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Jeserac non era molto disponibile, anche se non oppose le resistenze che Alvin si aspettava. Nella sua lunga carriera di tutore si era sentito porre altre volte domande del genere, ed era convinto che nemmeno un Unico come Alvin potesse sottoporgli problemi impossibili da risolvere.

Certo Alvin si comportava in modo alquanto singolare. Non prendeva parte come avrebbe dovuto alla complicatissima vita sociale della città, né alle fantasie dei compagni. Non prendeva neanche interesse alle attività superiori del pensiero, ma forse per questo era ancora troppo immaturo.

Piuttosto preoccupante poi era la sua instabilità sentimentale. D’accordo che per formare un legame stabile bisognava almeno aver compiuto il secolo, ma Alvin era famoso per la sua incostanza. I suoi amori erano intensi, finché duravano… ma nessuno aveva resistito per più di una settimana.

A quanto pareva, Alvin poteva interessarsi a fondo solo a una cosa per volta. Talora si perdeva con tutto se stesso nei giochi erotici delle compagne, oppure scompariva per diversi giorni con la ragazza che aveva scelto. Ma passato quel particolare stato d’animo, trascorreva lunghi periodi di totale disinteresse per quella che alla sua età avrebbe dovuto essere l’occupazione preferita. Probabilmente non era un bene per lui, e di certo non era un bene per le amanti che lasciava: diventavano tutte di pessimo umore, e passava molto tempo prima che riuscissero a consolarsi con qualcun altro. Alystra, Jeserac se n’era accorto, stava appunto sperimentando quella triste fase.

Non che Alvin fosse senza cuore, o mancasse di serietà. In amore, come in tutto il resto, pareva in cerca di qualcosa che Diaspar non poteva offrigli.

Ma Jeserac non si lasciava impressionare da queste bizzarrie. Un Unico doveva per forza avere un temperamento un po’ difficile, e a tempo opportuno Alvin si sarebbe uniformato allo schema generale della città. Nessun individuo singolo, per quanto brillante, poteva tener testa all’inerzia di una società che era rimasta immutata da più di un miliardo di anni. Jeserac credeva nella stabilità, anzi non riusciva a concepire nient’altro.

«Il problema che ti tormenta è antichissimo» disse ad Alvin. «Ma difficilmente accade che qualcuno ci pensi o se ne preoccupi. Un tempo la specie umana occupava uno spazio infinitamente più grande di questa città.

Tu hai visto qualcosa di quel che era la Terra prima della sparizione degli oceani e la comparsa del deserto. Le registrazioni che tanto ami proiettare sono le più vecchie che possediamo, le uniche che mostrino come sia stata la Terra prima dell’arrivo degli Invasori. Non penso che molti le abbiano viste. Quegli spazi aperti e senza limite sono uno spettacolo che pochi hanno il coraggio di contemplare. La Terra, poi, era solo un granello di sabbia nell’Impero Galattico. Nessuna mente sana oserebbe immaginare come dovessero essere quegli spazi tra le varie stelle. I nostri progenitori li attraversarono all’alba della storia quando si accinsero a costruire l’Impero.

Poi li riattraversarono per l’ultima volta quando gli Invasori li ricacciarono sulla Terra.

«La leggenda dice che gli uomini fecero un patto con gli Invasori. Loro si sarebbero tenuti l’universo, noi ci saremmo accontentati del mondo su cui eravamo nati. Abbiamo mantenuto il patto e dimenticato gli inutili sogni della nostra infanzia, come accadrà anche a te, Alvin. Gli uomini che costruirono questa città, e concepirono la società che l’avrebbe occupata, erano signori dello spirito oltre che della materia. Misero entro queste mura ciò che la specie umana avrebbe potuto desiderare, e si assicurarono che noi non avremmo mai pensato a lasciarle.

