16

Non ci furono formalità. Il Presidente dichiarò aperta la seduta e si rivolse ad Alvin.

«Alvin» disse, in tono cortese «vorremmo che tu ci dicessi cosa ti è accaduto da quando sei scomparso, dieci giorni orsono.»

Ad Alvin non sfuggì l’implicito senso della parola «scomparso». Nonostante tutto, il Consiglio era riluttante ad ammettere che lui fosse veramente uscito da Diaspar. Chissà se la presenza di stranieri in città era stata notata? Ne dubitava fortemente. In questo caso avrebbero dimostrato un allarme considerevolmente maggiore.

Raccontò la sua storia con chiarezza e senza drammatizzare. Alterò solo un punto, quello che si riferiva al modo come aveva lasciato Lys. Meglio tener segreto l’espediente: poteva servirgli in un’altra occasione.

Fu interessante osservare come gli atteggiamenti dei membri del Consiglio cambiassero durante il corso della sua narrazione. In un primo tempo si dimostrarono scettici, rifiutandosi di accettare la negazione di tutto ciò in cui avevano creduto, la violazione dei loro più profondi pregiudizi.

Quando Alvin parlò del suo grande desiderio di esplorare il mondo che stava oltre la città, e della sua irrazionale convinzione che questo mondo doveva esistere, lo fissarono come fosse stato un essere incomprensibile.

In effetti, secondo loro, lo era. Ma alla fine furono costretti ad ammettere che aveva ragione, e che lo sbaglio era stato loro. Col procedere del racconto di Alvin, tutti i dubbi si dissolsero lentamente. Potevano non gradire la verità, ma era impossibile negarla. Se fossero stati tentati di farlo, sarebbe bastato dare un’occhiata al silenzioso compagno di Alvin.

Solo un particolare del racconto sollevò l’indignazione generale, ma non sul conto di Alvin. Un mormorio di disapprovazione si levò nella sala quando il giovane parlò del timore di Lys circa eventuali contatti con Diaspar e dei passi che Seranis aveva fatto per impedire una simile catastrofe.

La città era orgogliosa della propria cultura, e che qualcuno potesse trattare da inferiori i cittadini di Diaspar era più di quanto il Consiglio riuscisse a tollerare.

Alvin chiamò a raccolta tutto il suo tatto; voleva, per quanto fosse possibile, portare il Consiglio dalla sua. Prima di tutto cercò di dare l’impressione di non vedere nulla di male in ciò che aveva fatto e di aspettarsi delle lodi, non del biasimo per le sue scoperte. Era la miglior tattica che avrebbe potuto adottare, poiché servì a disarmare la maggior parte dei possibili critici. Inoltre sortì l’effetto, sebbene ciò non fosse nelle intenzioni di Alvin, di trasferire ogni rimprovero sullo scomparso Khedron. Alvin, secondo il pensiero dei giudici, era troppo giovane per misurare i pericoli cui stava andando incontro. Il Buffone, invece, avrebbe dovuto agire con maggior prudenza, avendo dimostrato così di essere completamente irresponsabile.

Ancora non sapevano quanto il Buffone stesso fosse d’accordo con loro.

Lo stesso Jeserac, quale tutore di Alvin, fu spesso bersaglio di occhiate severe da parte dei consiglieri. Lui se ne accorgeva, ma non se ne dava per inteso. C’era un certo onore nell’aver istruito la mente più originale che fosse nata a Diaspar, e niente poteva togliere a Jeserac questa soddisfazione.

Solo quand’ebbe terminato l’esposizione dei fatti, Alvin passò all’attacco diretto. Avrebbe dovuto in qualche modo convincere quegli uomini delle verità imparate a Lys. Ma come avrebbe potuto far loro veramente capire cose che non avevano mai visto e che non avrebbero potuto immaginare?

«È tragico» cominciò «che i due popoli superstiti della specie umana siano rimasti separati per un periodo così enormemente lungo. Un giorno, forse, sapremo come questo è accaduto, ma oggi quello che conta è riparare la frattura… impedire che si approfondisca. Quando ero a Lys ho protestato contro il loro modo di vedere, che essi, cioè, si sentissero superiori a noi; possono avere molto da insegnarci, ma anche noi abbiamo molto da insegnar loro. E se entrambi crediamo di non aver nulla da imparare dall’altro, non è evidente che siamoentrambiin errore?»

Tacque, guardò attorno e si sentì incoraggiato a continuare.

