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Stavolta i miei sogni furono più piacevoli. L’unico brutto che ricordi era uno in cui, freddo e tremante, cercavo, lungo un interminabile corridoio su cui si aprivano molte porte, quella che dava sull’estate, perché dall’altra parte di quella porta mi aspettava Ricky.

I miei movimenti erano impacciati da Pete che mi precedeva seguendomi, secondo la poco lodevole abitudine che hanno i gatti di intrufolarsi fra i piedi delle persone che camminano, col rischio di essere pestati o presi a calci.

Proprio davanti a ogni porta mi si cacciava tra i piedi, sporgeva il muso, e sentendo che dall’altra parte era inverno, si ritraeva spingendomi, quasi, indietro.Con tutto ciò, né io né lui rinunciavamo ai tentativi.

Anche il risveglio fu più agevole, questa volta, e non ebbi bisogno di ambientarmi. Anzi, il medico rimase sorpreso constatando con quanta naturalezza chiedevo la colazione e una copia del Times, senza mostrare meraviglia davanti alle prodezze di Pronto-agli-Ordini.

Mi consegnarono un biglietto, datato una settimana prima, a firma di John Sutton. Diceva:


Caro Dan, confesso che mi sono dato per vinto. Dunque: come avete fatto? Spero che vorrete venire presto a salutare me e Jenny, alla quale ho tuttavia spiegato che per qualche tempo avrete molto da fare. Stiamo tutti e due bene e siamo in forma, anche se qualche volta ho il fiato un po’ grosso, Jenny, invece, è più carina che mai.

Hasta la vista, amigo John.

P.S. Se la direzione del Ricovero lo permette, telefonateci… gli affari vanno a gonfie vele. Spero che sarete contento di noi.


Presi in considerazione l’idea di chiamare John, sia perché avevo voglia di salutarlo, sia perché desideravo esporgli un’idea colossale che mi era maturata nel cervello mentre dormivo… un congegno grazie al quale prendere un bagno sarebbe diventato una delizia degna di un sibarita. Ma rinunciai, per il momento, perché avevo altro per la testa. Mi limitai a prendere qualche appunto per ricordare meglio in seguito, e mi accinsi a schiacciare un pisolino con Pete in braccio, secondo un’abitudine piacevole ma a volte fastidiosa, perché a lungo andare vengono i crampi.

Lunedì 30 aprile uscii dal Ricovero per andare a Riverside dove affittai una stanza alla Locanda della Missione, vicino al Ricovero di quel quartiere.

La mattina seguente mi presentai al direttore del Ricovero, gli dissi chi ero, e gli chiesi se fra i suoi clienti ce n’era una che si chiamava Federica Virginia Heinicke.

— Avete documenti d’identificazione? — mi chiese.

Gli mostrai la patente di guida del 1970, rilasciata a Denver, e il certificato d’uscita dal Ricovero. Lui li esaminò attentamente, mentre io continuavo, con ansia: — Credo che debba uscire dal Sonno domani. Sapete se nel suo contratto vi sia una clausola per cui io posso essere presente al risveglio? No, non alludo ai preliminari, ma all’attimo in cui riprenderà definitivamente coscienza.

Lui mi sbirciò ancora, poi dichiarò, con esasperante lentezza: — La nostra cliente non vuol essere svegliata a un data precisa.

— No? — dissi con apprensione, senza capire il perché di questo particolare.

— No. Nel suo contratto c’è una clausola secondo la quale dobbiamo richiamarla alla vita solo quando sarete venuto voi! — e sorrise.

— Grazie, dottore! — esclamai con indicibile sollievo.

— Aspettate nella sala qui fuori — aggiunse il direttore — e fra due ore potrete tornare.

Non essendo capace di stare fermo, portai Pete a fare due passi.

La sera prima gli avevo comprato una borsa nuova, nella quale avevo fatto inserire un finestrino laterale di plastica trasparente, ma lui non pareva apprezzare le mie premure. Evidentemente aveva nostalgia di quella vecchia, rimasta in casa di Miles… trent’anni prima.