«Le barriere materiali non contano, naturalmente. Forse esistono strade che portano fuori della città, ma sono certo che se anche tu ne trovassi una non avresti il coraggio di allontanarti troppo. Ma anche ammesso che ci riuscissi, quale sarebbe lo scopo? Il tuo corpo non durerebbe a lungo nel deserto, quando la città non potesse più proteggerlo e nutrirlo.»

«Ammettiamo che ci sia il modo di uscire dalla città» rispose Alvin, pensoso. «Cosa potrebbe impedirmi di lasciarla?»

«Questa è una domanda sciocca. Conosci già la risposta.»

Jeserac aveva ragione, ma non nel senso che immaginava. Alvin sapeva, o meglio aveva sospettato la risposta. Gliel’avevano data i compagni, sia nella vita reale che durante le saghe che avevano vissuto con lui. Loro non avrebbero mai trovato il coraggio di lasciare Diaspar; Jeserac, però, non sapeva che questo istinto che regolava la loro vita non aveva alcun potere su Alvin. Questa differenza era uno degli effetti della sua Unicità. Alvin si chiedeva quanti altri ne avrebbero scoperti in seguito.

Nessuno aveva mai fretta a Diaspar, e perfino Alvin rispettava questa regola. Per parecchie settimane considerò attentamente il problema, dedicando parecchio tempo all’esame dei documenti storici della città. Per ore intere restava disteso, sorretto dalle impalpabili braccia dell’antigravità, sotto gli effetti del proiettore ipnotico che gli apriva la mente al passato. Al termine della proiezione la macchina spariva, ma Alvin continuava a restare disteso con gli occhi fissi nel vuoto, per passare lentamente attraverso gli eoni, e giungere nuovamente alla realtà. Vedeva le ampie distese di acqua azzurra, molto più vaste della terra stessa, che spingevano le onde verso spiagge dorate. Le sue orecchie sentivano il boato delle onde che erano rimaste in silenzio per milioni di anni. E ricordava le foreste, e le praterie, e gli strani animali che una volta popolavano la Terra insieme con l’uomo.

Le proiezioni da usare allo scopo non erano molte; era generalmente accettato il fatto che, nel periodo tra la venuta degli Invasori e la fondazione di Diaspar, tutti i ricordi delle ore primitive fossero andati perduti. La distruzione era stata così completa da far sospettare che non fosse avvenuta per puro incidente. L’umanità aveva smarrito il suo passato, a eccezione di poche cronache che sembravano avvicinarsi più alla leggenda che alla storia. Prima di Diaspar esisteva solo la Preistoria. In essa si confondevano inestricabilmente i primi uomini che avevano scoperto il fuoco e quelli che avevano scoperto l’energia atomica, i primi navigatori e i piloti spaziali.

Erano uniti gli uni agli altri, al confine di quel deserto di tempo.

Alvin avrebbe preferito fare i suoi esperimenti da solo, ma a Diaspar non sempre era possibile starsene in pace. Aveva appena lasciato la sua stanza quando incontrò Alystra che veniva a trovarlo.

Alystra era bella, ma Alvin, che non aveva mai visto la bruttezza umana, non se ne accorgeva nemmeno. Quando è universale, la bellezza perde tutto il suo potere. Soltanto quando manca può suscitare delle emozioni. Per un attimo restò seccato per quell’incontro. Era troppo giovane per sentire il bisogno di una relazione duratura e d’altra parte la barriera della sua unicità si frapponeva tra lui e la sua compagna. Alvin, nonostante l’aspetto, era ancora un ragazzo e lo sarebbe stato ancora per molti decenni, mentre Alystra e tutte le altre coetanee avevano già cominciato a trasformarsi in un complesso di ricordi e di esperienze che trascendevano la sua comprensione. Era un fatto che aveva già visto accadere, e questo lo rendeva cauto nel concedersi totalmente a una qualsiasi altra persona. Anche Alystra, che ora sembrava tanto ingenua e spontanea, sarebbe presto diventata un complesso di ricordi e di capacità da sbalordire.