«I nostri antenati» riprese «hanno fondato un impero esteso fino alle stelle. Ora i loro discendenti temono di spingersi oltre le mura della loro città.Devo dirvi perché?" Pausa. Nell’enorme salone tutti tacevano immobili.

«Perché abbiamo paura… di qualcosa che è avvenuto al principio della storia. La verità mi è stata detta a Lys, sebbene la sospettassi già da lungo tempo. Dobbiamo nasconderci per sempre a Diaspar come codardi, fingendo di credere che ai mondo non esista altro… solo perché un miliardo di anni fa gli Invasori ci hanno costretti a ritornare sulla Terra?»

Aveva messo il dito sulla piaga, quel timore che non aveva mai condiviso e che non avrebbe mai potuto interamente comprendere. E ora facessero pure quel che volevano. Lui, la verità l’aveva detta.

Il Presidente lo fissò con aria grave.

«Hai altro da aggiungere» chiese «prima che noi consideriamo il da farsi?»

«Una cosa ancora. Vorrei portare questo robot alla presenza del Computer Centrale.»

«Ma perché? Sai che il Computer è già al corrente di tutto ciò che accade in questa camera.»

«Desidero farlo ugualmente» replicò Alvin cortese ma fermo. «Ne chiedo l’autorizzazione al Consiglio e al Computer.»

Prima che il Presidente potesse ribattere, una voce calma e chiara risuonò nel salone. Alvin non l’aveva mai udita in vita sua, ma capì subito a cosa appartenesse. Le macchine informative, che altro non erano che accessori esterni di quella grande intelligenza, potevano parlare agli uomini, ma non possedevano quell’accento inconfondibile di saggezza e di autorità.

«Lasciatelo venire da me» acconsentì il Computer Centrale.

Alvin guardò il Presidente. Ebbe il buon gusto di non mostrare soddisfazione per quella vittoria, e si limitò a chiedere: «Mi accordate il permesso di allontanarmi?».

«Vai pure. Il tuo tutore e i censori ti accompagneranno e ti riporteranno qui appena avremo terminato di discutere.»

Alvin fece un cenno di ringraziamento, le grandi porte gli si spalancarono di fronte, e il giovane uscì lentamente dalla Sala. Jeserac lo seguì, e quando le porte si chiusero alle loro spalle, Alvin si girò verso il tutore.

«Cosa farà il Consiglio?» domandò con ansia.

Jeserac sorrise.

«Sempre impaziente, vero? Non so se la mia supposizione sia giusta, ma immagino che finiranno col decidere di chiudere la Tomba di Yarlan Zey, in modo che tu non possa più ripetere il viaggio. Poi Diaspar potrà continuare la sua vita, senza venire mai disturbata dal mondo esterno.»

«È proprio ciò che temo» disse Alvin con amarezza.

«E pensi ancora di poterlo evitare?»


Alvin non rispose subito. Sapeva che il tutore aveva compreso le sue intenzioni, ma almeno non avrebbe potuto immaginare quali erano i suoi piani, perché non ne aveva nessuno. Era arrivato a un punto in cui poteva soltanto improvvisare, e affrontare le nuove situazioni a mano a mano che si fossero presentate.

«Mi biasimate?» domandò, e Jeserac rimase stupito dal nuovo tono di voce. Era velata da un accento di umiltà. Per la prima volta Alvin cercava l’approvazione dei suoi simili. Jeserac ne rimase colpito, ma era troppo saggio per crederci seriamente. Alvin era ancora sotto una forte tensione, e non era prudente credere che un qualsiasi miglioramento di carattere fosse permanente.

«È molto difficile dirlo» rispose Jeserac. «Io sono tentato di affermare che la sapienza ha sempre un grande valore, e indubbiamente tu hai aggiunto parecchie cose al nostro sapere. Ma hai anche aumentato i nostri pericoli, e a lungo andare, qual è la cosa più importante? Quante volte ti sei soffermato a considerare questo?»

Per un attimo, maestro e allievo rimasero a guardarsi in silenzio. Forse per la prima volta ciascuno di loro capiva con maggiore chiarezza il punto di vista dell’altro. Poi s’incamminarono lungo il corridoio che si staccava dalla Sala del Consiglio. E la loro scorta li seguì docile.


Questo luogo, pensava Alvin, non è stato fatto per l’uomo. Alla luce delle forti lampade azzurre, così abbaglianti da ferire gli occhi, i corridoi lunghi e larghi sembravano correre via all’infinito. Sotto le grandi volte i robot di Diaspar trascorrevano la loro vita eterna, e solo a intervalli di molti secoli vi risuonava un passo umano.

