Mentre premeva il pulsante, avrei voluto gridargli di non farlo. Ma era troppo tardi: stavo già precipitando.
Il mio ultimo pensiero fu di terrore. Avevo tormentato a morte un povero vecchio che non mi aveva fatto niente di male… e non sapevo in che direzione sarei andato.
Peggio ancora, non sapevo se veramente sarei arrivato da qualche parte.
Poi il senso della caduta finì, con un tonfo. Ero realmente caduto, da un’altezza inferiore al metro credo, tuttavia, non essendoci preparato, ruzzolai come un sacco.
Poi, una voce disse: — Da dove diavolo venite?
Chi aveva parlato era un uomo sulla quarantina, quasi completamente calvo, ma robusto e ben costruito. Stava davanti a me, coi pugni sui fianchi e mi guardava con occhi intelligenti e penetranti che spiccavano nella faccia simpatica anche se momentaneamente accigliata.
Mi drizzai a sedere e vidi che mi trovavo su uno spiazzo cosparso di ghiaia e di aghi di pino. Accanto all’uomo c’era una donna, minore del compagno e molto graziosa, che mi guardava a bocca aperta.
— Dove sono? — chiesi stupidamente. Avrei fatto meglio a chiedere infatti: Quando sono? ma la domanda sarebbe sembrata ancora più pazzesca. Bastò un’occhiata per accertarmi che non potevo essere nel 1970, né nel 2001 perché in questi casi i succinti indumenti che quei due avevano addosso sarebbero stati limitati alla spiaggia. Dunque avevo sbagliato epoca.
Intanto l’uomo tornò a chiedermi: — Insomma, si può sapere da dove venite? — Alzò gli occhi e aggiunse: — Non vedo paracadute, fra i rami… e poi, cosa fate qui? Questa è una proprietà privata. E perché siete vestito in maschera?
Io non trovavo niente di strano nei miei vestiti, specie confrontandoli con i loro, ma tacqui. Altri tempi, altri costumi. La mia vita non sarebbe stata molto facile.
La donna posò una mano sul braccio del compagno e disse: — Calmati, John. Deve essersi fatto male.
L’uomo mi chiese se mi ero fatto male, e io, sebbene a fatica, riuscii a mettermi in piedi e dissi: — No, non mi pare. Solo qualche graffio, forse… Ma potreste dirmi che giorno è oggi?
— Eh? Sabato tre maggio.
— Scusatemi — mi affrettai ad aggiungere, vedendo il suo stupore. — Devo aver preso una botta in testa perché mi sento la mente confusa… Non mi ricordo più l’anno.
— Dovete aver preso una bella botta, amico. Siamo nel millenovecentosettanta.
Provai un sollievo indicibile.
— Grazie! Grazie infinite. — E poiché dalla sua espressione mi parve che avesse tutte le intenzioni di andare a chiamare un’ambulanza, aggiunsi in fretta: — Vado soggetto, qualche volta, ad amnesia.
— Capisco — rispose lentamente lui. — Credete comunque di essere in grado di rispondere ad alcune domande?
— Non lo tormentare, caro — gli disse la donna, forse sua moglie. — Ha l’aria di essere una persona per bene. Dev’essere capitato qui per sbaglio.
— Staremo a vedere. Dunque?
— Sì, adesso mi sento bene, ma prima avevo la testa molto confusa.
— Bene, ditemi allora come vi chiamate, in che modo siete arrivato qui, e perché andate in giro vestito a quel modo.
— Mi chiamo Danny, ma se devo esser sincero non so come sono arrivato qui, e sicuramente ignoro dove mi trovo. Gli attacchi d’amnesia mi colgono di sorpresa. Quanto al vestito… chiamatelo un’eccentricità personale. Ma anche voi, se è per quello, non scherzate.
— Oh, vi spiego subito. Io e mia moglie ci troviamo qui nella pineta del Circolo Elioterapico di Denver a fare la cura del sole, quindi non c’è da meravigliarsi se siamo così vestiti. Non è previsto l’improvviso ingresso di estranei.