Per ammazzare il tempo, mi fermai a fare colazione in un simpatico ristorante, ma non riuscii a mandare giù niente. Pete mangiò anche la mia porzione di uova, ma scartò la pancetta fritta agitando la zampa con disgusto.

Alle undici e mezzo ero già al Ricovero, e dopo un’altra mezz’ora di estenuante attesa finalmente me la lasciarono vedere. Tutto quello che riuscii a scorgere di lei fu l’ovale del viso. Il resto era avviluppato nelle lenzuola, ma subito riconobbi la mia Ricky, cresciuta, e somigliante a un angelo addormentato.

— Fra poco si sveglierà — mi spiegò il dottor Ramsey, il direttore — si trova immersa nel sonno ipnotico… Uhm, forse sarebbe meglio mettere fuori il gatto.

— Mi spiace, dottore, ma il gatto resta.

Lui fece per ribattere, ma poi si strinse nelle spalle, e rivoltosi a Ricky disse con voce alta e ferma: — Svegliati, Federica. Svegliati. Devi svegliarti subito.

Le palpebre di Ricky ebbero un fremito lieve, poi gli occhi si aprirono, si volsero in giro, e quando si fermarono su di me, la sua faccia si illuminò in un sorriso. — Danny… e Pete! — Sollevò le braccia, e io potei vedere che aveva infilato al pollice il mio vecchio anello.

Pete si mise a fare le fusa e balzò sul letto, dandole grandi testate, avanti e indietro, sotto il mento, in un’estasi di benvenuto.


Il dottor Ramsey avrebbe voluto che passasse un’altra notte al Ricovero, ma Ricky non volle. La nonna di Ricky era morta nel 1980, e lei non aveva altri parenti, ma aveva ancora qualche oggetto di sua proprietà, soprattutto libri, che io feci spedire alla sede dell’Aladino, al nome di John Sutton. Ricky era un po’ confusa e stordita notando i cambiamenti avvenuti nei vent’anni e più in cui aveva dormito, e non si staccava mai dal mio braccio. Ma non provò mai quel senso di solitudine caratteristico di chi si sveglia dal Lungo Sonno e non ha nessuno ad aspettarlo.

Dopo Brawley ci recammo a Yuma, dove io firmai il registro matrimoniale del municipio scrivendo per esteso, in bella calligrafia, il mio nome: Daniel Boone Davis, perché non ci fossero dubbi su quale D. B. avesse apposto quell’importante firma. Pochi istanti dopo, con la mano di Ricky nella mia, ripetevo le parole del celebrante: — Io, Daniel, prendo te Federica in legittima sposa… fino a che morte non ci divida.

Pete fu il mio compare d’anello. I testimoni furono due impiegati del municipio.

Partimmo subito da Yuma per un ranch-albergo, dove affittammo un villino appartato in cui un Pronto-agli-Ordini sbrigava le faccende, in modo che nessuno potesse turbare la nostra intimità. Pete sostenne una memorabile battaglia col gatto del proprietario, che fino a quel giorno non aveva avuto rivali nel ranch. Questo è l’unico avvenimento importante che ricordo, di cui non fossimo protagonisti Ricky e io.

D’altro, c’è poco da dire. Con le azioni della Domestica Perfetta di cui Ricky era proprietaria potei far varare la mia proposta di mettere Chuck al posto di direttore tecnico e confinare Mac Bee al rango di Ricercatore Emerito.

John è direttore generale della Aladino, che in effetti dirige insieme a Jenny. Io mi limito alla parte di azionista, così le due società sono spronate a farsi concorrenza… questo è vantaggioso per tutti.

Io mi accontento di una stanzetta piena di progetti e di disegni, e quando i progetti sono completi, chiedo i brevetti. Ho ritrovato gli appunti presi durante i colloqui col professor Twitchell, al quale ho scritto che il suo esperimento è pienamente riuscito, e che sono tornato via sonno freddo scusandomi sentitamente per aver espresso dei dubbi sulle sue capacità.

Gli ho anche chiesto se aveva piacere che pubblicassi il libro della sua biografia, ma non mi ha risposto. Evidentemente è ancora in collera con me.

