17

Era tutto come l’altra volta, una grande lastra di ebano che assorbiva i raggi del sole senza rifletterli. Alvin era fermo tra le rovine, fissando il lago le cui acque immobili confermavano che il gigantesco polpo non era più un essere cosciente, ma una miriade di animaletti dispersi.


Il robot era con lui, ma non c’era alcuna traccia di Hilvar. Alvin non ebbe il tempo di preoccuparsi dell’assenza del suo amico, perché quasi immediatamente si verificò un fatto così fantastico da scacciare dalla sua mente ogni altro pensiero.

La volta del cielo cominciò ad aprirsi in due. Una sottile crepa oscura si delineò dall’orizzonte allo zenit e si allargò lentamente come se la notte e il caos stessero per precipitare sull’universo. La fenditura si allargò inesorabilmente fino a occupare un quarto del cielo. Alvin, nonostante tutte le sue cognizioni d’astronomia, non poteva vincere l’impressione che il mondo si stendesse sotto una enorme cupola azzurra… E ora qualcosa stava penetrando attraverso quella cupola dall’esterno.

La zona oscura aveva cessato di allargarsi. Le forze che l’avevano provocata stavano scrutando il piccolo universo che avevano scoperto, forse per vedere se valeva la pena di occuparsene. Sottoposto a quell’indagine cosmica, Alvin non provava alcun terrore. Sapeva di trovarsi faccia a faccia con la potenza e la saggezza, di fronte alle quali l’uomo può sentire rispetto, non timore.

Ora le potenze avevano deciso… Avrebbero dedicato qualche frammento di eternità alla Terra e alla sua popolazione. Stavano penetrando dalla finestra che avevano scavato in cielo.

Faville di una fucina celestiale scendevano sulla Terra, sempre più fitte, in una pioggia di fuoco che, dall’infinito, cadeva formando pozze di luce liquida appena toccato il suolo. Alvin udì parole che suonarono al suo orecchio come una benedizione.

«Sono venuti i Grandi».

Il fuoco raggiungeva Alvin senza bruciarlo. Era dovunque, riempiva l’immensa conca di Shalmirane del suo scintillio dorato. E Alvin si accorse che le scie luminose avevano una forma, una struttura, e formavano dei vortici. E quei vortici ruotavano sempre più rapidi intorno al proprio asse e il loro centro s’innalzava sempre più creando delle colonne di luce entro le quali si intravedevano figure misteriose ed evanescenti. Da quei totem incandescenti usciva una debole nota musicale, infinitamente lontana e suggestivamente dolce.

«Sono venuti i Grandi».

E venne una risposta. E quando Alvin udì le parole: «I servi del Maestro vi salutano. Vi stavamo aspettando!» capì che le barriere erano cadute. In quell’istante Shalmirane e i suoi strani visitatori svanirono, e lui si trovò di nuovo alla presenza del Computer Centrale, nei sotterranei di Diaspar.


Era stata tutta un’illusione, non più reale del mondo fantastico delle saghe, dove aveva passato tante ore della sua infanzia. Ma come era stata creata? Da dove erano venute le immagini che aveva visto?

«Un problema insolito» spiegò la voce piana del Computer Centrale.

«Sapevo che il robot doveva avere in mente una concezione visuale dei Grandi. Se fossi riuscito a fargli provare la sensazione di vedere realmente quell’immagine, il resto sarebbe stato facile.»

«E come hai fatto?»

«Ho chiesto al robot una descrizione di questi Grandi, poi ho carpito lo schema che si formava nei suoi pensieri. Lo schema era incompleto e ho dovuto inventare parecchio. Un paio di volte il quadro che stavo creando ha corso il rischio di allontanarsi troppo dalla concezione del robot, ma io mi tenevo pronto a cogliere ogni segno di perplessità della macchina e a modificare l’immagine prima che il robot s’insospettisse. Il mio vantaggio è di poter usare centinaia di circuiti contro uno dei suoi, e di poter cambiare le immagini con tanta rapidità che il passaggio non si avverte. Ho usato un trucco, ma sono riuscito a saturare tutti i circuiti del robot e a sopraffare il suo senso critico. Quella che hai visto era l’immagine finale, quella che più si adattava alle descrizioni del Maestro. Il robot è rimasto convinto della sua autenticità quel tanto che bastava perché il blocco scattasse, e in quel momento sono riuscito a mettermi perfettamente in contatto con lui. Ora non è più folle; risponderà a tutte le tue domande.»

