8

Telefonai al dottor Albrecht, con il quale non mi ero più fatto vivo dopo l’uscita dal Ricovero. Ci scambiammo i saluti e i convenevoli di rito, poi esposi il motivo per cui l’avevo chiamato.

— Dottore — chiesi — è possibile che il Lungo Sonno provochi amnesia?

Lui esitò un poco prima di rispondere. — È concezionalmente possibile — disse poi — anche se finora non se n’è verificato un solo caso, a quanto ne so. A meno che, naturalmente, non ci fosse un’altra causa.

— E quali sono le cause che possono provocare un’amnesia?

— Sono parecchie. La più comune è il desiderio inconscio che il paziente prova di dimenticare qualcosa, e in questo caso dimentica uno o più fatti che altrimenti gli riuscirebbero insopportabili, o li modifica. Questa, grosso modo, è l’amnesia funzionale. Poi c’è la classica botta in testa: amnesia da trauma. E poi ci possono essere casi di amnesia da suggestione, per effetto di droghe o di ipnosi. Ma perché questa domanda? Non riuscite a trovare il portafoglio?

— No, no… anzi, finora mi sono trovato benissimo, solo che adesso mi sono venuto per caso a trovare di fronte ad alcuni fatti avvenuti poco prima del Lungo Sonno, e non riesco a rammentarli.

— Uhm… siete sicuro che non c’entri nessuna delle cause che vi ho menzionato?

— Potrebbero entrarci tutte — risposi lentamente — meno, forse, la botta in testa… ma anche di questa non sono sicuro. Potrebbero avermi picchiato mentre ero ubriaco.

— M’ero dimenticato di menzionare la più comune delle amnesie temporanee — disse allora lui, seccamente — e cioè quella da alcol. Sentite, figliolo, perché non venite da me a fare due chiacchiere? Così potrete spiegarmi nei particolari tutto quello che vi tormenta. Non sono uno psicanalista e forse non riuscirò a scoprire la causa delle vostre angustie, ma posso indirizzarvi a qualche collega, se sarà il caso. Siccome però le tariffe degli ipno-analisti sono molto elevate, penso che fareste bene a parlare prima con me.

— Dottore, siete stato anche troppo gentile — gli risposi — e non voglio approfittare oltre.

Lui insistette, e io finii col promettergli che la settimana seguente gli avrei telefonato per fissare un appuntamento.

Ormai s’era fatto tardi e quasi tutti se n’erano andati. Io rimasi a lungo a pensare, in silenzio, finché le mie meditazioni vennero interrotte dall’arrivo di Chuck Freudenberg.

— Salute! Credevo che te ne fossi già andato da un pezzo. Svegliati, e vai a finire il sonno a casa.

— Chuck — gli dissi — m’è venuta una magnifica idea. Comperiamo un barattolo di birra e due panini.

Lui ci pensò sopra. — Vediamo… è venerdì… sì, posso concedermi un po’ di svago.

— Allora aspettami, metto questi fogli nella cartella e sono da te.

Bevemmo un paio di birre, mangiammo qualche panino, poi andammo a bere un’altra birra in un locale dove facevano della buona musica, e poi ancora in un altro, che era tranquillo e dove non c’era musica che desse fastidio, e lì, finalmente, raccontai a Chuck dei brevetti che portavano il mio nome. Lui dapprima prese la cosa in scherzo, ma vedendo che io ero maledettamente serio e deciso ad andare a fondo, mi chiese: — E allora, cos’hai intenzione di fare?

— Andrò da uno psicanalista perché mi scavi in fondo all’anima per vedere quello che c’è sepolto.

— Immaginavo che avresti risposto così — commentò lui con un sospiro. — Ma senti un po’, Dan, supponi che l’esame non scopra niente, cosa farai allora?

— È impossibile!

— Dissero così anche a Colombo. Finora non hai preso in considerazione la spiegazione più semplice.

— Quale sarebbe?

Senza rispondermi, fece segno al cameriere di portargli l’elenco dei telefoni. — Che intenzioni hai? — chiesi, mentre lui sfogliava il grosso volume. — Vuoi chiamare un’ambulanza?

