.A., sembrandomi naturale, dato che mi identificavo nell’azienda che avevo creato.

C’erano poi i certificati relativi alle azioni, escluse quelle date in dono a Belle, non occorre dirlo, e l’assegno che ammontava a tre mesi di stipendio più, come spiegava il biglietto accluso, mille dollari che servivano a esprimere la gratitudine per i servizi resi alla Società! Molto carino da parte loro!

Mentre leggevo e rileggevo, mi venne in mente che non ero stato molto furbo a firmare tutte le carte che Belle mi metteva davanti ogni sera. Non potevo, infatti, mettere in dubbio che le firme in calce al contratto non fossero mie.

Il giorno dopo mi rivolsi a un avvocato, che alla fine della mia lunga e particolareggiata esposizione, disse: — Signor Davis, voglio darvi un consiglio che non vi costerà un soldo.

— E cioè?

— Non fate niente.

— Ma…

— Non ci sono ma. So quello che dico. Vi hanno imbrogliato, ma non ne avete la minima prova. Sono stati molto furbi, e non vi hanno tolto il pacchetto azionario, né l’indennità di licenziamento… secondo il contratto, validissimo, che avete con loro.

— Ma non è vero! Io non ho mai avuto un contratto!

— Negate che queste firme siano vostre? No. Mi avete detto poco fa che riconoscete la firma. C’è qualche testimonio che possa provare la verità delle vostre dichiarazioni?

Ci pensai, ma avrei potuto anche farne a meno. Solo Miles e Belle potevano testimoniare che io avevo ragione!

— L’unica cosa alla quale potreste appigliarvi sono le azioni che avete dato in dono. Poiché, come dite, si trattò di un dono di fidanzamento, ora che il fidanzamento è stato rotto potete richiederle. A una condizione, naturalmente, che ci sia una testimonianza di qualsiasi genere con cui possiate provare che quello era un dono condizionato al vostro futuro matrimonio, e che è stata la signorina a rompere il fidanzamento.

Certo, testimoni ne avevo, sempre i soliti due però: Miles e Belle!

— Vedete? Avete soltanto la vostra parola contro la loro, ma loro hanno, in più, un mucchio di carte. Così rischiereste non solo di perdere la causa, ma di finire in manicomio. Vi consiglio quindi di rinunciare a qualsiasi azione legale contro quei due e cercare di dimenticare l’accaduto. Siete giovane e intelligente e potete fare strada lo stesso, a patto che un’altra volta siate più cauto.

Ascoltai solo in parte, e solo in parte seguii i suoi consigli: cercai di dimenticare, e per farlo cominciai a entrare nel primo bar che mi capitò sotto gli occhi.

Quella sera, mentre stavo andando da Miles, ebbi tutto il tempo di rievocare l’accaduto. Da quando l’azienda aveva cominciato a rendere bene, Miles si era trasferito con Ricky in un villino a San Fernando Valley, per sottrarsi all’insopportabile calura del Mojave. Ricky, ne fui felice al pensiero, in quel periodo era al Lago del Grande Orso, a un campeggio di Giovani Esploratrici, così non avrebbe assistito a un litigio fra me e il suo patrigno.

Stavo per uscire dal Sepulveda Tunnel, quando mi venne in mente che prima di andare da Miles avrei fatto bene a mettere in un posto sicuro il mio certificato azionario. Come il gatto che ha avuto la coda chiusa in mezzo alla porta una volta, ero finalmente diventato sospettoso.

Ma come fare? Lasciare il certificato nella macchina? No, poco sicuro, per qualsiasi eventualità.

Avrei potuto spedirlo al mio indirizzo, ma poiché mi toccava spesso cambiare alloggio, esattamente ogni volta che i padroni scoprivano che avevo un gatto, nemmeno quello era uno stratagemma ideale.

Meglio quindi mandarlo a qualche persona fidata. Ma a chi?

Finalmente mi ricordai che c’era qualcuno di cui mi potevo fidare: Ricky.

Quando finalmente uscii dal Tunnel, mi fermai dal primo tabaccaio dove comprai un foglio, due buste, una grande e una piccola, e i francobolli, poi mi misi a un tavolo, e scrissi:


Cara Rikki-tikki-tavi,

quanto ti scrivo deve restare fra te e me. È un segreto, e non devi parlarne a nessuno. Se non mi vedrai più, entro un anno da oggi, ti prego di prenderti cura di Pete…


Non si poteva mai sapere quello che mi sarebbe successo, già stavo per entrare nella tana del lupo, e poi, inconsciamente, ora che gli effetti dell’alcol erano svaniti, non ero più tanto sicuro di volermi sottoporre al Lungo Sonno. Il medico aveva ragione: bisognava comportarsi da uomini, guardare in faccia la realtà.

Così continuai:


E ti prego di portare la busta acclusa, senza dire niente a nessuno, mi raccomando, a un’agenzia della Banca d’America. Consegnala al direttore, e digli di aprirla lui, in tua presenza. Con affetto, ti bacia lo zio Danny.


Poi presi un altro foglio, e scrissi:


3 dicembre 1970 — Los Angeles, California. In pieno possesso delle mie facoltà mentali, e di mia libera volontà cedo le seguenti azioni (e qui aggiunsi i numeri e la descrizione dei miei certificati azionari) alla Banca d’America perche le conservi per Federica Virginia Gentry, con l’incarico di intestarli a suo nome il giorno del di lei ventunesimo compleanno.


E firmai. Le intenzioni erano chiare, né avrei potuto fare di meglio in quella tabaccheria affollata, con un jukebox che mi strillava nelle orecchie. Volevo essere certo che Ricky entrasse in possesso delle azioni, e che Miles e Belle non potessero fare niente per togliergliele. Ma se tutto andava bene, e se decidevo proprio di rinunciare al Lungo Sonno, volevo anche essere sicuro di poter tornare in possesso della busta. Per questo avevo scelto il sistema di cedere le azioni alla Banca, così non dovevo passare attraverso le lungaggini richieste quando si assegnano delle azioni a un minore.

Infilai il certificato nella busta piccola, poi misi questa nella busta più grande, insieme alla lettera. Scrissi l’indirizzo di Ricky, applicai i francobolli e infilai il tutto nella buca appena fuori del negozio. Notai che la levata era prossima, fra quaranta minuti, e risalii in macchina con un sospiro di sollievo. Non tanto per aver messo al sicuro le mie azioni, quanto perché pensavo ormai di aver risolto i problemi che mi tormentavano.

Cioè, non proprio risolto, ma deciso a prenderli di petto, il che era senz’altro più da uomo. Sì, certo, desideravo vedere il 2000… ma quando avrei avuto sessant’anni.

Non c’era fretta. L’avvocato e il medico avevano ragione: ero ancora giovane, nel pieno possesso delle mie facoltà. Perché dare a Miles e a Belle la gioia di togliermi di mezzo?

Intanto, mi sarei preso la piccola soddisfazione di guastare loro la serata.

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