Alvin era ancora confuso. La visione di quella apocalisse gli tormentava la mente, e non riuscì a comprendere perfettamente le spiegazioni del Computer Centrale. Ma non aveva importanza il modo in cui si era compiuto quel miracolo di terapia.

Le porte della Verità si erano dunque spalancate! A un tratto Alvin ricordò l’obiezione del Computer Centrale e chiese ansioso: «Sei sempre del parere che non abbiamo il diritto di contraddire gli ordini del Maestro?».

«Ho scoperto perché erano stati dati. Il Maestro sosteneva di aver compiuto molti miracoli. I suoi discepoli gli credevano, e la loro fiducia aumentava il prestigio di lui. Ma quei miracoli avevano tutti una spiegazione semplicissima, ammesso che siano avvenuti. È sbalorditivo come persone intelligenti si siano lasciate convincere in un modo simile.»

«Dunque il Maestro era un imbroglione?»

«No, non proprio. Se fosse stato un volgare impostore, non avrebbe avuto tanto successo, e i suoi insegnamenti non sarebbero durati così a lungo.

Era un buon uomo, e molto di quel che diceva era giusto e saggio. Finì col credere lui stesso ai suoi miracoli, ma sapeva che c’era un testimone che avrebbe potuto negarli. Il robot conosceva tutti i suoi segreti; era il suo braccio destro e il suo portavoce, ma se fosse stato interrogato troppo a fondo avrebbe potuto rivelare ogni cosa. Allora gli impose di non rivelare mai ciò che sapeva fino all’ultimo giorno dell’universo, quando i Grandi sarebbero discesi. È difficile credere che nello stesso individuo potesse albergare un tale impasto di sincerità e di falsità, eppure è così.»

Alvin si chiese quali fossero i pensieri del robot in quel momento. Era di certo una macchina abbastanza complessa per nutrire un sentimento come il rancore. Poteva essere sdegnato con il Maestro che l’aveva reso suo schiavo… e altrettanto sdegnato con Alvin e il Computer Centrale per averlo guarito dalla follia con l’inganno.

La zona di silenzio era stata tolta; non c’era più bisogno di segretezza. Il momento che Alvin aspettava era alfine venuto. Il giovane si volse al robot e gli fece la domanda che lo assillava da quando aveva ascoltato il racconto della saga del Maestro.

E il robot rispose.


Jeserac lo stava aspettando pazientemente. In cima alla scala, prima di avviarsi lungo il corridoio, Alvin lanciò un’ultima occhiata alla grande sala. E l’impressione fu maggiore di quella provata poco prima. Sotto di lui si stendeva una città morta di case bianche dalle forme strane. Una città illuminata da una luce che non era fatta per gli occhi umani. Poteva essere morta, perché non aveva mai vissuto, ma pulsava di energie molto più potenti di quante avessero mai mosso una qualsiasi materia organica. Sarebbero esistite per tutta la durata del mondo, senza mai distogliere la mente dai pensieri che uomini di genio avevano affidato loro molto tempo prima.

Mentre camminavano verso la Sala del Consiglio, Jeserac cercò di fare qualche domanda, ma non venne a sapere niente del colloquio che si era svolto a pochi passi da lui. Ma non per discrezione di Alvin. Il giovane era ancora troppo scosso da tutto ciò che aveva visto, e troppo ebbro di successo, per poter svolgere una conversazione coerente. Jeserac fu costretto a usare tutta la sua pazienza, e sperare che Alvin uscisse da quello stato di trance.

Le strade di Diaspar erano illuminate da una luce che sembrava pallida al confronto di quella che brillava sulle macchine. Ma Alvin non se ne accorse, né badò alla bellezza delle torri cui passavano accanto, o agli sguardi dei suoi concittadini. Era strano, pensò, come tutto ciò che era accaduto lo avesse portato a quel momento. Dal suo incontro con Khedron, tutti gli avvenimenti sembravano essersi svolti automaticamente con uno scopo prefisso. I Monitor, Lys, Shalmirane… A ogni istante sarebbe potuto tornare sui suoi passi, ma c’era sempre stato qualcosa a spingerlo avanti. Era lui a costruirsi il suo destino, o era particolarmente favorito dal Fato? Forse non si trattava altro che di semplici probabilità, mosse dalle leggi del caso.