John e Jenny appartenevano a quella categoria di persone cordiali e imperturbabili che non si scompongono davanti a niente. Certo la mia pietosa spiegazione non bastò a convincere John, che avrebbe voluto indagare a fondo, ma Jenny lo costrinse a non farlo. Io insistetti nella mia versione degli attacchi di amnesia e dissi che ricordavo solo di essere stato in una stanza del New Brown Palace di Denver, e poi nient’altro fino al momento in cui ero piombato davanti a loro. Visto che non riusciva a cavarmi altro, John disse: — Bene, molto interessante. Se riuscite a trovare qualcuno che vada a Boulder potete farvi portare fino là, per poi prendere l’autobus per Denver. Però — aggiunse, scrutandomi — se vi porto alla sede del Club, qualcuno si mostrerà sicuramente molto, ma molto curioso.
Tacqui, impacciato, finché non mi venne un’idea. — Sentite — dissi — se mi spogliassi anch’io, credete che susciterei meno curiosità?
— Credo di sì — disse lui.
— Caro — intervenne Jenny — potremmo presentarlo come nostro ospite.
— Uhm… Ma sì! Però bisognerà sapere qualche cosa di più sul suo conto. Ricordate almeno da dove venite?
— Sì, certamente — mi affrettai a rispondere. — Da Los Angeles di California — e mentalmente presi nota di essere cauto: non avrei certo migliorato la mia situazione se mi fossi lasciato sfuggire qualche descrizione della Los Angeles del 2001 invece che di quella del 1970.
— Basta così. Questo è il nostro amico Danny appena arrivato dalla California. Metterò il suo ridicolo vestito nella mia borsa da spiaggia, e così nessuno troverà niente da ridire.
Sistemate così le cose grazie al buonsenso di Jenny, ci avviammo verso la palazzina del Club. Io mi spogliai in una cabina, ed ebbi cura di nascondere il rotolo di filo d’oro sotto il fagotto degli abiti che infilai sotto il braccio. Mentre Jenny andava a rivestirsi nel reparto signore John mi prese da parte e disse: — Ora che siamo soli, non credete di avere qualche spiegazione da darmi?
— John — risposi dopo un momento di esitazione — l’ultima cosa al mondo che vorrei è darvi dei fastidi, credetemi…
— Dunque, dovrei attenermi alla versione amnesia?
Mi trovavo in una situazione insostenibile. John Sutton aveva il diritto di sapere, ma ero certo che non avrebbe creduto la verità, e se l’avesse creduta sarebbe stato ancora peggio, perché inevitabilmente si sarebbe fatta intorno alla mia persona un pubblicità che mi sarebbe riuscita molto dannosa.
— John, se ve lo dicessi non mi credereste — mi decisi finalmente a rispondere.
— Non lo metto in dubbio. Però resta il fatto stranissimo che, di punto in bianco, un uomo casca giù dal cielo proprio davanti a me, senza farsi male. Danny, ho letto parecchi libri di fantascienza ma la realtà è un’altra cosa. Eppure mi trovo davanti a una realtà inesplicabile.
— John, il vostro modo di esprimervi mi dà l’idea che siate avvocato o notaio.
— È vero.
— Ebbene, posso farvi una comunicazione sotto il suggello del segreto professionale?
— Uhm, vorreste diventare mio cliente?
— Sì, se accettate. È probabile che mi occorrano i vostri consigli.
— D’accordo, allora. Fuori il rospo.
— Bene. Vengo dal futuro. Viaggio nel tempo.
Lui rimase in silenzio per parecchi minuti.
— Avevate ragione — disse poi. — Non ci credo. Adesso, mi sembrano molto più plausibili gli attacchi di amnesia.
— Ve l’avevo detto che non mi avreste creduto!
— Diciamo che mi rifiuto di credervi — corresse lui con un sospiro. — Come mi rifiuto di credere nei fantasmi, nella reincarnazione, e in tutte queste diavolerie. Mi piacciono le cose semplici, che si possano capire. Così, come primo consiglio, vi suggerisco di non parlare a nessuno di questo particolare.
— È proprio quello che pensavo di fare.