— Non ancora. Guarda un po’ qui.

Guardai: l’elenco era aperto sulle pagine dei «Davis», e Chuck mi sottolineò almeno una dozzina di D. B. Davis. — Questo è l’elenco dei tuoi omonimi in una città di circa sette milioni di abitanti — disse. — Prova a estendere le ricerche a tutta la nazione, e mi saprai dire!

— Questo non prova niente — dissi io, un po’ scosso.

— No — ammise lui — dico anch’io che sarebbe una coincidenza davvero più unica che rara se due ingegneri col pallino delle invenzioni con lo stesso nome, e probabilmente della stessa età, avessero lavorato nello stesso periodo intorno a due idee identiche. Ma la legge minima potrebbe provarti, cifre alla mano, che le probabilità esistono. La gente si dimentica sempre che le cose più strane e impensate succedono davvero.

— Allora, secondo te, che cosa dovrei fare?

— In primo luogo non sprecare tempo e denaro con i medici, finché tu non abbia scoperto il nome di battesimo di questo D. B. Davis che ha firmato la richiesta dei brevetti. Poi cerca anche il secondo nome, perché se Daniel è un nome comune, il secondo sarà difficilmente Boone. E la terza cosa, ma sarebbe la prima in ordine di tempo, è dimenticare tutto questo pasticcio per un po’, e ordinare un’altra birra.

Così fu fatto, almeno per la birra, e parlammo di altre cose, finché, dopo un poco, io dissi: — Se i viaggi nel tempo fossero davvero possibili, saprei bene che cosa fare.

— Di cosa stai parlando?

— Del mio problema. Senti, Chuck. tutte le cose che mi preoccupano e che non riesco a spiegare sono successe trent’anni fa. Se potessi tornare indietro a scoprire la verità, se fosse possibile tornare indietro nel tempo…

— Ma è possibile! — disse Chuck fissandomi.

— Cosa?

Lui parve riprendersi. — Niente. Non avrei dovuto dirlo — rispose.

— È probabile — dissi — ma ormai l’hai detto, e adesso sarà meglio che mi spieghi tutto se non vuoi che ti vuoti questo boccale in testa.

— No, Dan, dimenticatene.

— Parla!

— Non posso, credimi. — Si guardò intorno per accertarsi che nessuno potesse sentire, e quando ne fu sicuro, aggiunse: — I viaggi nel tempo sono segreti di Stato.

— Buon Dio, perché?

— Ehi, non hai mai lavorato per il governo, tu? Metterebbero il cartellino «segreto» su tutto, se potessero. È il loro modo di ragionare, e io non posso farci niente. Quindi, come non detto.

— Piàntala, Chuck! È una cosa terribilmente importante per me… — E poiché lui non accennava a rispondere, aggiunsi: — Con me puoi parlare. Ai miei tempi, avevo un permesso «Q». Non me l’hanno mai ritirato, anzi. Solo che dopo l’ultima guerra non ho più lavorato per il governo.

— Cos’è un permesso «Q»?

Glielo spiegai, e lui annuì: — Sì, adesso si chiamano lasciapassare Alfa. Si vede che maneggiavi roba importante, Dan. Io ho solo un Beta.

— È allora perché non parli?

— Cosa? Ma sì, lo sai perché. Anche se sei una persona fidata, non hai però la qualifica di Necessitato a Conoscere.

— Al diavolo! Se non ho necessità io di conoscere una cosa simile…

Lui rimase a lungo silenzioso, poi alzò gli occhi e disse: — Va bene. Parlerò, Dan, perché credo di potermi fidare di te, e perché tu ti metta il cuore in pace. Non credo che si tratti di una cosa che ti possa essere utile. I viaggi nel tempo sono possibili, ma non sono una cosa pratica. Non ne potrai fare niente.

— Perché?

— Lasciami spiegare, no? Non hanno mai sviluppato praticamente la teoria, e può anche darsi che non lo facciano mai. Non è di alcun valore pratico, nemmeno nel campo delle ricerche, e se lo Stato ci ha messo le mani sopra, è solo perché si tratta di un sottoprodotto della Null-Grav.

— Ma la Null-Grav è a disposizione del pubblico, adesso — protestai.