Qualsiasi altro avrebbe potuto trovare il sentiero che lui aveva tracciato, e in passato molti altri dovevano aver percorso quella stessa strada. Gli Unici, per esempio? Cos’era successo a loro? Forse lui era l’unico ad aver avuto fortuna.

Durante il tragitto, riuscì a stabilire un contatto sempre più diretto tra sé e la macchina liberata dal mutismo che le avevano imposto. Era sempre stata in grado di ricevere i pensieri, ma prima lui non poteva mai sapere in anticipo se avrebbe obbedito ai suoi ordini. Ora l’incertezza era scomparsa.

Adesso Alvin poteva parlare al robot come a un altro essere umano, solo che, non essendo soli, comunicavano tra loro inviandosi immagini mentali.

Quante volte, prima si era seccato che i robot potessero parlare tra loro telepaticamente. La telepatia era una forza che Diaspar aveva perso da molto tempo, o che aveva eliminato di proposito.

Mentre aspettavano di fronte alla Sala dei Consiglio, Alvin continuò la sua silenziosa conversazione con il robot. Era impossibile non paragonare la presente situazione a quella che si era svolta a Lys, quando Seranis e gli altri avevano tentato di piegarlo alla loro volontà. Sperò che conflitti del genere non dovessero ripetersi, ma se fosse sorto qualche contrasto, lui ora si sentiva molto meglio preparato.

Gli bastò un’occhiata al volto dei Consiglieri per capire quale decisione avessero preso. Non ne fu sorpreso e nemmeno particolarmente dispiaciuto; ascoltò l’annuncio del Presidente senza mostrare emozione.

«Alvin» esordì il Presidente «abbiamo considerato a fondo la situazione che si è venuta a creare in seguito alla tua scoperta, e abbiamo preso una decisione unanime. Poiché nessuno desidera che si producano cambiamenti, e poiché nessun altro si sentirebbe di lasciare Diaspar pur conoscendone il mezzo, la sotterranea per Lys è inutile, o meglio, potrebbe essere un pericolo. L’entrata alla Camera delle Vie Mobili è stata quindi sigillata.

«Inoltre, abbiamo già iniziato le ricerche per scoprire eventuali altre uscite. Abbiamo poi considerato attentamente il tuo caso. Vista la giovane età e le circostanze peculiari delle tue origini, non puoi essere condannato per ciò che hai fatto. Anzi, poiché hai denunciato un pericolo potenziale per la nostra vita, hai reso un servizio alla città e ti diamo atto della nostra gratitudine.»

I Consiglieri, soddisfattissimi, accennarono un applauso. Una difficile situazione era stata risolta rapidamente, e la necessità di muovere un rimprovero ad Alvin era stata evitata. Se ne sarebbero andati con la convinzione di aver compiuto il loro dovere di capi della città. Forse sarebbero passati secoli prima che si dovesse svolgere una nuova riunione come quella. Il Presidente guardò Alvin in ansiosa attesa; forse sperava che Alvin rispondesse per esprimere la sua gratitudine al Consiglio. Restò deluso.

«Posso fare una domanda?» disse Alvin in tono cortese.

«Certo.»

«Il Computer Centrale ha approvato la vostra decisione?»

Una domanda del genere, fatta da un altro, sarebbe stata considerata molto irriverente. Il Consiglio non era tenuto a giustificare le sue decisioni, né a render conto di come le aveva prese. Ma Alvin era nelle buone grazie dei Computer Centrale, e veniva così a trovarsi in una posizione privilegiata.

La sua domanda causò un certo imbarazzo e la risposta fu piuttosto evasiva. «Naturalmente abbiamo consultato il Computer Centrale. Ci ha detto che si fida del nostro giudizio.»

Ecco, proprio come immaginava. Il Computer Centrale, nello stesso tempo, aveva parlato con lui e aveva discusso col Consiglio, senza contare le migliaia di altre cose di cui certo si era occupato. Sapeva, come lo sapeva lui, che la decisione del Consiglio non aveva alcuna importanza. Il futuro era sfuggito dalle mani dei Consiglieri proprio nell’attimo in cui, con troppa facilità, avevano creduto risolto l’incidente.

Alvin non provò alcun senso di superiorità mentre si congedava da quei vecchioni ingenui che si credevano i signori di Diaspar. L’incontro col vero reggitore della città aveva dissipato l’arroganza dal suo animo. Si chiese solo quale impressione avesse fatto sui Consiglieri la tranquilla indifferenza con cui aveva accolto il loro verdetto. I censori non lo accompagnarono; non era più sotto controllo, almeno non in maniera palese.