Comunque, io scrivo sul serio la sua biografia, che pubblicherò a mie spese e farò esporre in tutte le librerie e donerò alle biblioteche nazionali. È il meno che possa fare per lui, perché solo per merito suo io, oggi, ho Ricky. E Pete. Intitolerò il libro: Un genio nell’ombra.

Jenny e John sono sempre gli stessi, sembra che siano eterni. Grazie ai progressi della geriatria, all’aria buona, al sole, alla ginnastica, Jenny è più carina adesso a, credo, sessantatré anni, che trent’anni fa. John, nonostante l’implicita ammissione del suo biglietto, continua a insistere che io devo essere un veggente o qualcosa del genere, rifiutandosi di ammettere l’evidenza. Quanto a Ricky, quando ho tentato di spiegarle tutta la storia, durante la luna di miele, dicendole che mentre mi recavo da lei al campeggio delle Giovani Esploratrici ero contemporaneamente drogato in casa di Miles a San Fernando Valley, è diventata pallida e mi ha imposto di smettere. Ma anche se mi avesse lasciato parlare fino in fondo la mia spiegazione non sarebbe stata completa ed esauriente. Tutte le volte che ci penso, infatti, e non sono poche, c’è un punto che resta oscuro. Perché non lessi la notizia della mia rinascita? Alludo alla seconda, avvenuta nell’aprile del 2001, non a quella avvenuta nel periodo del mio primo risveglio quando vidi anche quel famoso F. V. Heinicke grazie al quale riuscii a risalire fino a Ricky. La seconda volta, dunque, venni svegliato venerdì 27 aprile 2001 e la partecipazione della mia rinascita avrebbe dovuto comparire sul Times del giorno successivo. Invece, allora, non la vidi. Quando mi presi la briga di controllare, dopo il secondo risveglio, la trovai nel Times di sabato 28 aprile.

Filosoficamente, basta una riga d’inchiostro per mutare l’universo, allo stesso modo che esso muterebbe se scomparisse, poniamo, l’Europa. Che si tratti dell’antica nozione, riveduta e corretta, delle diramazioni della corrente del tempo e degli universi multipli? Al secondo risveglio mi ritrovai forse in un altro universo. E allo stesso modo, esiste forse tuttora un universo in cui Pete, chissà dove, e chissà quando, miagolò disperatamente ritrovandosi solo e abbandonato? E in cui Ricky non riuscì mai a fuggire con la nonna ma dovette sopportare la collera vendicativa di Belle?

Una linea di caratteri di stampa non è una prova sufficiente. È probabile che quella sera io mi sia addormentato senza aver letto il mio nome, e il mattino dopo abbia gettato il Times nel dissipatore, convinto di averlo letto tutto. Mi capita spesso di essere distratto e assente, specie quando ho qualche progetto per la testa.

Ma se l’avessi visto, che cosa avrei fatto? Sarei andato al Ricovero, mi sarei visto, e sarei impazzito? No, perché se così avessi fatto non avrei agito in seguito come invece feci, dico in seguito relativamente a me stesso è chiaro, e le cose non sarebbero andate come sono andate. La mia è un’analisi negativa, inutile perché nata con un vizio d’origine, in quanto l’esistenza o meno di quella famosa riga di stampa dipende dalla possibilità che mi sia sfuggita. Quanto alla possibilità che avrei invece avuto di vederla fa parte delle non possibilità escluse dallo schema fondamentale dell’universo.

C’è una divinità che forma i nostri destini abbozzandoli appena, e la nostra volontà finisce di foggiarli. In questa frase sono ammessi la predestinazione e il libero arbitrio, dando credito di verità a ciascuno. Esiste un unico mondo reale, con un solo passato e un solo avvenire… com’era in principio, ed ora e sempre, nei secoli dei secoli, così sia. Uno solo, sì, ma grande e complesso quel tanto che basta a comprendere il libero arbitrio e lo spostamento temporale e tutto quanto il resto nei suoi allacciamenti e circuiti e controlli. Pur di mantenersi alle regole si può fare quello che si vuole… ma poi, alla fine, bisogna sempre tornare alla propria porta.