Il leggero senso di irritazione si dissipò quasi subito. Non c’era ragione di impedire che Alystra venisse da lui, se lo desiderava. Non era egoista, e non voleva rinchiudere tutte le nuove esperienze dentro di sé, come un avaro. In fondo, poteva benissimo imparare qualcosa dalle reazioni di lei.

La ragazza, contrariamente al solito, non fece domande mentre la strada mobile li portava verso la periferia. Si spostarono sulla parte centrale della strada, quella ad alta velocità, senza mai preoccuparsi di osservare il miracolo che si stava srotolando sotto i loro piedi. Uno scienziato del vecchio mondo sarebbe impazzito nel tentativo di comprendere come una strada, apparentemente fissa ai lati, potesse muoversi con sempre maggiore velocità verso il centro. Ma per Alvin e Alystra era assolutamente normale che esistesse una materia capace di avere le proprietà dei solidi in una direzione, e le proprietà dei liquidi in un’altra. Attorno a loro gli edifici si elevavano sempre più alti, quasi la città volesse rinforzare i suoi baluardi contro il mondo esterno. Che strano sarebbe stato, pensò Alvin, se quelle pareti fossero diventate trasparenti come il vetro, rivelando la vita che si svolgeva al loro riparo. Sparpagliati attorno a lui vivevano gli amici che conosceva, coloro che gli sarebbero diventati amici in futuro, e sconosciuti che lui non avrebbe mai incontrato… anche se questa era una probabilità molto remota, dato che nel corso della sua lunga vita avrebbe finito col conoscere quasi tutti gli abitanti di Diaspar. Molti forse si trovavano nelle loro stanze, ma con tutta probabilità non erano soli. A Diaspar bastava formare il desiderio per trovarsi in compagnia della persona scelta, anche se non fisicamente. Nessuno poteva annoiarsi, perché tutti avevano accesso a tutto quanto era accaduto, sia nell’immaginazione che nella realtà, dai giorni in cui Diaspar era stata fondata. Per uomini dalle menti formate in quel modo, l’esistenza era del tutto soddisfacente. Ed era anche completamente futile, anche se Alvin non lo comprendeva ancora.

A mano a mano che Alvin e Alystra si avvicinavano alla periferia della città, le strade si facevano sempre più deserte. Non si vedeva anima viva quando Alvin e Alystra si fermarono presso una lunga piattaforma di marmo colorato. Di fronte a loro si ergeva una parete interrotta a intervalli da gallerie illuminate. Alvin ne scelse una senza esitare e vi si incamminò.

Alystra gli andò dietro. Immediatamente il campo peristaltico li afferrò spingendoli in avanti. Comodamente sdraiati, si lasciarono trasportare godendosi la vista del panorama.

Non sembrava di essere in una galleria sotterranea. Una illusione ottica perfetta dava l’impressione di essere sotto la volta del cielo. Tutt’attorno si contemplava una ricostruzione della Diaspar antica, quasi identica all’attuale, ma con alcune differenze che aumentavano l’interesse della scena. Alvin avrebbe desiderato rallentare il viaggio, ma non aveva mai scoperto il modo per farlo.

Poco dopo vennero posati gentilmente in una larga sala ellittica, tutta circondata da finestre, dalle quali si scorgeva una visione meravigliosa di giardini dai fiori sgargianti. Lo scenario era naturalmente frutto della fantasia di un artista. Nel mondo dei loro giorni non esistevano fiori come quelli.

Alystra era incantata da tanta bellezza ed era convinta che Alvin l’avesse portata lì a vedere quello spettacolo. Alvin la osservava correre da una finestra all’altra, e sorrideva alla gioia di lei davanti a ogni nuova scoperta.

C’erano centinaia di posti simili alla periferia di Diaspar, mantenuti in perfetta efficienza dalle forze misteriose che vegliavano sulla città. Un giorno, forse, il flusso della vita avrebbe riscoperto quel percorso, ma per il momento quei vecchi giardini erano un segreto di loro esclusiva proprietà.