Solo Jeserac lo seguì fuori della Sala del Consiglio e per le strade affollate.

«Be’, Alvin» disse. «Ti sei comportato molto bene, ma a me non la dai a bere. Cosa stai macchinando?»

Alvin sorrise.

«Sapevo che avreste finito per sospettare qualcosa. Se volete venire con me vi mostrerò perché la sotterranea di Lys non ha più alcuna importanza.

Poi voglio tentare un altro esperimento; forse non vi piacerà, comunque non è pericoloso.»

«Benissimo. Il tutore sarei io, ma pare che le parti si siano invertite. Dove vuoi portarmi?»

«Alla Torre di Loranne. Vi mostrerò il mondo esterno.»

Jeserac impallidì, ma non batté ciglio. Poi, con un breve cenno di assenso, seguì l’allievo verso la strada mobile.

Il tutore si avviò coraggiosamente lungo il tunnel nel quale il vento soffiava incessantemente. In fondo al tunnel qualcosa era cambiato: la griglia di pietra che aveva bloccato l’accesso al mondo esterno era caduta. Il Computer Centrale l’aveva rimossa senza commenti, su richiesta di Alvin.

In seguito avrebbe istruito i Monitor di ricollocare la griglia. Ma per il momento il tunnel si apriva senza barriere sul muro esterno della città.

Jeserac era quasi arrivato al termine del corridoio quando si rese veramente conto di quello cui andava incontro. Fissò il cielo che si inquadrava nell’apertura, e i suoi passi si fecero più incerti. A un tratto si fermò. Alvin ricordò che in quello stesso punto Alystra aveva girato le spalle per fuggire, e si domandò se sarebbe riuscito a convincere Jeserac ad avanzare.

«Vi chiedo solo diguardare» disse «non di lasciare la città. Fatevi coraggio, via!»

A Lys, durante il suo breve soggiorno, aveva visto una madre che insegnava al figlio a camminare. Mentre esortava Jeserac ad avanzare lungo il corridoio, ricordò quel fatto. Jeserac, a differenza di Khedron, non era un codardo. Era ben deciso a superare l’istinto che gli suggeriva di tornare indietro, ma la lotta fu terribile. Alvin era quasi più esausto del tutore quando finalmente riuscì a trascinarlo in un punto dal quale si vedeva la piana ondulata del deserto.

Poi l’interesse e la strana bellezza della scena, così nuova per Jeserac, ebbero ragione di tutte le paure. Il vecchio fissò affascinato l’immensa distesa di dune e le colline distanti. Era chiaramente affascinato dalla visione delle dune di sabbia e delle alture che si ergevano sullo sfondo Era pomeriggio inoltrato e tra poco la notte, del tutto sconosciuta a Diaspar, avrebbe ingoiato la landa.

«Vi ho chiesto di venire qui perché so che avete più diritto di chiunque altro di vedere dove i miei viaggi mi hanno condotto. Volevo mostrarvi il deserto e vi volevo come testimone; così potrete riferire ogni cosa al Consiglio. Come ho detto ai Consiglieri, ho portato questo robot da Lys nella speranza che il Computer Centrale potesse togliere il blocco impostogli dall’uomo conosciuto come il Maestro. Il Computer vi è riuscito, e non so ancora spiegarmi bene con quale espediente. Ora ho accesso a tutte le memorie di questa macchina e posso usarne tutti i dispositivi. Osservate.»

Alvin parlò mentalmente al robot, che si lanciò fuori dell’apertura, acquistò velocità e in pochi istanti non fu che un lontano scintillio sotto il sole. Volava basso sul deserto, sfiorando le dune che s’incrociavano come onde cristallizzate. Jeserac avrebbe giurato che stesse cercando qualcosa, ma non riusciva a immaginare cosa.

Tutt’a un tratto il luccichio si arrestò a circa cinquecento metri dal suolo.

Alvin in quel medesimo istante diede un sospiro di soddisfazione e di sollievo. Gettò un’occhiata rapida a Jeserac, come per dirgli: «Ci siamo!». In un primo momento, non sapendo cosa si doveva aspettare, Jeserac non riuscì a notare nessun cambiamento. Poi, quasi stentando a credere ai suoi occhi, vide una nuvola di polvere che si sollevava lentamente dal deserto.

