18

Alvin non aveva mai visto tanto lusso, nemmeno a Diaspar. Non si poteva dire che il Maestro fosse stato un tipo ascetico. Soltanto dopo qualche minuto Alvin si rese conto che tutte quelle comodità non erano inutili stravaganze. Quello scafo aveva dovuto servire da casa al Maestro durante i suoi lunghissimi viaggi tra le stelle.

Non si vedevano pulsanti o strumenti di comando d’alcun genere. Solo il largo schermo ovale che copriva completamente la parete in fondo indicava che quella non era una camera qualunque. Davanti allo schermo, disposte a semicerchio, c’erano tre cuccette basse; il resto della cabina era occupato da due tavolini e da un certo numero di sedie imbottite, alcune di una forma chiaramente studiata per ospitare corpi non umani.

Alvin si sistemò comodamente davanti allo schermo e si guardò attorno per cercare il robot. Era scomparso. D’un tratto lo scorse, incuneato in una nicchia del soffitto. Aveva portato il Maestro attraverso lo spazio fino alla Terra, l’aveva seguito come servo a Lys, e ora, come se gli eoni trascorsi non fossero passati affatto, era pronto a esplicare di nuovo i suoi compiti di pilota.

Alvin gli diede un comando a mo’ di esperimento e subito lo schermo s’illuminò, inquadrando la Torre di Loranne vista di scorcio e apparentemente coricata su un fianco; poi il cielo, la città e la grande distesa del deserto. Le immagini erano nitide, chiarissime. Alvin tentò parecchi ordini per impratichirsi, finché riuscì a ottenere tutte le inquadrature che desiderava. Si poteva partire.

«Portami a Lys.» L’ordine era semplice, ma come avrebbe potuto ubbidirgli la nave se lui stesso non aveva alcuna idea sulla direzione da prendere? Alvin non ci aveva pensato, e quando se ne ricordò lo scafo stava già sorvolando il deserto a velocità pazzesca. Si strinse nelle spalle e accettò con un sospiro di sollievo il fatto di avere dei servi tanto più sapienti di lui.

Era difficile giudicare la velocità dell’immagine che si proiettava sullo schermo, ma molti chilometri dovevano passare a ogni minuto. Poco lontano dalla città il colore del terreno divenne di colpo grigio scuro, e Alvin comprese che stava sorvolando il letto di uno degli oceani scomparsi. Una volta Diaspar doveva essere stata molto vicina al mare, ma nei vecchi documenti non ne veniva mai fatto cenno. Per quanto vecchia, Diaspar doveva essere nata parecchio tempo dopo la scomparsa degli oceani.


Dopo centinaia di chilometri Alvin fermò la sua nave sopra uno strano schema di linee che si intersecavano, appena appena visibili sulla coltre di sabbia. Restò un po’ a fissarlo senza capire, poi si rese conto che doveva trattarsi delle rovine di una città sepolta. Ripartì quasi subito; era straziante pensare che miliardi di uomini non avevano lasciato altra traccia della loro esistenza che quei solchi nella sabbia.

Alla fine, la leggera curva dell’orizzonte venne interrotta dall’irregolare contorno delle montagne. E subito, quasi nell’istante in cui le vide, le montagne furono sotto di lui. La macchina rallentò e scese verso terra compiendo un grande arco di un centinaio di chilometri. E alla fine vide Lys, con le sue foreste e i suoi fiumi di incomparabile bellezza. A est la Terra era in ombra, e i grandi laghi sembravano macchie di notte più scura. Ma a ovest le acque danzavano, riflettendo colori che non aveva mai immaginato.

Riuscì a localizzare Airlee quasi subito, e fu una fortuna, perché il robot non avrebbe saputo condurlo oltre. Alvin se lo era quasi aspettato, e si sentì felice nell’avere la conferma che la macchina aveva dei limiti. Con tutta probabilità il robot non aveva mai sentito parlare di Airlee, e quindi la posizione del villaggio non poteva essere registrata nelle sue cellule mnemoniche.

Dopo qualche esperimento Alvin fece scendere lo scafo nei pressi della collina da dove aveva scorto Lys per la prima volta. Era abbastanza facile controllare la macchina. Non doveva far altro che indicare il suo desiderio, e il robot si sarebbe incaricato di tutti i particolari. Forse era stato condizionato a ignorare ordini pericolosi o impossibili. Lui comunque non aveva nessuna intenzione di darne di simili. Alvin era quasi certo che nessuno avesse visto il suo arrivo. Era un fatto di estrema importanza, perché non aveva nessuna intenzione di ingaggiare un combattimento mentale con Seranis. I suoi piani erano ancora alquanto vaghi, ma non avrebbe corso rischi prima di aver ristabilito relazioni cordiali. Il robot gli avrebbe fatto da ambasciatore, e lui sarebbe rimasto all’interno dello scafo.