— D’accordo, e sarebbe così anche dei viaggi nel tempo, se si dimostrassero di utilità commerciale.

Chuck continuò spiegandomi che, quando era laureando, all’università Boulder, nel Colorado, s’era impiegato come assistente di laboratorio, per guadagnare qualcosa, ed era stato assegnato al professor Hubert Twitchell, l’uomo che, battuto per un soffio dall’Università di Edimburgo per la pubblicazione sulle teorie della Null-Grav, aveva perso il Premio Nobel e se n’era fatto un cruccio tale da guastarsi il carattere.

— Twitchell riteneva che se fosse riuscito a ottenere la polarizzazione intorno a un altro asse avrebbe potuto invertire il campo gravitazionale, invece di annullarlo. Ma non accadde niente. Così ripassò al calcolatore quello che aveva elaborato, e i risultati lo fecero restare a bocca aperta. Non me li fece mai vedere, naturalmente. Dopo avermeli fatti contrassegnare, introdusse due dollari d’argento in una gabbia di prova, allora si usavano le monete metalliche, poi premette il pulsante solenoide, e le monete sparirono. Avrebbe potuto trattarsi di un trucco da prestigiatore, e io pensai che dopo un po’ le avrebbe tirate fuori dal naso di qualcuno… ma per il momento dovetti accontentarmi di quello. Una settimana più tardi, una di quelle patacche ricomparve. Una sola. Ma prima ancora, un pomeriggio, mentre stavo facendo pulizia in laboratorio, d’improvviso comparve in una delle gabbie un porcellino d’India che non faceva parte della dotazione di laboratorio e che non avevo mai visto prima. Io me lo portai a casa e lo addomesticai. Dopo la ricomparsa del dollaro d’argento, il professore intensificò tanto il lavoro da dimenticare persino di radersi. Ripeté l’esperimento con due porcellini d’India e quando uno di essi ricomparve, dieci giorni più tardi, Twitchell fu sicuro di avercela fatta. Poco dopo arrivò un funzionario del Dipartimento della Difesa, un colonnello dal piglio militaresco che non capiva un’acca di fisica, ma che si diede un gran da fare a mettere sigilli di segretezza dappertutto.

— Evidentemente — dissi — pensava che la scoperta del professore potesse servire anche in guerra. Per esempio, tornando indietro nel tempo, si poteva disporre un’armata in un determinato punto, in una determinata battaglia, e così la storia sarebbe cambiata… Ma no, adesso capisco, bisogna avere le cose due alla volta: due dollari, due cavie, due armate, una da mandare indietro e l’altra da mandare avanti, per pareggiare il conto, altrimenti una sola andrebbe perduta. Quindi, in primo luogo è meglio avere l’armata al posto giusto nel momento giusto.

— Hai ragione, ma i tuoi argomenti sono sbagliati. Non è necessario servirsi di due cose, basta pareggiare le masse. Puoi prendere un’armata da una parte e dall’altra un macigno che pesi altrettanto. È un caso di azione-reazione, corollario della Terza Legge di Newton. — Scarabocchiò qualche formula nelle sbavature di birra sul tavolino. — MV uguale a mv, è la formula fondamentale dei razzi. La formula analoga per i viaggi nel tempo è MT uguale a mt.

— Ancora non capisco. I sassi costano poco.

— Adopera il cervello, Dan. Con un razzo si può puntare sull’obiettivo, ma in che direzione si trovava la settimana scorsa? Prova a cercarla. Non hai la minima idea di quale massa vada indietro e quale vada invece in avanti. Non c’è modo di orientare l’apparecchio.

Tacqui. Certo, pensavo, sarebbe imbarazzante per un generale aspettare una divisione di soldati freschi e vedersi arrivare un monte di ghiaia. Ma Chuck continuava a parlare.

— Tu tratti le due masse come le piastre di un condensatore, portandole allo stesso potenziale temporale. Poi le scarichi su una curva morta, che in realtà è verticale. Trac! Uno dei capi sull’anno prossimo e l’altro nel passato. Ma non si conosce la destinazione del singolo capo. E questo non è ancora il peggio. Il peggio è che non si può tornare.