Quella era la città sotterranea, la città delle macchine, senza la quale Diaspar non avrebbe potuto esistere. Qualche centinaio di metri più in là, il corridoio formava una camera circolare del diametro di circa un miglio, il cui soffitto era sostenuto da grandi colonne che dovevano anche sostenere l’incredibile peso della Centrale Energia. Là, secondo la pianta, il Computer Centrale meditava incessantemente il destino di Diaspar.

La camera c’era, anche più vasta di quanto Alvin immaginasse… ma dov’era il Computer? Si era aspettato di trovare un’unica, enorme macchina. Lo spettacolo che gli si presentò lo fece fermare incerto, meravigliato.

Il corridoio dal quale erano arrivati terminava quasi all’altezza della volta, sulla più grande cavità che mai l’uomo avesse costruito. Da entrambi i lati due lunghe rampe scendevano verso il pavimento. L’immensa distesa illuminata era coperta da centinaia di grandi strutture bianche. Nessuna traccia dello scintillio familiare del metallo, che dai tempi dei tempi l’uomo aveva imparato ad associare alle macchine.

Qui si concludeva un’evoluzione lunga quasi quanto quella dell’Uomo. I suoi inizi si perdevano nelle nebbie della preistoria, quando l’Umanità aveva scoperto l’uso dell’energia, e aveva riempito il mondo di rumorosi meccanismi. Vapore, acqua, vento… Tutte le forze della Natura erano state sperimentate per un certo periodo di tempo e poi abbandonate. Per secoli l’energia della materia aveva diretto il mondo, fino al giorno in cui era stata vinta. Durante il cambiamento, le vecchie macchine erano state dimenticate, e altre nuove avevano preso il loro posto. Lentamente, in migliaia di anni, ci si era avvicinati all’ideale di macchina perfetta; quell’ideale che era stato dapprima un sogno, poi una lontana prospettiva e infine realtà:una macchina non deve contenere alcun ingranaggio mobile.

Qui c’era la più perfetta espressione di quell’ideale. Quel risultato costato all’Uomo circa cento milioni di anni di ricerche. Nell’attimo in cui aveva raggiunto quel trionfo, l’Uomo aveva voltato le spalle alle macchine per sempre. La macchina era compiuta, autosufficiente per l’eternità. Ora doveva servirlo.

Alvin non stette più a chiedersi quale di quelle bianche entità fosse il Computer Centrale. Aveva capito che esso le comprendeva tutte e che si estendeva molto al di fuori di quella sala, includendo tutte le innumerevoli macchine di Diaspar, sia mobili, sia immobili. Così come un cervello umano è la somma di milioni di cellule separate, disposte in un volume di pochi millimetri cubici, gli elementi fisici del Computer Centrale erano sparsi per tutta la lunghezza e ampiezza di Diaspar. La camera non conteneva altro che il sistema di comando per mezzo del quale tutte quelle unità disperse si mantenevano in contatto.

Incerto sul da farsi, Alvin rimase in cima al doppio salone. Il Computer Centrale doveva sapere che lui era arrivato, come sapeva tutto ciò che accadeva a Diaspar, e gli avrebbe dato istruzioni.

La voce ormai nota risuonò piano, vicinissima a lui. «Discendi la rampa sinistra» ordinò. «Di là ti dirigerò io.»

Scese lentamente, col robot che fluttuava sopra di lui. Né Jeserac né i censori lo seguirono. Chissà se avevano ricevuto l’ordine di fermarsi lì, o se invece avevano deciso che potevano benissimo sorvegliarlo dalla loro posizione privilegiata senza prendersi il disturbo della lunga discesa. O

magari non osavano avvicinarsi di più al cuore che muoveva tutta Diaspar…

Giunto ai piedi della rampa, Alvin, sempre seguendo le istruzioni della voce, si avviò tra due file di forme titaniche. Tre volte seguì gli ordini della voce, finché comprese di aver raggiunto il suo obiettivo.

La macchina davanti alla quale si era fermato era più piccola di molte sue compagne, ma sempre gigantesca. I cinque ordini di meccanismi sovrapposti le davano l’aspetto di un mostro accucciato, e Alvin, girando un attimo lo sguardo verso il suo robot, stentò quasi a credere che i due fossero il prodotto di una stessa evoluzione, e che entrambi venissero definiti con la stessa parola. A circa un metro dal suolo un grande pannello trasparente correva lungo l’intera struttura. Alvin premette la fronte contro la sostanza liscia e stranamente calda e gettò un’occhiata all’interno. Dal principio non vide nulla; poi, stringendo le palpebre, distinse migliaia di deboli punti luminosi sospesi nel vuoto. Erano allineati uno dietro l’altro in una grata tridimensionale, misteriosa ed immobile come una costellazione. Alvin restò così parecchi minuti, dimentico del tempo che passava, ma i punti luminosi non si mossero e il loro splendore rimase immutato.

