11

La sera seguente, 3 dicembre 1970, mi feci depositare da un tassi a un isolato di distanza dalla casa di Miles, con un buon anticipo sull’orario della mia prima visita laggiù, orario che non ricordavo al minuto. Quando mi avvicinai alla casa era già buio, ma vidi solo la sua macchina, accanto al marciapiede, così arretrai d’un centinaio di metri fermandomi in un punto da dove potevo vedere tutto il tratto del marciapiede, e attesi.

Avevo avuto il tempo di fumare due sigarette, quando vidi un’altra macchina fermarsi davanti alla casa di Miles, e spegnere i fanali. Aspettai due minuti, poi mi affrettai ad avvicinarmi. Era la mia macchina.

Non avevo la chiave, ma non me ne preoccupai. Distratto com’ero, m’era capitato spesso di dimenticare le chiavi, così avevo preso da tempo l’abitudine di tenerne un paio di riserva nel baule. Le presi, e salii a bordo. In quel punto la strada era in pendenza, così senza bisogno di accendere il motore la misi in moto e scesi fino alla successiva curva, per andare poi a parcheggiarla nel viottolo retrostante la casa di Miles, e sul quale si affacciava anche il suo garage. La porta di quest’ultimo era chiusa a chiave, ma sbirciando dietro i vetri sporchi della finestra scorsi una massa oscura nella quale riconobbi una vecchia conoscenza: il prototipo del Servizievole Sergio.

Le porte del garage non sono fatte per resistere all’attacco d’un uomo munito di punteruolo, per lo meno nella California del 1970. Dopo pochi secondi ero dentro. Sapevo che smontando Sergio a pezzi avrei potuto farlo stare nella mia macchina, ma per prima cosa volli accertarmi che disegni e progetti fossero nella nicchia sopra lo chassis, come sospettavo. C’erano, e li portai in macchina, poi mi misi a smantellare Sergio, lavoro che richiese poco tempo, dato che nessuno meglio di me poteva sapere com’era fatto.

Avevo appena portato sulla mia macchina l’ultimo pezzo, cioè lo chassis costituito dalla sedia a rotelle, quando sentii Pete mandare il primo lamento. Imprecando fra i denti contro di me per aver impiegato troppo tempo a smontare Sergio, corsi attorno al garage in modo da poter vedere distintamente nel cortile della casa. Lo spettacolo avrebbe avuto inizio subito.

M’ero ripromesso di godere fino in fondo il trionfo del mio gatto, ma non vedevo niente. La porta posteriore era aperta e attraverso la porta schermata si riversavano fiotti di luce nel cortile. Sebbene però sentissi urli, schianti, miagolii strazianti e strilli di Belle, non riuscivo a vedere niente. Mi avvicinai allora con cautela alla porta schermata, sperando di poter dare un’occhiata alla carneficina, ma quell’accidente era chiusa dall’interno. Era l’unico particolare che non rispondesse al previsto. Così mi frugai febbrilmente in tasca e dopo essermi rotto un’unghia nell’aprire il temperino riuscii a infilare la lama nella fessura e a sollevare il gancio. Feci appena in tempo a balzare indietro che Pete uscì con l’impeto di un motociclista che salta una siepe.

Caddi a sedere su un rosaio e mi ci volle del bello e del buono per liberarmi dalle spine. Ero così occupato che non mi preoccupai se Miles e Belle potessero uscire. Era un particolare che ignoravo, date le mie condizioni dell’altra volta, ma non avevo tempo di pensarci.

Quando mi fui rimesso in piedi, mi acquattai fra i cespugli arretrando oltre l’angolo della casa, perché dalla porta aperta usciva troppa luce. Ormai non mi restava da aspettare altro che Pete si calmasse. Prima, mi sarei ben guardato dall’avvicinarlo e dal toccarlo. Me ne intendo di gatti, io.

Ma tutte le volte che mi passava davanti cercando un pertugio attraverso cui infilarsi in casa, e mandando il suo grido di guerra, lo chiamavo piano: — Pete, sono qui. Vieni, Pete. Mettiti calmo, micio.