«Proseguiamo» disse infine Alvin. «Qui siamo solo al principio.» Uscì da una delle finestre e l’illusione scomparve. Non c’era un giardino dietro i vetri, ma un passaggio circolare che saliva ripido verso l’alto. Alystra, senza esitare, lo raggiunse nel passaggio. L’impiantito cominciò a sfuggire lentamente in avanti, quasi per aiutarli a raggiungere la loro meta. I due mossero alcuni passi, finché la loro velocità divenne così alta che sarebbe stato inutile sprecare ulteriori sforzi.

Il corridoio si fece sempre più ripido, fino a essere quasi perpendicolare.


Il fatto di avanzare a forte velocità su una superficie verticale fino a migliaia di metri di altezza non dava ai due giovani alcun senso di vertigine o di paura, dato che un errore del campo di polarizzazione era inammissibile.

L’impiantito cominciò ad abbassarsi lentamente, sino a divenire orizzontale. Il movimento divenne più lento, e cessò completamente all’estremità di una lunga sala tutta tappezzata di specchi. Non era necessario presentare il luogo ad Alystra. Non tanto per le caratteristiche sopravvissute immutate dai lontani tempi di Eva, quanto perché nessuno avrebbe saputo resistere al fascino che emanava. Quello era forse il luogo più affascinante di tutta Diaspar. Un capriccio dell’artista che l’aveva ideato faceva sì che gli specchi riflettessero scenari fantastici e in continuo movimento. Era sconcertante vedere la propria immagine muoversi tra simili scenari. A volte passavano anche altri esseri umani. Alvin vi aveva scorto facce sconosciute, ma ben presto si era reso conto che non si trattava di persone incontrate in questa vita, bensì delle loro precedenti incarnazioni. Poteva vedere il passato attraverso la mente dell’artista. Lo rattristava il pensiero che, per quanto si fosse fermato a contemplare quelle scene, a causa della sua unicità non si sarebbe mai imbattuto in un’antica eco di se stesso.

«Sai dove siamo?» chiese ad Alystra, quando ebbe finito il giro tra gli specchi.

Lei scosse la testa. «In un luogo proprio al limite della città, immagino»

rispose noncurante. «Abbiamo percorso parecchia strada, ma non saprei dire quanta.»

«Siamo nella Torre di Lorrane» ribatté Alvin. «È uno dei punti più alti di Diaspar. Vieni, voglio mostrarti qualcosa.» Prese la compagna per mano e la trascinò fuori dalla sala. Non c’erano uscite visibili, ma in certi punti il diverso disegno del pavimento indicava i corridoi laterali. Come ci si avvicinava, gli specchi sembravano fondersi in un arco di luce, e si poteva comodamente entrare nel passaggio. Alystra perse il conto dei giri che fecero. Alla fine arrivarono a una galleria perfettamente diritta, dove soffiava un vento forte e freddo. La galleria si stendeva orizzontalmente per un centinaio di metri, e alle due estremità si scorgevano due cerchi di luce.

«Non mi piace questo posto» protestò Alystra. «Fa freddo.» Probabilmente, in tutta la sua vita, Alystra non aveva mai provato il freddo intenso, e Alvin si sentì colpevole. Avrebbe dovuto consigliarle di prendere un mantello pesante, dato che gli abiti, a Diaspar, erano puramente ornamentali e non offrivano alcuna protezione contro gii sbalzi di temperatura, che in città non esistevano.


Alvin, senza fare commenti, le tese il suo mantello. Non si trattava di un gesto cavalleresco, perché l’uguaglianza tra i sessi aveva da lungo tempo abolito queste convenzioni, ma solo di un atto di responsabilità per non averla avvertita di mettersi un equipaggiamento adatto. Se fosse avvenuto l’opposto, sarebbe stata Alystra a dargli il suo mantello, e lui l’avrebbe accettato senza il minimo commento.