Io non sono l’unica persona che abbia viaggiato nel tempo. Fort elencò parecchi casi altrimenti inspiegabili, e altrettanto fece Ambrose Bierce; poi ci sono quelle due signore nel giardino del Trianon. Inoltre ho il sospetto che il professor Twitchell abbia premuto quel pulsante più volte di quanto non gli piaccia ammettere… per non parlare di altri che, in passato o in avvenire, hanno scoperto il sistema di spostarsi avanti o indietro nel tempo. Comunque, non credo che sia una scoperta destinata a diffondersi. A quanto ne so, oltre a me tre altre persone soltanto ne sono al corrente, e di queste, due non ci vogliono credere. Spostarsi nel tempo non sempre è utile, e come dice Fort si può viaggiare in ferrovia solo quando il tempo è maturo per le ferrovie.

Quello però che non riesco a togliermi dalla testa è Leonard Vincent. È possibile che lui e Leonardo da Vinci fossero la stessa persona? Secondo l’enciclopedia visse così e così, ma non è da escludere che i dati siano stati inventati, non ci sarebbe niente da meravigliarsi, tanto più che nell’Italia del quindicesimo secolo non vigevano certo i sistemi d’identificazione individuali odierni. Non c’erano carte d’identità, tabelle d’impronte digitali e così via, quindi niente di più facile che falsificare dei dati.

Ma pensate un po’ a un ingegno come il suo, consapevole delle possibilità del volo, dell’energia elettrica e atomica, e di mille e mille altre cose, intrappolato in un mondo immaturo, in cui gli era impossibile usare delle proprie cognizioni per quanto si sforzasse di descriverle adeguandosi ai tempi. Dev’essere stato un supplizio peggiore di quello di Tantalo!

Ho anche pensato sovente alla possibile divulgazione dei viaggi nel tempo, ma ho deciso che è meglio rimangano segreto di Stato. Troppe complicazioni, troppi rischi… pensate un po’ di ritrovarvi alla corte di Enrico VIII con un carico di tubi elettronici! Cosa fareste? Se riusciste a usarli potreste incappare in un processo per stregoneria. O, se, per caso, un uomo del 2000 si trovasse solo nell’età della pietra.

No, meglio che le cose restino come sono.

Tuttavia, se nel trentesimo secolo un inventore creerà un meccanismo capace di far andare la gente avanti e indietro nel tempo, e tutti se ne serviranno, vorrà dire che i tempi sono maturi e che il Creatore lo permette. Dopo tutto, ci ha dato due occhi, due mani e un cervello perché ce ne serviamo, e quanto l’uomo fa con essi non può essere un paradosso.

Basta con la filosofia. Prendiamo il mondo com’è, e godiamo la nostra parte. Io ho trovato la mia Porta che dà sull’Estate, e non viaggerei più nel tempo per tutto l’oro del mondo, nel timore di scendere alla stazione sbagliata.

Mi contento di quello che ho, e l’unico dispiacere è che Pete sta invecchiando e ingrassando. Temo che fra non molto dovrà soggiacere al vero Sonno, il Sonno Eterno. Gli auguro con tutto il cuore che la sua piccola anima coraggiosa trovi nel paradiso dei felini la porta sull’estate, dove ci sono prati pieni d’erba e topi in quantità, dove ci sono mani carezzevoli e braccia pronte ad accoglierlo, e morbidi cuscini, e non ci sono piedi che diano calci.

Anche Ricky sta ingrassando, ma solo temporaneamente e per un motivo che mi rende felice, ed è più bella e cara che mai. Sto costruendo un letto idraulico che farò brevettare e sarà utile a tutte le donne nelle sue condizioni. Dovrei trovare anche il sistema di farla entrare e uscire dalla vasca da bagno con maggior facilità. Anche per Pete ho costruito un bagno per gatti, da usarsi quando fa brutto tempo, igienico, inodoro, automatico. Però Pete, da vero gatto, preferisce uscire, e non ha mai rinunciato alla convinzione che se uno prova tutte le porte, proprio tutte, troverà alla fine quella sull’Estate.

E credo che abbia ragione.

FINE
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