Lui s’era accorto della mia presenza, perché si voltò un paio di volte a guardarmi, ma per il resto m’ignorò. Coi gatti bisogna fare una cosa alla volta. In quel momento, il mio aveva un’importante faccenda da sbrigare e non poteva perdere tempo a strusciarsi contro le gambe del suo padrone. Ero sicuro che sarebbe venuto da me non appena avesse sistemato i suoi affari.

Mentre aspettavo, sempre accoccolato dietro un cespuglio, sentii l’acqua scrosciare nel bagno di Miles, e immaginai che lui e Belle stessero lavandosi e medicando le graffiature. Allora mi venne un’orribile idea. Che cosa sarebbe successo se fossi entrato e avessi sgozzato il mio corpo impotente? Ma scacciai subito l’idea perché non mi sentivo tanto curioso, e poi il suicidio è un esperimento un po’ troppo decisivo, sia pure in circostanze tanto singolari.

Comunque, per quanto in seguito ci abbia pensato, non sono mai riuscito a trovare una risposta a quella mia domanda.

Oltretutto, in quel momento ero convinto che sarebbe stato troppo pericoloso entrare, perché mi sarei potuto imbattere in Miles, e non volevo aggiungere un cadavere al carico della mia macchina.

Finalmente Pete si decise a fermarsi davanti a me, tenendosi però a una certa distanza. — Mrrrrgnau? — chiese, il che, tradotto, voleva dire: Entriamo a fare piazza pulita di quelle canaglie? Tu li colpisci in alto, io in basso.

— No, caro, lo spettacolo è finito.

— Acc… mrgnau!

— E ora di tornare a casa, Pete. Vieni qui.

Lui si mise a sedere, accingendosi a lavarsi. Dopo un po’, quando sollevò il muso a guardarmi, io fui pronto a tendergli le braccia, e lui fu altrettanto lesto a saltarmi al collo. — Brrr… Brrr — faceva, e voleva dire: Ma dove diavolo ti eri cacciato quando è cominciato il bello?.

Io lo portai in macchina e lo depositai al posto di guida, perché il resto era tutto occupato dai pezzi di Sergio.

Pete annusò i pezzi che avevo sistemato sul posto a fianco, di solito destinato a lui, e si guardò intorno con aria seccata. — Piantala di fare il difficile — gli ordinai. — Per questa volta mi starai in braccio mentre guido.

Aspettai di essere sulla strada prima di accendere i fanali, poi partii a gran velocità per il Lago del Grande Orso e il Campo delle Giovani Esploratrici. Strada facendo seminai nei fossati e nei campo i pezzi di Sergio, e mi fermai per stracciare e gettare in una roggia disegni e progetti. Il pezzo più grosso, cioè lo chassis, lo gettai in un burrone quando fui giunto in montagna. Erano le tre di notte quando entrai nel parcheggio di un motel a un tiro di fucile dal Campo delle Giovani Esploratrici. Quando il custode venne a farsi pagare l’affitto di una stanza per la notte, gli chiesi a che ora arrivava lassù la posta di Los Angeles.

— Gli elicotteri arrivano alle sette e tredici esatte qui sullo spiazzo.

— Bene, allora chiamatemi alle sette, per favore.

— Signore, se riuscirete a dormire fino a quell’ora col chiasso che fanno al campeggio, siete davvero un fenomeno. Comunque, prenderò nota.

Alle otto, io e Pete avevamo fatto colazione, e io mi ero anche sbarbato e lavato. Esaminai attentamente Pete alla luce del giorno e constatai che, salvo un paio di piccole ammaccature, era uscito indenne dalla lotta. Appena pronti, ci avviammo in macchina al campeggio.

Non avevo mai visto tante ragazze in una volta sola, e nelle loro divise verdi parevano tutte uguali. Mentre mi avviavo alla palazzina direttoriale, quelle che incontrai vollero accarezzare Pete, e quelle che non ebbero il coraggio di avvicinarsi, per timidezza, si limitarono a guardarlo ammirate.

Entrai nella palazzina, e l’esploratrice in uniforme che mi accolse non era più ragazzina da un pezzo. Mi trattò con cautela e sospetto, il che del resto era logico dal momento che lei non mi conosceva e che non ero parente diretto di Ricky, e poi aggiunse che le visite avevano luogo dalle sedici alle diciotto.