— Inoltre, fareste bene a distruggere quei vestiti. Vi presterò io qualcosa. Ho qui al circolo una tuta. — Mentre parlava aveva preso in mano un lembo della mia giacca, e senza volerlo la sollevò di quel tanto che gli permise di vedere l’oro nascosto sotto.
— Ehi, che diavolo avete lì?
Ormai era troppo tardi e non mi restava che confidarmi con lui anche su quel particolare. — A voi cosa sembra? — chiesi.
— Oro.
— Infatti.
— Dove l’avete preso?
— L’ho comprato.
— Comperato… legalmente? — indagò lui.
— Vi giuro di sì. E ho intenzione di venderlo a mia volta alla Zecca di Denver, perché non ho denaro contante.
— Voglio credervi, Danny. Ma alla Zecca vi faranno delle domande. Eccovi dunque un altro consiglio: poiché ci sono ancora molti cercatori d’oro, nella zona, dite che si tratta del frutto di lunghi anni di ricerca, altrimenti rischiereste di passare momenti poco piacevoli.
I Sutton rimasero al Club fino al lunedì mattina, e io restai con loro. Avevano un villino nel parco, e gli amici che mi presentarono erano garbati e poco curiosi. John fece una scappata a casa per portarmi un paio di calzoncini e una maglietta, giacché non potevo far la cura del sole in tuta, e dormii su una brandina nello spogliatoio.
Il martedì, John mi accompagnò in città, dove affittai un appartamentino che arredai con tutti gli arnesi necessari al mio lavoro, e mi aiutò a convertire parte dell’oro in moneta sonante. Avevo il tempo misurato, e mi misi immediatamente al lavoro. Era una vera noia doversi servire della squadra a T, e del compasso, così per risparmiare tempo, prima di aggiornare il Servizievole Sergio, progettai Dino Disegnatore. Cambiai naturalmente nome a Sergio, che divenne il Proteiforme Pete, automa tutto fare, con la testa farcita di tubi Thorsen. Sapevo che con gli anni, il Proteiforme Pete si sarebbe ancora perfezionato e i suoi discendenti si sarebbero evoluti in un’orda di congegni specializzati, ma ora come ora dovevo farlo così.
Il lavoro procedeva svelto, perché conoscevo già progetti e disegni, ma non possedendo strumenti né un’officina attrezzata, la realizzazione pratica dei progetti andava forzatamente a rilento. Lavoravo sette giorni alla settimana, dalla mattina alla sera, senza un attimo di riposo, e mi concessi solo un occasionale week-end con John e Jenny al Club. Il primo settembre avevo pronti progetti, disegni e prototipi dei due congegni. Se il lavoro mi stancava aveva però il merito di impedirmi di uscire spesso, perché farmi vedere in giro poteva costituire un pericolo non indifferente, come accadde un giorno quando incontrai al bar il professor Twitchell, e dovetti faticare non poco per evitare di cadere in qualche pericoloso tranello, o quell’altra, quando, essendomi buscato un forte mal di denti, andai da un dentista. Avevo appena aperto la bocca per mostrargli il dente malato, che già mi pentivo della mia imprudenza. M’ero dimenticato di essermi fatto curare due denti… nel 2001!
Il medico era rimasto infatti a bocca aperta anche lui, al vederli, e appena ebbe ritrovato la voce, mormorò:
— Per la barba di Matusalemme! Chi vi ha curato quei denti?
— Co-e di-e?
Lui mi tolse la mano dalla bocca. — Come dite? — ripetei. — Chi mi ha fatto questo lavoretto? Ah, si tratta… di un lavoro sperimentale d’un medico… d’un medico indiano mio amico.
— Sapete che procedimento segue?
— No, non m’intendo di odontotecnica.
— Un momento… permettete che fotografi questo magnifico lavoro — e s’avviò verso gli apparecchi a raggi X.
— No, vi prego, dottore. Limitatevi a otturarmi questa maledetta carie.
Il dentista esitò, poi per fortuna rinunciò all’idea.