Alvin si rese conto che se avesse potuto guardare dentro il suo cervello non ne avrebbe certamente capito la complessità. La macchina gli sembrava immobile e inerte perché lui non poteva vederne i pensieri.

Per la prima volta ebbe una pallida idea delle forze che governavano la città. Per tutta la sua vita aveva accettato, senza farsi domande, l’esistenza dei sintetizzatori che da secoli provvedevano agli infiniti bisogni di Diaspar. Migliaia di volte aveva visto crearsi qualcosa, e solo di rado aveva pensato che in qualche luogo doveva esistere il prototipo di ciò che aveva visto comparire nel mondo.

Come la mente umana può soffermarsi per qualche istante sopra un singolo pensiero, così il cervello infinitamente più grande, che era soltanto una parte del Computer Centrale, poteva afferrare e ritenere per sempre le idee più complicate. Gli schemi di tutte le cose create erano conservati in quella mente eterna, e bastava soltanto la volontà di un uomo per far sì che quegli schemi diventassero una realtà.

Il mondo aveva fatto strada, dal giorno in cui l’uomo delle caverne impiegava ore e ore per ricavare dalla pietra la punta delle sue frecce e i coltelli…

Alvin attese, non osando parlare finché non avesse ricevuto un cenno di autorizzazione. Si chiedeva come il Computer Centrale potesse rendersi conto della sua presenza, e vederlo, e udire la sua voce. Mancava qualsiasi traccia di organi sensori: né le griglie, né gli schermi, né gli occhi di cristallo attraverso i quali solitamente i robot prendono visione del mondo che li circonda.

«Esponi il tuo problema» disse la voce al suo orecchio. Strano che quell’immane complesso meccanico esprimesse i propri pensieri in tono così dolce. Ma subito Alvin pensò che forse si illudeva; certo era solo una milionesima parte del cervello del Computer Centrale a trattare con lui.

Cos’era lui se non uno degli innumerevoli accidenti di cui il Computer si occupava contemporaneamente mentre vegliava su Diaspar?

Era difficile parlare a una presenza che riempiva l’intero spazio attorno.

Le parole di Alvin sembravano svanire nell’enorme cavità appena pronunciate.

«Chi sono io?» chiese.

Aveva posto la stessa domanda a parecchie macchine della città, e sapeva quale sarebbe stata la risposta: «Tu sei un uomo». Ma ora si trovava di fronte a un’intelligenza di ordine completamente diverso, e non doveva preoccuparsi dell’assoluta precisione semantica. Il Computer Centrale avrebbe capito ciò che lui intendeva. Comunque non significava che gli avrebbe risposto. Infatti la risposta fu esattamente quella che Alvin aveva temuto.

«Non posso rispondere. Equivarrebbe a rivelare i propositi dei miei costruttori, e quindi ad annullarli.»

«Allora sono stato progettato quando è stata costruita la città?»

«Si può dire la stessa cosa di qualsiasi altro uomo.»

La risposta fece riflettere Alvin. Era vero: gli abitanti di Diaspar erano stati progettati con cura, come le macchine. Il fatto di essere Unico gli dava una certa rarità, nient’altro.

Capì che non avrebbe appreso altro circa il mistero delle sue origini. Inutile giocare d’astuzia con quella sconfinata intelligenza, o sperare che questa gli rivelasse verità che aveva ricevuto ordine di tenere celate. Comunque non provò disappunto. Gli sembrava di aver cominciato a vedere un barlume di verità, e poi non era quello lo scopo principale della sua visita.

Guardò il robot che aveva portato da Lys e restò incerto sul da farsi. Il robot, se avesse intercettato ciò che lui aveva in mente, avrebbe potuto ribellarsi, quindi era necessario non fargli ascoltare ciò che voleva chiedere al Computer.

«Puoi creare una zona di silenzio?» domandò.

Immediatamente percepì quell’inconfondibile sensazione di isolamento, e lo smorzarsi improvviso di qualsiasi suono, che si creava attorno all’individuo compreso entro i limiti di tale zona. La voce del Computer, ora stranamente piatta e sinistra, mormorò: «Nessuno può udirci. Parla».