— Non sono venuto qui per trovare Federica — le dissi — ma perché debbo riferirle una cosa molto importante e urgente.

— Allora scrivete un biglietto, e abbiate la compiacenza di aspettare che le ragazze abbiano terminato l’esercizio di ginnastica ritmica.

— Vi prego — insistetti — ho proprio bisogno di parlare con la bambina.

— Qualche lutto in famiglia? — chiese la mia interlocutrice.

— No, ma sono successe ugualmente cose assai gravi. Scusatemi, signorina, ma posso parlarne solo a Federica.

La donna tentennava, indecisa, quando Pete intervenne nella discussione. L’avevo portato con me, reggendolo nell’incavo del braccio sinistro, com’era sua abitudine stare, perché sapevo che Ricky sarebbe stata felice di rivederlo. Ormai però era stanco di stare in braccio, e dichiarò: — Mrrrgnao!

La donna lo guardò con un sorriso e disse: — Com’è simpatico! Ne ho uno, a casa, che potrebbe essere suo fratello.

— È il gatto di Federica — spiegai solennemente. — Ho dovuto portare anche lui perché… perché era necessario. Non avevo nessuno a cui lasciarlo.

— Oh, poverino! — disse lei, grattandolo con un dito sotto il mento, nella maniera dovuta. Pete gradì il complimento, per fortuna, allungando il collo e chiudendo gli occhi con aria indecentemente compiaciuta. A ogni modo, il suo intervento decise l’istruttrice, la quale un minuto dopo mi disse che potevo aspettare Ricky: — In via del tutto eccezionale — aggiunse, allungando una mano ad accarezzare ancora Pete prima di andare a chiamare la bambina.

Non la vidi arrivare, ma sentii per prima cosa la sua voce gioiosa esclamare: — Zio Danny, che bellezza! — e mentre mi voltavo per abbracciarla: — Oh, hai portato anche Pete! Questo sì che è magnifico!

Pete espresse la sua gioia con un lungo «mmmrrr» e balzò fra le sue braccia. Ricky lo sistemò ben bene nella sua posizione preferita, e per alcuni minuti tutti e due mi ignorarono, scambiandosi i complimenti gatteschi d’uso. Finalmente Ricky alzò la testa, e disse seria: — Zio Danny, sono davvero felice di vederti.

La guardai commosso. Aveva l’angolosità e la goffaggine dei suoi undici anni, ma gli occhi limpidi e sinceri che rivelavano l’intima bontà del suo carattere erano anche una promessa di futura bellezza.

— Sono felice anch’io di rivederti — le risposi con tutta sincerità.

Reggendo Pete con un braccio, Ricky frugò con l’altra mano nella tasca della divisa, e disse: — È strano che tu sia qui, però. Ho ricevuto poco fa una tua lettera… ma non ho ancora fatto in tempo ad aprirla. Mi scrivevi per dire che venivi oggi?

— No, Ricky, ti scrivevo proprio per dirti il contrario. Devo andare via, e restare assente molto tempo… poi ci ho ripensato e ho preferito venirti a salutare di persona.

L’invitai a sedersi, mi sedetti a mia volta, e cominciai a parlare. Ricky aveva deposto la grossa busta sul tavolino in mezzo a noi, e Pete vi saltò su, assumendo una posa statuaria, con la lettera fra le zampe, ronfando di contentezza.

Provai un grande sollievo quando venni a sapere che Ricky era al corrente del matrimonio fra Miles e Belle, perché mi sarebbe stato troppo penoso doverglielo rivelare.

— Oh, lo sapevo — fu il suo commento quando vi accennai con cautela — me l’ha scritto papà — e poi, fattasi improvvisamente grave, aggiunse con voce accorata: — Non voglio più tornare da loro, Danny.

— Senti, Rikki-tikki-tavi, capisco quello che provi, ma come si può fare? Devi tornare a casa. Miles è il tuo papà e tu hai solo undici anni.

— Niente affatto. Non ci sono proprio obbligata — protestò lei, decisa. — Non è mio padre ma solo il mio patrigno, e poi andrò a vivere con la nonna, la mamma della mamma. Siamo già d’accordo che mi deve venire a prendere.