Per il resto, non ebbi fastidi, tanto più che nel 1970 io avevo abitato a Los Angeles e non a Denver e dintorni, quindi per il momento ero abbastanza tranquillo. Mentre sudavo sedici ore al giorno sui miei modelli, incaricai un’agenzia specializzata di indagare sul passato di Belle, e i risultati delle indagini furono tali per cui non mi pentii del denaro speso.
Belle non aveva perso tempo. Nata sei anni prima di quanto non tenesse a dichiarare, a diciotto risultava già sposata due volte. Uno dei due matrimoni però non era stato valido, in quanto il marito aveva già moglie. Quanto al secondo marito l’agenzia non era riuscita a scoprire se Belle aveva divorziato anche da quello. Comunque, in seguito aveva contratto altri quattro matrimoni, sebbene uno fosse dubbio. Con tutta probabilità giocava sul trucco della vedova di guerra chiamando come garante un uomo che non poteva rispondere perché morto. Aveva poi divorziato una volta, d’accordo col marito, e un altro marito era defunto. Non era improbabile che fosse tuttora sposata con gli altri. Anche la sua fedina penale era lunga, varia, interessante, ma era sempre riuscita a cavarsela con semplici multe, salvo una condanna a pochi mesi per truffa, nel Nebraska. Da quel momento c’erano delle lacune che l’agenzia non era riuscita a colmare, fino al giorno in cui era stata assunta da Miles e da me. La direzione dell’agenzia mi chiese se doveva fare ulteriori indagini, ma a me bastava così. Ne avevo saputo abbastanza, e inoltre avevo pensato che il mio giochetto poteva risultare pericoloso per me, rischiando di cambiare troppe cose qualora, a causa del mio intervento, si fosse rivolta su Belle l’attenzione di persone o di autorità con cui la donna aveva dei conti da saldare.
Nonostante che continuassi a lavorare come un dannato, ottobre mi piombò addosso senza che me ne accorgessi. Non avevo ancora fatto metà dei disegni da inviare insieme alla richiesta dei brevetti, né avevo pensato a organizzarmi per diffondere, e in un secondo tempo vendere, le mie invenzioni. Tutto questo per colpa della mancanza di tempo, tanto che cominciavo già a pentirmi di non aver chiesto al professor Twitchell di fare uno spostamento di trentadue anni invece che di trentuno. Avevo sottovalutato il tempo che mi sarebbe occorso, e sopravvalutato invece le mie capacità.
Non avevo mostrato le mie invenzioni ai Sutton non perché volessi tenerle nascoste ma perché preferivo evitare un mucchio di chiacchiere e di consigli inutili finché non fossero complete. L’ultima domenica di settembre i miei nuovi amici mi invitarono ad andare al Circolo Elioterapico con loro.
Poiché ero in ritardo sul programma di lavoro ero stato costretto a lavorare fino a tarda notte, e m’ero svegliato il mattino presto al torturante fragore d’una sveglia in modo da essere pronto per quando sarebbero venuti a prendermi. Fermai quello strumento di tortura ringraziando il cielo perché nel 2001 non ci sarebbero state più nefandezze simili, e corsi, ancora mezzo addormentato, al bar all’angolo per telefonare a John con l’intenzione di esimermi dall’impegno.
Fu Jenny a rispondermi. — Lavorate troppo, Danny. Un paio di giorni in campagna vi faranno bene.
— Non posso proprio — insistetti. — Devo lavorare. Mi dispiace.
John si inserì con l’altro ricevitore e disse: — Che sciocchezze state dicendo?
— Devo lavorare, John — ripetei. — Ne farei volentieri a meno, ma proprio non posso.
Tornai di sopra, infilai due fette di pane nel tostino, vulcanizzai qualche uovo, e mi rimisi al lavoro. Un’ora dopo bussarono alla porta.
Se io non andai al Circolo, quella domenica, non ci andarono nemmeno i Sutton, perché rimasero da me, e io mostrai loro i miei apparecchi. Jenny ammirò molto Dino Disegnatore anche se non poté apprezzarne le doti perché bisognava essere un disegnatore o un architetto per farlo, ma quello che la lasciò letteralmente a bocca aperta fu il Proteiforme Pete.
Aveva una Domestica Perfetta per i lavori di casa, e poteva quindi apprezzare il progresso che Pete costituiva nei suoi confronti.