È impressionante veder muoversi qualcosa che dovrebbe essere immobile per l’eternità, ma Jeserac ormai non si meravigliava più di niente. Sotto le sabbie qualcosa stava agitandosi, come un gigante che si desti da un lungo sonno, e poco dopo giunse un rumore di terra smossa seguito da un potente getto di sabbia che si alzò fino a una trentina di metri dal suolo.

Lentamente la sabbia ricadde tutt’attorno, lasciando scoperto un enorme cratere; Jeserac e Alvin fissavano immobili il cielo dove un momento prima fluttuava il robot. Jeserac cominciava a rendersi conto del perché Alvin era rimasto tanto indifferente quando il Consiglio aveva deciso la chiusura della sotterranea per Lys.

Dal deserto squarciato una nave spaziale dalle linee ardite si stava levando verso l’alto e, giunta a una certa altezza, virò puntando verso la Torre di Loranne.

Alvin prese a parlare in fretta, come se avesse poco tempo. «Il robot era stato costruito per essere il compagno e il servo del Maestro, ma soprattutto il pilota della sua nave» disse. «Prima di andare a Lys, il Maestro atterrò nel porto di Diaspar, ora sepolto sotto quelle sabbie. Già a quei tempi il porto doveva essere abbandonato. La nave del Maestro è stata probabilmente una delle ultime a raggiungere la Terra. Lui è vissuto per un certo tempo a Diaspar prima di andare a Shalmirane. Le vie aeree erano ancora aperte, ma il Maestro non ebbe più occasione di servirsi della nave, e per tutti questi milioni d’anni la macchina è rimasta ad attenderlo sotto le sabbie che a poco a poco hanno ingoiato il porto. Come la stessa Diaspar, come il robot, come tutte le cose che i costruttori del passato hanno giudicato realmente importanti, la nave è stata preservata dai suoi circuiti di eternità.

Finché ci sarà energia ad alimentarla, non potrà logorarsi né essere distrutta; l’immagine conservata nelle sue celle-memoria non sbiadirà, e quell’immagine manterrà perfetta la struttura materiale.»

Ora la nave era molto vicina e il robot la stava guidando verso la torre.

Era lunga circa trenta metri, fortemente appuntita alle estremità. Per quanto si poteva intravedere attraverso la crosta di sabbia che la ricopriva, pareva non avere né finestre né altre aperture.

Improvvisamente i due uomini furono investiti da un getto di polvere e di terriccio. Una sezione dello scafo si era aperta, lasciando scorgere l’interno di una cabina e una seconda porta in corrispondenza. La nave fluttuava a poche spanne dall’apertura della torre. Si era avvicinata adagio, accostando la torre con un’accortezza e una perizia magistrali.

«Arrivederci, Jeserac» fece Alvin. «Non posso tornare a Diaspar per salutare gli amici. Dite a Eriston e a Etania che spero di rivederli presto. Dite loro che sono grato di tutto ciò che hanno fatto per me. E sono grato a voi, Jeserac, anche se forse non approvate il modo in cui ho messo in pratica le vostre lezioni. Quanto al Consiglio… dite loro che la strada che è stata aperta non può venire chiusa da un semplice verdetto.»


La nave non era più che un punto lontano nel cielo e all’improvviso Jeserac non la distinse più. Solo il rombo gli giungeva ancora, l’eco del tuono incessante delle masse d’aria spostate dalla più miracolosa macchina creata dall’Uomo, la macchina che avanzava, chilometro dopo chilometro, scavandosi una galleria di vuoto nel cielo.

Gli ultimi echi svanirono, ma Jeserac non si mosse. Stava pensando al ragazzo che se n’era andato, perché per lui Alvin sarebbe sempre stato un ragazzo, l’unico venuto al mondo a Diaspar da quando, in tempi immemorabili, il ciclo della nascita e della morte era stato abolito. Alvin non si sarebbe mai fatto adulto; per lui l’intero universo era un giocattolo, un rompicapo da sciogliere per passare il tempo. Nei suoi giochi aveva ora scoperto l’ultimo e il più mortale dei trastulli, che poteva riuscire fatale a ciò che restava della civiltà umana… Ma qualsiasi cosa fosse accaduta, per Alvin sarebbe stata ancora un gioco.

Il sole era basso sull’orizzonte, e un vento gelido soffiava dal deserto.

Ma Jeserac aspettava immobile, dominando i suoi terrori; e a un tratto, per la prima volta in vita sua, vide le stelle.

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