Sulla strada per Airlee non incontrò nessuno. Era strano sedere nella nave spaziale mentre il suo campo visivo si muoveva lungo i sentieri noti e il mormorio della foresta gli risuonava nelle orecchie. Tuttavia gli riusciva ancora difficile identificarsi col robot, e lo sforzo per controllarlo era sensibile.

Era quasi buio quando raggiunse Airlee, e gli ultimi raggi illuminavano le facciate delle case più alte. Alvin si tenne nell’ombra, e venne scoperto soltanto quando aveva quasi raggiunto la casa di Seranis. Ci fu un rabbioso ronzio, e la visione fu offuscata da un frenetico battere d’ali. Indietreggiò istintivamente, poi si rese conto di quel che era accaduto. Krif stava dimostrando ancora una volta la sua avversione per tutto ciò che volava senz’ali.

Per non ferire la bella e stupida creatura, Alvin fermò il robot e rimase in attesa che la furia di Krif si fosse sfogata.

Lui era tranquillamente seduto a un chilometro e mezzo da lì, ma gli attacchi di Krif lo fecero sobbalzare. Fu molto lieto quando Hilvar uscì a studiare la situazione.

All’arrivo del padrone, Krif se ne andò, tra ronzii diffidenti. Nel silenzio che seguì, Hilvar restò per un poco a scrutare il robot. Poi sorrise.

«Salve, Alvin» disse. «Sono contento che tu sia tornato. O sei ancora a Diaspar?»

Non era la prima volta che Alvin provava un senso di invidiosa ammirazione per la prontezza e l’agilità di mente dell’amico.

«No» rispose, chiedendosi intanto se la voce, portata dai robot, sarebbe stata riconoscibile. «Sono ad Airlee, non molto lontano da te. Ma per il momento non mi muoverò da dove sono.»

Hilvar rise.

«Non hai torto. Seranis ti ha perdonato, ma l’Assemblea… non direi.

Proprio in questo momento si sta organizzando una riunione, la prima che si sia mai tenuta a Lys.»

«Vuoi dire che si sono riunite tutte le autorità? Con i vostri poteri telepatici, avrei scommesso che le riunioni fossero un fatto superato.»

«Sono rarissime, ma a volte avvengono. Tre senatori sono già arrivati e gli altri saranno qui da un momento all’altro.»

Alvin non poté fare a meno di sorridere. La situazione era dunque identica a quella di Diaspar. Dovunque andasse, si lasciava alle spalle allarmi e preoccupazioni.

«Hilvar, sarebbe bene che io parlassi a quelli dell’Assemblea, restandomene qui al sicuro, naturalmente.»

«Se l’Assemblea promette di non forzare le tue facoltà mentali, puoi fidarti a venire di persona. In caso contrario, resta dove sei. Ora penso io ad accompagnare il robot dai senatori… Voglio proprio vedere le loro facce.»

Alvin, addirittura entusiasta, seguì Hilvar all’interno della casa. Stava per incontrare i reggitori di Lys su un piede di parità; non serbava alcun rancore per quella gente, ma era piacevole sentirsi padrone della situazione e appoggiato da forze che lui solo poteva controllare.


Le porte della sala dove si svolgeva la conferenza erano chiuse. Hilvar dovette chiedere ripetutamente che gli aprissero. Le menti dei senatori sembravano profondamente assorte, e fu difficile distoglierli dai loro pensieri. Poi le pareti si aprirono, e Alvin fece avanzare rapidamente il robot fino al centro della sala.

I tre senatori restarono impietriti mentre il robot fluttuava verso di loro.

Solo Seranis non si mostrò troppo sorpresa. Forse il figlio l’aveva avvertita, o forse si aspettava da un momento all’altro che Alvin ritornasse.

«Buonasera» fece Alvin compitissimo, come se quel modo di presentarsi fosse il più naturale del mondo. «Ho pensato bene di ritornare.»

La sorpresa dei tre superava qualsiasi previsione. Il senatore più giovane, un bell’uomo coi capelli grigi, fu il primo a riaversi.

«Come siete venuto?» balbettò.