Non era spiacevole camminare con il vento alle spalle, e presto raggiunsero l’estremità della galleria. Una grata di pietra impediva di avanzare oltre. Tanto meglio così, perché si trovavano sull’orlo del nulla. Il grande condotto d’aria si apriva sulla ripida parete esterna della torre, e sotto di loro c’era uno strapiombo verticale di almeno trecento metri. Erano in alto sui bastioni più esterni della città; Diaspar si stendeva sotto di loro, uno spettacolo che pochi abitanti del mondo avevano visto.

Da quella posizione potevano vedere gli anelli concentrici di pietra e di metallo che scendevano per chilometri verso il cuore della città. Lontano, parzialmente nascosti dalle torri, si vedevano i campi con gli alberi e il fiume. Sullo sfondo i più remoti bastioni della città si alzavano verso il cielo. Alystra non era particolarmente entusiasta. Aveva già visto quel panorama altre volte, da punti altrettanto aperti ma molto più comodi.

«Quello è il nostro mondo… Tutto» osservò Alvin. «Ora voglio mostrarti qualcos’altro.» Voltò le spalle alla grata e s’incamminò verso il cerchio di luce che illuminava l’estremità opposta del corridoio. Il vento penetrava gelido sotto l’abito sottile, ma il giovane non se ne accorgeva nemmeno.

Fatti pochi passi, si rese conto che Alystra non lo seguiva. Era rimasta immobile, con le mani al viso, il mantello che sbatteva al vento. Vide che muoveva le labbra, ma il suono delle parole non lo raggiunse. Alvin la guardò dapprima meravigliato, poi con impazienza e compatimento. Jeserac aveva detto la verità: lei non poteva seguirlo; aveva capito dove s’affacciava quell’altra apertura. Alle spalle c’era il mondo conosciuto, pieno di meraviglie ma privo di sorprese, vivido come una brillante bolla incatenata al fiume del tempo. Laggiù, a solo un centinaio di metri, c’era il deserto, il mondo spaventoso, il mondo degli Invasori.

Alvin le si accostò, e notò, sorpreso, che la ragazza tremava. «Di che cos’hai paura?» le chiese. «Qui siamo a Diaspar. Hai guardato da quell’apertura, non c’è niente di pericoloso se ti affacci anche dall’altra.»

Alystra continuava a fissarlo come se fosse stato uno strano mostro. E, in base al suo metro, lui lo era veramente.

«Non posso. Il solo pensiero mi fa rabbrividire più di questo vento. Non proseguire, Alvin!»

«Ma è illogico! Cosa vuoi che ti succeda se arrivi alla fine di questo corridoio e guardi fuori? Vedrai un posto strano e solitario, ma niente di orribile. Anzi, ogni volta che lo guardo lo trovo sempre più bello…»

Alystra non lo lasciò terminare. Si voltò di scatto e fuggì giù per la lunga rampa tortuosa che li aveva condotti là in cima. Alvin non tentò nemmeno di fermarla. Imporre la propria volontà era cosa mal fatta; usare la persuasione, inutile. Sapeva che non si sarebbe fermata finché non avesse ritrovato i suoi compagni. Non c’era pericolo che si perdesse nei labirinti della città, dato che le sarebbe stato facile ripercorrere il cammino fatto nel venire. Trovare il cammino anche nel più complesso groviglio era una qualità che l’uomo aveva acquisito da quando aveva cominciato a vivere nelle città. I topi, ormai da lungo estinti, erano stati costretti a imparare la stessa cosa quando avevano dovuto abbandonare i campi per vivere accanto all’uomo.

Alvin aspettò un attimo, quasi nella speranza che Alystra tornasse. Non era rimasto sorpreso per la reazione della ragazza; ciò che lo aveva stupito erano state la violenza e l’irrazionalità del suo gesto. Gli spiaceva che l’amica se ne fosse andata, ma non poté fare a meno di pensare che avrebbe potuto almeno restituirgli il mantello.