John invece afferrò subito l’importanza di Dino Disegnatore, e quando gli feci vedere come avrei potuto fare la mia firma, con la mia scrittura, spingendo un paio di bottoni, le sue sopracciglia s’inarcarono e lui disse: — Meraviglioso! Ma così verranno licenziati migliaia di disegnatori.
— No, di anno in anno in questo paese si lamenta la scarsità di buoni tecnici. Questa macchina servirà a colmare la lacuna. Fra una trentina d’anni tutti gli studi di architetti e d’ingegneri saranno dotati di una macchina come questa. Non potranno farne a meno, vedrete, come la meccanica moderna non potrebbe fare a meno degli utensili elettrici.
— Parlate come se aveste la certezza di quello che dite.
— Infatti è così.
Guardò il Proteiforme Pete che stava in quel momento facendo ordine sul mio banco di lavoro, poi tornò a guardare Dino Disegnatore, e infine disse: — Sapete, Danny… qualche volta penso che quello che mi avete detto il giorno in cui ci siamo conosciuti doveva essere vero.
Mi strinsi nelle spalle. — Chiamatela seconda vista, invece, se volete… comunque io sono sicuro di quello che dico.
— D’accordo, ma che cosa intendete fare, per il momento, delle vostre invenzioni?
— Questo è il punto dolente, John — ammisi, aggrottando la fronte. — Sono un bravo ingegnere, e oserei dire un ottimo meccanico, ma come uomo d’affari non valgo niente. Vi siete mai occupato di brevetti, voi?
— No, ci vuole un legale specializzato.
— Ne conoscete uno onesto? Onesto e intelligente, anzi? Mi occorre subito. Devo fondare una società, chiedere dei brevetti, e trovare dei finanziatori… e ho pochissimo tempo disponibile.
— Perché?
— Perché devo tornare da dove sono venuto.
Lui si sedette e tacque a lungo. Finalmente disse:
— Di quanto tempo disponete?
— Nove settimane. Per essere precisi, nove settimane da giovedì prossimo.
Lui guardò le due macchine, poi tornò a guardare me. — Temo che dovrete rivedere i vostri programmi. Basteranno sì e no nove mesi. Avete appena i prototipi, e dovete cominciare dal principio.
— Lo so, John, ma non posso fare diversamente.
— Lo dite voi.
— No, non dipende da me. — Mi nascosi la faccia tra le mani, morto di stanchezza e preoccupato. — Volete occuparvi voi di tutto? — gli chiesi poi, rialzando la testa.
— Cosa?
— Occuparvi di tutto. Io non mi intendo affatto di questioni legali e commerciali.
— Danny, vi rendete conto di quello che mi state chiedendo? Fra l’altro potrei imbrogliarvi senza che ve ne rendeste conto, lo sapete? Le vostre invenzioni sono destinate a diventare una miniera d’oro.
— Lo so — risposi.
— E allora perché fidarvi ciecamente di me? Prendetemi per avvocato, invece, così potrò consigliarvi e tenere gli occhi aperti per voi, dietro compenso.
Cercai di pensare, con la testa che mi doleva. Avevo avuto un socio una volta… ma, accidenti, anche se ci si è già scottati le dita, non si può fare a meno di aver fiducia nel prossimo, altrimenti si dovrebbe vivere in una grotta come gli eremiti, dormendo con un occhio solo. Non c’era modo di essere sicuri di niente. La vita stessa era un susseguirsi continuo di pericoli e di tranelli.
— John — dissi — voi avete avuto fiducia in me, fin dal principio. Vi prego, aiutatemi. Ho assoluto bisogno di voi.
— Certo che vi aiuterà — intervenne Jenny, con la gentilezza che le era abituale.
Così diedi la procura a John perché si occupasse di tutta la parte commerciale della faccenda, e lui si consultò a sua volta con uno specialista in brevetti al fine di essere più sicuro. Non so se lo pagasse in moneta contante o se dividesse con lui parte della torta, perché non me ne interessai. Non davo più molta importanza al denaro: e poi, o John era quale speravo, o avrei fatto meglio trovare la famosa grotta.