— Ah, sì, e quando?

— Domani. Le ho scritto dicendole che non volevo più stare con papà, e lei mi ha subito risposto che, siccome non mi ha adottato, Miles non può obbligarmi a stare con lui, tanto più adesso che ha sposato… quella là. Così vado a stare con la nonna.

Questa spiegazione mi procurò un sollievo immenso. L’unico problema che non ero riuscito a risolvere, e che mi stava tormentando da tanti mesi, cioè trovare il modo di sottrarre Ricky alla velenosa influenza di Belle per… be’, per i due anni che Miles aveva ancora da vivere, era risolto.

— Se non ti ha adottato, Ricky, e se la nonna e tu siete decise a rifiutare il suo intervento, non credo che ci siano leggi che ti obblighino a restare con lui — dissi. — Ma come farai a lasciare il campeggio, domani? Ti faranno delle difficoltà, vedrai.

— Come possono impedirmi di andare con la nonna? Salirò sulla sua macchina e me ne andrò, ecco tutto.

— Non è tanto semplice, Ricky. Tu sei affidata loro dal tuo patrigno. Ed è a lui che debbono rispondere di te.

— Ma se ti ho detto che non voglio più andare con lui, e che voglio la nonna invece! — insistette Ricky.

— Sì, tesoro, capisco, ma non è tanto semplice… Sai cosa devi fare? Non dire che vuoi andartene per sempre. Quando arriva la nonna limitati a chiedere il permesso di andare con lei per un paio d’ore. Così, non faranno obiezioni, e tu potrai andartene lo stesso.

Vidi che tirava un sospiro di sollievo. — Farò come dici tu, zio Danny.

— Sarà quindi meglio che tu non prepari bagaglio di sorta, altrimenti qualcuno comincerebbe a sospettare. Non dire niente a nessuno, nemmeno alle tue amichette, e metti in tasca quello che desideri portare via con te. Immagino del resto che non avrai un gran bagaglio.

— Uhm… — fece lei, pensandoci su. — Veramente mi dispiacerebbe lasciare il mio costume da bagno nuovo.

Come spiegare a un bambino che ci sono occasioni in cui, per il bene futuro, si devono abbandonare le cose più care? Un bambino è capace di tornare nella sua casa in fiamme per salvare un elefantino di pezza.

— Allora — risposi, girando l’ostacolo — porta con te il costume dicendo che la nonna ti accompagna a fare una nuotata nel lago Arrowhead… Va bene? Ma, dimmi, sei sicura che la nonna sia d’accordo?

— Sì, credo di sì… anzi, ne sono certa. Non ha mai potuto soffrire Miles.

— Mi pare una persona intelligente — commentai. — E adesso — aggiunsi togliendo con cautela la lettera di sotto le zampe di Pete — ascoltami bene. Come ti ho detto, devo andare via, e starò lontano molto tempo.

— Quanto?

— Trent’anni.

Ricky spalancò gli occhi. A undici anni, trent’anni sono l’eternità.

— Perché? — chiese poi.

Non potevo raccontarle tutto, anche perché sarebbe stato troppo complicato e difficile. — Ricky — le dissi quindi — anche se te lo spiegassi, non potresti capire. Posso dirti solo che… mi sottopongo al Lungo Sonno. Il sonno freddo, sai… ne avrai sentito parlare.

— Ma, Danny, non ti vedrò più! — protestò lei atterrita.

— Sì, che mi rivedrai, tesoro, anche se dovrà passare molto tempo. Anche Pete verrà con me, ma rivedrai anche lui.

— Ma, Danny — protestò debolmente la bambina guardando da me e Pete con aria smarrita — perché non venite a stare con me e la nonna a Brawley? Alla nonna piacciono tanto i gatti!

— Ti prego, cara, non insistere, devo proprio farlo.

Ricky assunse allora un’espressione adirata, e commentò: — Scommetto che anche quella là viene con te.

— Cosa? Parli di Belle? Per carità, se sapessi che è qui vicino scapperei a gambe levate.

Questa sincera dichiarazione ebbe il potere di sollevarla un poco.