— E chi vuole tornare?

— Senti, a cosa servirebbe una scoperta simile senza la possibilità di tornare indietro? Sia che tu vada nel passato, sia che tu vada nel futuro, sei uno spostato, il tuo denaro non ha valore, e non puoi metterti in contatto con le persone con le quali hai sempre vissuto. Non ci sono macchine per farti tornare, né energia… E di energia ce ne vuol moltissima, sai. Noi la ricavavamo dai reattori Arco. Immaginati il costo! C’è da tenere presente anche questo, non dimenticare.

— Si può tornare col Lungo Sonno — dissi.

— Cosa? Ah, certo, se si arriva nel passato! Ma se invece arrivi nel futuro? E se arrivi in un passato così lontano che il Lungo Sonno non è ancora conosciuto?

— Eppure sono convinto che qualcuno ha già avuto il coraggio di rischiare — dissi — tanto per il gusto di provare.

Chuck tornò a guardarsi intorno. — Ho già detto troppo — disse poi.

— Un po’ di più non farà male a nessuno, ormai.

— Ebbene, credo che tre persone ci si siano provate. Ho detto credo. Uno era un istruttore. Ero in laboratorio quando il professore ce lo accompagnò. Ricordo che si chiamava Leo Vincent. Twitchell mi disse di andarmene, e io obbedii, ma rimasi nei pressi del laboratorio. Qualche tempo dopo anche il professore uscì, ma di Vincent nessuna traccia. Per quello che ne so, è ancora là dentro, e quello che è certo è che a Boulder nessuno l’ha più rivisto.

— E gli altri due?

— Erano studenti. Anche in quell’occasione Twitchell solo uscì dal laboratorio, mentre uno degli studenti ricomparve a lezione il giorno dopo, e l’altro la settimana seguente. Cosa sia successo, puoi immaginare da solo.

— E tu, non hai mai avuto voglia di provare?

— Io? Ho la faccia dello scemo? Twitchell ha insinuato più d’una volta che sarebbe stato mio dovere nell’interesse della scienza, ma io ho fatto sempre finta di non capire.

— Io invece proverei volentieri. Così avrei modo di scoprire quello che mi angustia, e poi tornerei qui con il Lungo Sonno. Ne varrebbe la pena.

— Non devi più bere birra, caro mio — disse Chuck con un profondo sospiro. — Non hai capito niente. Non ti ho detto che anziché nel passato puoi finire nel futuro?

— Sono disposto a correre il rischio. Mi trovo meglio adesso che ai miei tempi, e fra trent’anni mi troverei forse ancora meglio.

— E allora fatti un secondo Sonno, e buonanotte. Oppure campa e aspetta. E poi, anche se finisci nel passato, può darsi che i calcoli riescano sbagliati e che tu ti ritrovi in un anno diverso dal millenovecentosettanta. Per quello che ne so io, Twitchell non aveva modo di stabilire le date. Terzo: quel laboratorio era situato in una pineta, e venne eretto nel novecentottanta. Risalendo al novecentosettanta tu potresti ritrovarti nell’interno di un grosso pino. Ti piacerebbe? E poi come faresti per il Lungo Sonno?

— Che domande! L’ho già provato una volta e tutto è andato benissimo.

— D’accordo, ma che cosa useresti come denaro?

Aprii la bocca, per richiuderla subito. Un tempo il denaro l’avevo, ma adesso non ne avevo più, salvo i piccoli risparmi fatti in quei mesi di lavoro, risparmi che sarebbero comunque stati inutili qualora li avessi portati con me, perché nel 1970 non era ancora in uso la moneta di plastica.

— Lavorerei, e risparmierei per pagarmi il Lungo Sonno — dissi.