Insistetti solo su due punti. — John — dissi — dobbiamo chiamare la ditta: Società Aladino per la Fabbricazione di Apparecchiature Automatiche.
— A me pare un nome un po’ lungo e strampalato. Perché non facciamo Davis Sutton? Suona più serio.
— Mi spiace, ma deve essere così, John.
— Davvero? Ve l’ha detto la vostra seconda vista?
— Può darsi. Marchio di fabbrica sarà una raffigurazione di Aladino intento a strofinare la lampada da cui esce il genio. Farò io lo schizzo. E un’altra cosa. La sede della Ditta sarà a Los Angeles.
— Cosa? Ma no, troppo lontano. Io abito a Denver. Perché non restare qui? C’è qualcosa in contrario?
— Niente. Anzi, Denver mi piace e mi ci trovo benissimo. Ma non è una città adatta a installarci una fabbrica. Le materie prime mancano, il personale adatto è scarso, mentre Los Angeles è molto più attrezzata.
— E lo smog?
— Fra pochi anni lo smog non ci sarà più. Troveranno il modo di evitarne la formazione, ve l’assicuro.
— Danny, voi avrete i vostri buoni motivi per insistere, ma anch’io ho i miei. Inoltre — e si rivolse a sua moglie, intenta a sferruzzare lì accanto — noi abbiamo sempre vissuto qui. Jenny è abituata all’aria fine e fresca di Denver, come volete che possa trasferirsi in California?
— Oh, io ne sarei felice! — esclamò inaspettatamente Jenny.
— Cosa? — disse John sbalordito.
— Sì, caro. Proprio l’altro giorno, vedendo una crosta di ghiaccio sulla piscina del Circolo, pensavo come sarebbe bello vivere in un paese dove fa caldo tutto l’anno.
Non ebbi bisogno d’insistere oltre per convincere John.
Mi fermai a Denver fino alla sera del 2 dicembre 1970, e dovetti farmi prestare tremila dollari da John perché ero rimasto all’asciutto. Ma per rassicurargli la restituzione, volli fissare un’ipoteca sul mio pacchetto azionario. Quando gliela portai, l’ultima sera, lui la fece a pezzetti che gettò nel cestino dei rifiuti. — Me li restituirete la prossima volta che ci vedremo.
— Cioè fra trent’anni.
— Non prima?
Tacqui pensoso. John non mi aveva mai chiesto di raccontargli per filo e per segno la mia storia da quando, il giorno del mio arrivo, aveva dichiarato che gli era impossibile credere al poco che gli avevo rivelato.
Finalmente mi decisi, e gli dissi che gli avrei raccontato tutto sul mio conto.
— Dobbiamo svegliare Jenny? — aggiunsi. — Anche lei ha il diritto di sapere.
— No, lasciamola dormire finché verrà il momento della vostra partenza. Jenny è un animo semplice. Dan. Non le importa chi siete e da dove venite, basta che le siate simpatico. Se lo riterrò opportuno, le parlerò io in un secondo tempo.
— Come volete.
Mi lasciò parlare senza interrompermi altro che per versarmi da bere, solo birra di zenzero: avevo i miei buoni motivi per non toccare un goccio d’alcol, e quando ebbi finito, lui disse: — Vi saprò dire il mio parere quando avrò constatato con i miei occhi i mutamenti che mi avete descritto riguardo agli anni a venire. Per il momento continuo a considerarvi il più simpatico matto piovuto dal cielo che io abbia mai conosciuto.
— Siete libero di pensare come meglio vi pare.
— Sono costretto a giudicarvi così, altrimenti divento matto io… e per Jenny non sarebbe piacevole. — Guardò l’ora, e aggiunse: — Sarà meglio svegliarla. Mi mangerebbe vivo se vi lasciassi partire senza averla salutata.
— Non mi sarei mai sognato di fare una cosa simile.
Mi accompagnarono in macchina all’aeroporto internazionale di Denver, e Jenny mi abbracciò a lungo, commossa, congedandosi da me al cancello. Alle undici, partii con l’aereo diretto a Los Angeles.