— Meno male! — disse. — Parevi matto, con quella… Sai che mi avevi offeso in modo indegno?

— Scusami, Ricky, ti chiedo perdono con tutto il cuore. Avevi perfettamente ragione: ero matto, ma adesso sono guarito. Però devo dirti ancora una cosa molto importante. Sai cos’è questo? — e le mostrai il certificato di proprietà delle azioni della Domestica Perfetta che avevo estratto dalla busta.

— No.

Cercai di spiegarglielo nel modo più semplice possibile. — Adesso scrivo qui dietro che te lo cedo, Ricky — aggiunsi. — Dimmi come ti chiami.

— Lo sai, Ricky Gentry.

— Ma no, dimmi il tuo nome per intero. Se Miles non ti ha adottato, come hai detto prima, non puoi chiamarti Gentry.

— Federica Virginia Heinicke.

Scrissi nel modulo apposito un atto di cessione a suo nome, tramite la Banca d’America che avrebbe provveduto alla consegna il giorno del suo ventunesimo compleanno. Mentre così facevo mi sentii scorrere un brivido lungo la schiena: infatti il mio primo atto di cessione non sarebbe stato valido, e Belle avrebbe potuto impadronirsi facilmente delle mie azioni.

Mentre tracciavo la firma, vidi la sorvegliante sbirciare dalla porta. Guardai l’orologio: avevo parlato per quasi un’ora, e il tempo stringeva. — Signorina — chiamai — sapete dirmi se c’è un notaio giù al villaggio? — Questa volta ero deciso a fare le cose in regola.

— Io sono notaio — rispose. — Vi occorre qualcosa?

— Meraviglioso! Avete il vostro sigillo?

— Lo porto sempre con me.

Firmai quindi sotto i suoi occhi e lei aggiunse la sua firma, con le dichiarazioni di rito per attestare che mi conosceva di persona, poi impresse il sigillo sulla mia firma. Allora sì che tirai un sospiro di sollievo! A Belle non sarebbe stato facile alterare quel documento!

Dopo che l’ebbi ringraziata calorosamente, aveva rifiutato qualsiasi onorario, le dissi che stavo per andarmene, ma che mi concedesse ancora qualche minuto a tu per tu con la bambina.

Quando fummo di nuovo soli, dissi a Ricky: — Consegna questo foglio alla nonna e dille di portarlo all’Agenzia della Banca d’America di Brawley. Penseranno loro al resto.

— Ma io non voglio! — protestò lei con gli occhi pieni di lacrime. — Tu te ne vai e mi abbandoni, e mi lasci con quel foglio… non so che cosa farmene, io!

— Ricky, tesoro, ascolta. Ormai è troppo tardi, e sono costretto a fare quello che ti ho detto. E poi, ora che la signorina ha messo la sua firma e il suo timbro, non potresti più disfare quello che è stato fatto. Quel foglio vale tanti soldi, che saranno tuoi quando avrai ventun anni.

— Io non voglio i soldi, voglio te… e Pete — insistette la bambina con la voce soffocata dal pianto.

— C’è un modo — dissi — e ora te lo spiego. Asciugati gli occhi, e ascoltami. Prima di tutto hai capito bene fino a questo punto?

Lei annuì, tirando su col naso.

— Bene. Dunque, andrai a stare dalla nonna e studierai, da brava bambina. Poi, quando avrai ventun anni e potrai fare quello che desideri, se vorrai, potrai sottoporti anche tu al Lungo Sonno, e quando ti sveglierai, io sarò lì con Pete ad aspettarti. Te lo giuro.

Lei si rasserenò. — Davvero mi aspetterai?

— Sì, ma dobbiamo metterci d’accordo bene. Questa è la parte più importante di tutto, perciò prendi la penna e scrivi quello che ti dirò. Ecco qua un foglietto… Dunque, quando avrai ventun anni, se non avrai cambiato idea, rivolgiti alla Compagnia Cosmopolita… Co-smo-po-li-ta… di Assicurazioni, a Los Angeles, e prendi accordi in modo da venire sottoposta al Lungo Sonno nel Ricovero Riverside… Ri-ver-si-de… capito? Scrivi esattamente, e bada di conservare questo foglio… Segna la data, ora: dovrai svegliarti esattamente il 1° maggio del 2001. Va bene? Se ubbidirai a puntino, ti prometto solennemente che io e Pete saremo là ad aspettarti. Ma non devi sbagliare o dimenticarti qualcosa, capito?