La ragione di quello sbalordimento era logica. Lys, proprio come Diaspar, aveva messo fuori uso la sotterranea.

«Con lo stesso sistema dell’altra volta» spiegò Alvin, per divertirsi un po’ a spese loro.

Gli altri due senatori fissarono il primo, che spalancò le braccia in un gesto di perplessità e di costernazione. Il più giovane parlò di nuovo.

«Non avete incontrato… difficoltà?»

«Per niente» ribatté Alvin, deciso ad aumentare la loro confusione. «Sono tornato» riprese «di mia spontanea volontà, perché ho importanti notizie per voi. A ogni modo, in considerazione del risentimento che mi dovete portare, preferisco starmene in disparte. Mi promettete di non forzare la mia volontà, se vengo di persona?»

Nessuno parlò. Il gruppetto si stava evidentemente consultando. Infine Seranis rispose per tutti. «Non cercheremo di ostacolarvi… tanto più che, finora, non ci è servito molto.»

«Benissimo. Sarò ad Airlee il più presto possibile.»

Aspettò che il robot fosse di ritorno; poi, con molta precisione, gli diede le istruzioni e se le fece ripetere. Seranis, si poteva star certi, non gli avrebbe mancato di parola; ma era sempre meglio proteggersi la ritirata.

Uscì dallo scafo. Un attimo dopo ci fu un sibilo, una sagoma scura si stagliò contro il cielo, e la nave sparì in lontananza.

Quando lo scafo fu scomparso, Alvin si rese conto di aver fatto uno sbaglio. Uno di quegli sbagli che possono trasformare il piano migliore in un completo disastro. Si era dimenticato che i sensi del robot erano molto più acuti dei suoi, e che la notte si stava facendo sempre più scura. Diverse volte smarrì il sentiero che stava percorrendo e rischiò di urtare malamente contro gli alberi della foresta. A un tratto sentì uno schianto di rami, e da un cespuglio sbucò un grosso animale. Vide due occhi verdi che lo stavano fissando. Si fermò, e una lingua incredibilmente lunga gli raspò il dorso di una mano. Poi sentì un grosso corpo che gli si strofinava amichevolmente contro le gambe. Alla fine l’animale si allontanò, senza aver emesso un solo suono. Non seppe mai che tipo di animale fosse.

Le luci del villaggio cominciarono a filtrare fra gli alberi, ma quella guida non gli occorreva più. Il sentiero sotto i suoi piedi si era mutato in un fiume di luce azzurra, smorzata. Il muschio su cui camminava era luminoso, e i suoi piedi lasciavano chiazze scure che svanivano subito dietro di lui. Uno spettacolo straordinario e affascinante, e quando Alvin si chinò a raccogliere un lembo dello strano muschio, brillò per minuti nella conca delle sue mani prima che la luminosità si spegnesse.

Hilvar gli venne incontro per la seconda volta, e per la seconda volta lo accompagnò dalla madre e dai senatori, che lo salutarono con aria un po’

bellicosa, ma con rispetto. Forse si chiedevano che fine avesse fatto il robot, ma non fecero commenti.

«Sono molto spiacente» cominciò Alvin «per essermi allontanato da voi in modo poco urbano. Vi interesserà sapere che mi è stato altrettanto difficile allontanarmi da Diaspar…» Lasciò che la frase facesse il suo effetto, poi aggiunse subito: «Ho parlato di Lys alla mia gente, facendo del mio meglio per dare un’impressione favorevole. Ma Diaspar non vuole avere niente a che fare con voi. Nonostante tutti i miei bei discorsi, desidera evitare i contatti con una cultura che ritiene inferiore.»

Osservò soddisfatto la reazione dei senatori. Perfino Seranis era impallidita leggermente. «Se riesco a fare in modo che Lys e Diaspar si sentano reciprocamente urtate nella loro suscettibilità» pensava Alvin, «il problema è belle risolto. Saranno così ansiose di provare ciascuna la propria superiorità che le barriere cadranno in quattro e quattr’otto.»

«Perché siete tornato a Lys?» s’informò Seranis.

«Perché voglio convincervi, come vorrei fare con Diaspar, che siete entrambi in errore.» Tacque l’altra ragione, e cioè che a Lys c’era l’unico amico di cui si fidava e di cui aveva bisogno.

I senatori, in silenzio, aspettarono che riprendesse a parlare. Alvin sapeva che, attraverso i loro occhi e le loro orecchie, molte altre intelligenze di Lys erano in ascolto. Era il rappresentante di Diaspar e tutta Lys l’avrebbe giudicato da ciò che avrebbe detto. Sentì tutto il peso della propria responsabilità e raccolse bene le idee prima di procedere.