Non solo faceva freddo, ma era faticoso avanzare contro il vento che fischiava attraverso i polmoni della città. Alvin combatté sia contro la corrente d’aria sia contro la forza che la manteneva in movimento. Alla fine raggiunse la grata opposta, e si appoggiò per riposare. C’era appena lo spazio per infilare la testa in una delle aperture.

Tuttavia poteva vedere abbastanza. Parecchie migliaia di metri al di sotto si stendeva il deserto. Il sole era al tramonto, e i raggi quasi orizzontali battevano contro la grata di pietra riempiendo d’oro e di ombre l’inizio della galleria. Alvin batté le palpebre, abbagliato, e sbirciò la terra su cui nessuno aveva più camminato da ere antichissime.

Era come se stesse guardando un oceano eternamente ghiacciato. Per chilometri e chilometri le dune si stendevano verso ovest, i contorni ingigantiti dalla luce radente. Qua e là il vento scavava buche e creava vortici, e a volte era difficile convincersi che quelle sculture non erano opera di una intelligenza umana. Molto lontano, tanto da non poter giudicare la distanza, sfumavano i contorni di una fila di basse colline. Quelle colline erano state una delusione per Alvin, che avrebbe dato qualsiasi cosa pur di poter vedere le aspre montagne contemplate solo in proiezione e nei propri sogni.

Il sole era ormai sospeso sull’orlo delle colline, con i raggi indeboliti e fatti rossi dallo spessore dell’atmosfera. Sul disco si vedevano due grosse macchie nere; Alvin ne aveva appreso l’esistenza attraverso i suoi studi, ma non aveva sperato di poterle distinguere così facilmente. Sembravano due occhi che lo osservavano spiare attraverso la finestra colpita incessantemente dal vento.

Non ci fu crepuscolo. Appena scomparso il sole, le macchie d’ombra che affioravano da dietro le dune si allargarono, seppellendo la pianura in un unico lago buio. I colori scomparvero. Il rosso e l’oro svanirono a poco a poco nel cielo, lasciandovi un azzurro che si fece sempre più cupo, finché fu notte. Alvin aspettava quel miracoloso momento in cui avrebbero cominciato a tremolare le prime stelle.

Erano passate molte settimane da quando era stato lì l’ultima volta. Sapeva che doveva essere avvenuto qualche cambiamento nella volta celeste, ma non era preparato a contemplare i Sette Soli.

Non potevano avere altro nome; la frase gli venne spontanea sulle labbra. Formavano un gruppo grazioso, compatto, incredibilmente simmetrico. Sei erano disposti in un’ellisse leggermente schiacciata che, Alvin ne era certo, era in realtà un cerchio perfetto, un pochino inclinato rispetto alla linea dello sguardo. Ogni stella aveva un colore diverso; Alvin distingueva il rosso, l’azzurro, il giallo e il verde, ma non riusciva a individuare le altre tinte. Proprio al centro dell’anello c’era una singola stella bianca gigante, la più luminosa di tutto il firmamento. La costellazione sembrava opera di un gioielliere; era addirittura incredibile, al di là di tutte le leggi del caso, che la Natura potesse avere creato una disposizione così perfetta.

A mano a mano che i suoi occhi si abituavano al buio, Alvin riuscì a individuare il grande velo nebbioso che era chiamato un tempo Via Lattea.

Si stendeva dallo zenit al limite dell’orizzonte, avvolgendo tra le sue pieghe i Sette Soli. Ora le altre stelle si erano fatte più luminose, e i loro gruppi sparsi aumentavano l’enigma di quella perfetta simmetria. Era come se una misteriosa forza avesse voluto sfidare il disordine naturale dell’universo collocando la propria opera tra le stelle. Dieci volte, non di più, la galassia aveva girato sul proprio asse dal giorno in cui l’uomo aveva messo piede sulla Terra. Per lei non era che un attimo. Tuttavia in questo breve periodo era cambiata completamente, molto più di quanto non le fosse lecito nel naturale corso degli eventi. I grandi soli che una volta, nel vigore della giovinezza, avevano brillato con violenza, erano ormai spenti. Ma Alvin non aveva mai visto l’antico splendore dei cieli, e non poteva sapere di tutte le cose che si erano perse.