Infilai il foglio con le istruzioni in una busta di plastica che avevo portato con me da Denver, e gliela porsi, ripetendo le raccomandazioni.

Ricky la prese e se la infilò in tasca, seria seria, insieme a quella in cui avevo messo il certificato di cessione delle azioni, poi, senza alzare gli occhi, mormorò con voce appena percettibile: — Se lo farò… mi prometti anche che mi sposerai?

Mi sentii rombare le orecchie e per un istante mi si offuscò la vista. Tuttavia riuscii a rispondere con voce ferma: — Sì, Ricky. È proprio per questo che ti ho dato tutte quelle istruzioni.

Prima di lasciarla dovevo fare ancora una cosa, darle una busta precedentemente preparata, sulla quale avevo scritto: Da aprire alle morte di Miles Gentry. Dentro, c’erano i documenti inviatimi dall’Agenzia d’Investigazione e relativi alla poco edificante carriera di Belle. Così, se alla morte di Miles quell’arpia avesse per qualche suo losco motivo tentato di mettere le mani su Ricky, avrebbe trovato pane per i suoi denti. Infine le diedi l’anello con lo stemma del Politecnico (non ne avevo altri), e le dissi di conservarlo in pegno del nostro fidanzamento. — Quando ti sveglierai — le promisi — te ne darò un altro più bello.

Lei lo strinse nel piccolo pugno (era troppo largo perché potesse infilarlo al dito) e dichiarò: — Non ne voglio altri.

— Bene… E adesso saluta Pete. Non posso aspettare oltre.

Lei strinse a sé Pete, poi me lo porse, guardandomi con gli occhi pieni di lacrime: — Addio, Danny — mormorò.

— Non addio, Ricky, ma arrivederci. Saremo là ad aspettarti.


Quando tornai al villaggio erano le dieci. M’informai, e seppi che alle dieci e mezzo sarebbe partito l’elicottero di linea. Feci appena in tempo a cedere l’automobile a un rivenditore che me la pagò un’inezia, e salii sull’elicottero tenendo nascosto Pete: i gatti soffrono il mal d’aria e le Compagnie Aeree fanno un mucchio di difficoltà ad accettarli a bordo dei loro apparecchi. E così, alle undici passate da poco, potevo entrare nell’ufficio del signor Powell, alla Mutua Assicurazioni.

Powell si mostrò seccato che avessi affidato ad altri e non alla Società l’amministrazione delle mie azioni, ma quando gli consegnai tutto il denaro che avevo con me, dietro la minaccia di rescindere il contratto e recarmi alla Central Valley, non fece più obiezioni.

— Mi raccomando che la data del risveglio sia esatta — pretesi. — Comunque non oltre il 27 aprile 2001.

Lui apportò le dovute modifiche al contratto, ed entrambi vi apponemmo le iniziali.

A mezzogiorno in punto entravo nello studio del medico che mi guardò e chiese: — Avete bevuto?

— No. Sono sobrio come un giudice.

— Preferisco controllare — e mi esaminò come aveva fatto… ieri. Alla fine depose il suo martelletto di gomma e aggiunse: — Sono davvero stupefatto. In confronto a ieri siete in condizioni davvero magnifiche. Non l’avrei mai creduto possibile.

— Se sapeste, dottore…

Ma lui aveva altro da fare che sentire la mia storia, e del resto io non avevo la minima intenzione di raccontargliela. Non volevo finire in manicomio.

Accompagnai Pete nel reparto veterinario, dove gli praticarono una prima iniezione sedativa, e quando lo vidi addormentato tranquillo mi sottoposi a mia volta ai procedimenti d’uso. Forse avrei potuto aspettare qualche giorno ancora, ma ormai avevo fatto tutto quello che dovevo fare, ed ero ansioso di tornare nel 2001.

Così, verso le quattro del pomeriggio, con Pete sdraiato sullo stomaco, scivolai felicemente per la seconda volta nel Lungo Sonno.

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