Alvin sbirciò il robot; non si era mosso dalla sua posizione. Forse non sospettava nulla e non aveva affatto una volontà propria. Forse lo aveva seguito fino a Diaspar come un fedele servitore. E ciò che lui tramava gii sembrò un trucco meschino.

«Hai sentito come ho incontrato questo robot» cominciò. «Possiede di certo preziose cognizioni sul passato, che arrivano fino alle epoche precedenti la fondazione della città. Credo sia anche in grado di parlarci di altri mondi, poiché ha seguito il Maestro nei suoi viaggi. Purtroppo i suoi circuiti parlanti sono bloccati. Non so quanto sia complesso il blocco, ma vorrei chiederti di toglierlo.»

Nella zona in cui il silenzio assorbiva le parole prima che potessero formare un’eco, la sua voce risuonò atona e vuota. Alvin aspettò di sapere se la sua domanda veniva accettata o respinta.

«Ci troviamo di fronte a due problemi» ribatté il Computer. «Uno morale, l’altro tecnico. Questo robot è stato costruito per obbedire agli ordini di un certo uomo. Che diritto ho io di annullare questi ordini, ammesso che ci riesca?»

Alvin aveva previsto l’obiezione e si era preparato a controbatterla.

«Non conosciamo la natura esatta della proibizione del Maestro. Se tu puoi parlare al robot, forse potrai persuaderlo che le circostanze in cui il blocco è stato imposto sono oggi mutate.»

Era l’argomentazione più convincente. Alvin stesso aveva tentato di farlo, senza successo, ma sperava che il Computer Centrale, con le sue risorse mentali infinitamente superiori, sarebbe riuscito a farsi intendere.

«Tutto dipende dal tipo di blocco» fu la risposta. «Esistono blocchi che, se si tenta di forzarli, fanno sì che il contenuto delle cellememoria resti cancellato. Mi sembra comunque improbabile che il Maestro possedesse tanta perizia; la cosa richiede l’opera di tecnici specializzati. Chiederò al tuo robot se alle sue unità di memoria è stato applicato un circuito cancellatore.»

«Non è possibile che si provochi la cancellazione solo per aver formulato la domanda?»

«C’è un procedimento standard per questi casi, e io me ne servirò. Applicherò delle istruzioni secondarie, dicendo alla macchina di ignorare la mia domanda se esiste tale situazione. Si troverà coinvolta in un paradosso logico, per cui sia rispondendomi, sia tacendo, dovrebbe ugualmente disubbidire alle istruzioni ricevute. In questi casi tutti i robot si comportano allo stesso modo. Sgombrano i circuiti d’ingresso e agiscono come se la domanda non fosse stata fatta.»

Alvin si pentì di aver fatto quella domanda; e dopo un attimo di ragionamento si convinse che lui doveva adottare la stessa tattica; fingere di non aver fatto la domanda. Se non altro, una cosa era certa: il Computer Centrale era preparatissimo a trattare con tutti i sistemi di cancellazione che potevano esistere nella mente del robot. Alvin non voleva vedere la sua macchina ridotta a un cumulo di rottami. Avrebbe preferito piuttosto riportarla a Shalmirane con tutti i suoi segreti intatti.

Chiamò a raccolta tutta la sua pazienza mentre l’incontro silenzioso e inafferrabile tra i due intelletti aveva luogo. Era l’incontro di due menti, entrambe create dal genio umano nella remota età d’oro delle conquiste massime, e che erano ora al di fuori della comprensione di qualsiasi essere vivente.

Parecchi minuti dopo, la voce del Computer Centrale parlò di nuovo.

«Ho stabilito un contatto parziale. Ho individuato il tipo di blocco e credo di sapere perché è stato imposto. Non c’è che una soluzione per toglierlo. Questo robot non parlerà fino a che i Grandi non saranno discesi sulla Terra.»

«Ma sono sciocchezze» protestò Alvin. «Anche l’altro discepolo del Maestro credeva nei Grandi. Ha fatto un lungo discorso senza senso. I Grandi non sono mai esistiti e mai esisteranno.»

Alvin era in preda a un’amara delusione. La verità era preclusa dai capricci di un pazzo morto da milioni di anni.

«Forse non hai torto dicendo che i Grandi non sono mai esistiti» osservò il Computer. «Questo non significa, però, che non esisteranno mai.»

Ci fu un lungo silenzio mentre Alvin meditava sul senso di quelle parole e i due robot entravano nuovamente in contatto. Poi, improvvisamente, Alvin si ritrovò a Shalmirane.

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