Il freddo gli serpeggiava nelle ossa. Doveva tornare in città. Si staccò dalla grata e si massaggiò gli arti per ristabilire la circolazione. Di fronte a lui, all’estremità del corridoio, la luce che proveniva da Diaspar era tanto brillante da costringerlo a ripararsi gli occhi con una mano. All’esterno della città esistevano cose quali il giorno e la notte, ma tra le mura c’era il giorno eterno. Con il calare del sole il cielo sopra Diaspar si riempiva di luci, e nessuno poteva mai accorgersi che l’illuminazione naturale era cessata. Avevano eliminato il buio dalla città ancora prima che l’uomo avesse perso il bisogno di dormire. La sola notte che si conoscesse a Diaspar calava sul Parco, quando in certe occasioni lo si voleva trasformare in un luogo di mistero.

Alvin attraversò lentamente la sala degli specchi. La sua mente era ancora rivolta alla notte e alle stelle. Si sentiva esaltato e insieme depresso. Pareva non esserci alcuna via per fuggire verso quella sconfinata solitudine, né alcuna ragione logica per tentare. Jeserac gli aveva detto che vivere nel deserto non era possibile, e Alvin gli credeva. Se anche fosse riuscito, un giorno o l’altro, a lasciare Diaspar, tutto si sarebbe risolto in un’avventura.

Un’avventura che avrebbe dovuto vivere da solo, e che non lo avrebbe portato in nessun posto. Tuttavia, quell’avventura lo avrebbe forse guarito dalla sua inquietudine.

Alvin, che non aveva voglia di ritornare subito nel suo mondo, indugiò un poco nella stanza degli specchi. Si fermò davanti a uno dei più grandi e osservò la scena che si svolgeva all’interno. Il meccanismo che produceva le immagini era controllato dalla sua presenza, e, fino a un certo punto, anche dai suoi pensieri. Gli specchi erano sempre vuoti quando una persona entrava nella stanza, ma si riempivano di movimenti non appena la persona cominciava ad avanzare.

Gli parve di trovarsi in una lunga corte, che lui non aveva mai visto ma che probabilmente esisteva in qualche punto di Diaspar. Era incredibilmente affollata. Due uomini gesticolavano su una piattaforma elevata, e di tanto in tanto coloro che stavano attorno facevano energici cenni affermativi. Il silenzio completo aggiungeva fascino alla scena, perché la fantasia si metteva immediatamente al lavoro tentando di immaginare suoni adatti.

Cosa stavano discutendo? Alvin cercò di immaginarlo. Forse non era una vera scena del passato, ma soltanto un episodio creato dalla fantasia. Il modo in cui erano disposte le persone, e i loro gesti, facevano pensare che non si trattasse di vita reale.

Osservò le facce delle persone, cercando di riconoscere qualcuno. Ma tutti gli erano sconosciuti. Quante variazioni di fisionomia umana potevano esserci? Il numero doveva essere enorme, ma finito, specialmente dal giorno in cui erano state eliminate tutte le variazioni antiestetiche.

Le persone nello specchio continuarono la loro silenziosa discussione, ignorando l’immagine di Alvin che si era introdotta tra loro. A volte era difficile credere di non far parte della scena, perché l’illusione era perfetta.

Quando uno dei fantasmi si spostava dietro Alvin, spariva, come sarebbe avvenuto nella vita reale… Ma se qualcuno passava di fronte a lui, allora era lui che spariva dall’immagine.

Alvin stava per andarsene, quando scorse un individuo stranamente vestito che si teneva in disparte. I suoi movimenti, gli abiti… tutto in lui sembrava fuori posto. Era come Alvin, l’anacronismo della scena.

Ma era anche molto di più. Era un essere reale, e stava fissando Alvin con espressione lievemente canzonatoria.

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