— Già, e come potresti essere sicuro di fare in tempo? Ma c’è ancora l’ultimo punto, quello che taglia la testa al toro. Non puoi sottoporti all’esperimento, perché non te lo permetterebbero. Basta che tu ne parli, e l’FBI mi si mette subito alle calcagna. Io solo, infatti, da queste parti, sono al corrente degli esperimenti di Twitchell. Così adesso beviamoci un’altra birra, poi io, lunedì mattina, se non sarò in prigione, telefonerò al direttore tecnico della Aladino per sapere a che nomi corrispondono le iniziali del D. B. Davis che ha firmato quella famosa richiesta di brevetti. Quanto a te, dimenticati tutte queste sciocchezze del viaggio nel tempo… Io non ne ho mai parlato, ricordatelo bene, e se mai insisterai ti guarderò fisso negli occhi e ti dirò che sei il più gran bugiardo che abbia mai conosciuto.

Bevemmo un altro boccale di birra, e poi ci lasciammo per andare a dormire. Appena a casa, un doccia fresca mi rischiarò le idee, e dovetti convenire che Chuck aveva ragione. Tanto per cominciare era meglio che aspettassi l’esito delle sue ricerche presso gli archivi della Aladino. Così, messomi almeno temporaneamente il cuore in pace, mi arrampicai sul letto, e lessi il giornale, che in quella movimentata giornata di venerdì 4 maggio 2001 non avevo avuto ancora il tempo di guardare. Ma non c’era molto d’interessante, salvo che le ricerche dell’astronave per Marte continuavano ancora, febbrili quanto inutili. Lessi anche tutti gli annunci economici, i necrologi, le partecipazioni di nascita, rinascita e matrimonio, e finalmente spensi la luce e mi addormentai.


Alle tre di notte mi svegliai all’improvviso, e accesi la luce, perfettamente lucido. Avevo sognato, e più che un sogno era stato un incubo, che mi era sfuggita, sul giornale, la partecipazione di rinascita della piccola Ricky.

Il sogno era stato talmente vivido e realistico che, sebbene mi dessi del visionario, fui costretto a riprendere in mano il giornale per controllare e tranquillizzarmi. Nella colonna Rinascite uno degli annunci diceva: Ricovero Riverside: mercoledì 2 maggio 2001 F. V. Heinicke.

F. V. Heinicke!

Ricordai d’improvviso che Heinicke era il nome della nonna di Ricky, sì, ne ero certo! Non sapevo il perché di questa certezza, ma era come se d’improvviso mi si fosse aperto uno sportello nella memoria. Forse avevo udito quel nome da Miles o da Ricky, nel passato, e ora esso riaffiorava d’un tratto, solo che dovevo avere ancora la prova che fosse lei, che quelle iniziali F. V. stessero per Federica Virginia. Roso dall’impazienza e dall’eccitazione, scorsi febbrilmente l’elenco dei telefoni alla ricerca del numero del Ricovero Riverside.

— Pronto, Ricovero Riverside — disse una voce assonnata. — Siamo chiusi per la notte.

— Non riattaccate, per favore.

— Cosa volete, a quest’ora?

— Ho bisogno di notizie su una vostra cliente risvegliata il 2 scorso, si chiama Heinicke…

— Non diamo informazioni telefoniche sui nostri clienti, soprattutto in piena notte. Provate comunque a ritelefonare alle dieci, ma sarà meglio che veniate di persona.

— Verrò, non dubitate, ma intanto non potreste dirmi a quale nome corrispondono le iniziali di questa persona: F. V. Heinicke?

— Vi ho già detto…

— Volete ascoltarmi, per favore? So benissimo come funzionano i ricoveri, perché sono uscito anch’io da poco dal Lungo Sonno, a Satwell. So che non date informazioni sui clienti, ma in questo caso il nome è già stato pubblicato dai giornali, che per risparmiare spazio hanno pubblicato solo le iniziali dei prenomi. Quindi non credo che ci sia niente di male se me li dite per intero.

Dopo una breve esitazione, il mio interlocutore concesse: — E sia! Aspettate un momento. — Attesi col cuore che mi martellava, finché risentii la sua voce. — Ecco qua. Un momento perché c’è poca luce… Dunque… Francesca… no, Federica. Federica Virginia.

Mi sentii rombare le orecchie e per poco non svenni.

— Basta così?

— Sì, grazie, grazie dal profondo del cuore.

— Sentite, credo che non ci sia niente di male a dirvi un’altra cosa, così vi risparmierete un viaggio inutile. La signora in questione è già stata dimessa.

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