Il suo tema principale fu Diaspar. Illustrò la città come l’aveva vista l’ultima volta, sognante sull’orlo del deserto, con le sue torri levate al cielo.

Recitò antiche poesie che i poeti avevano scritto in onore di Diaspar, e ricordò gli uomini che avevano speso l’intera vita per abbellire la città. Nessuno, disse, per quanto a lungo potesse vivere, sarebbe mai riuscito a vedere tutti i tesori della città. Ogni giorno c’era qualcosa di nuovo. Poi si soffermò a descrivere le meraviglie che gli uomini di Diaspar avevano costruito, e cercò di far comprendere come le opere di certi artisti fossero state create per l’ammirazione eterna degli uomini. Affermò anche, con un certo orgoglio, che la musica di Diaspar era stato l’ultimo suono della Terra trasmesso verso le stelle.

Lo ascoltarono sino alla fine senza interromperlo, né fare domande.

Quando finì era tardissimo, e si sentiva esausto come non mai. Poi lo sforzo e le emozioni della giornata lo vinsero, e Alvin cadde in un sonno profondo.

Si risvegliò in una stanza sconosciuta, e solo qualche minuto dopo ricordò che non era a Diaspar. A poco a poco la luce aumentò, e alla fine Alvin venne avvolto dai raggi di sole del mattino che filtravano attraverso le pareti trasparenti. Rimase sdraiato pigramente, ricordando tutti gli avvenimenti del giorno precedente, e chiedendosi quali forze poteva aver messo in movimento. Una parete cominciò a scorrere lentamente con un lieve suono, e Hilvar si affacciò nell’apertura. Guardò Alvin con espressione un po’ divertita e un po’ preoccupata.

«Ora che sei sveglio» lo apostrofò «vuoi finalmente dirmi che intenzioni hai e come sei arrivato qui? I senatori sono appena partiti per ispezionare la sotterranea. Non riescono a raccapezzarsi. L’hai usata davvero?»

Alvin balzò dal letto e si stirò pigramente.

«Bene, andiamo a raggiungerli, allora. Non voglio che perdano altro tempo. Quanto alla tua domanda, tra poco ti darò una spiegazione pratica.»

Raggiunsero i senatori presso il laghetto. Ci fu uno scambio di saluti pieni di sussiego. I membri del Comitato di Investigazione erano un po’

seccati che Alvin sapesse dove erano diretti. La cosa li metteva in svantaggio.

«Temo di avervi detto una cosa inesatta, ieri sera» fece allegramente Alvin. «Non sono venuto a Lys col vecchio sistema, per cui la vostra precauzione di chiudere la sotterranea è stata praticamente inutile. A questo proposito vi posso dire che il Consiglio di Diaspar ha preso la stessa precauzione, altrettanto inutile.»

Le facce dei senatori erano un capolavoro di perplessità.

«Ma allora come siete venuto?» chiese il capo. Poi negli occhi dell’uomo passò un lampo. Alvin avrebbe scommesso che il vecchio cominciava a sospettare la verità. Si chiese se per caso l’ordine che aveva emesso mentalmente fosse stato intercettato, ma non disse nulla e si limitò a indicare il cielo.

Con la rapidità del lampo, un ago d’argento descrisse un arco da dietro la montagna, lasciandosi dietro una scia incandescente, e venne a fermarsi in alto, a picco sopra Lys. Non ci fu decelerazione. Non ci fu rallentamento nella pazzesca velocità. Si fermò di scatto, tanto che, da terra gli occhi di coloro che stavano osservando continuarono il movimento per qualche frazione di secondo prima che il cervello registrasse la fermata. Dal cielo venne un fragore di tuono, il sibilo dell’aria spostata dal passaggio violento della nave. Un attimo dopo lo scafo, scintillante e superbo nel sole, si posò sulla collina a neppure cento metri di distanza.

Era difficile dire chi fosse più sorpreso. Alvin, comunque, fu il primo a riprendersi.

Mentre si avviavano quasi di corsa verso la nave, il giovane si chiedeva se, normalmente, la nave viaggiasse con quella velocità da meteora. Il solo pensiero era sconcertante, sebbene, durante il viaggio, il movimento non si avvertisse affatto. La cosa più strana, poi, era che il giorno prima quello scafo era incrostato di terra e sabbia e non era affatto lucente. Alvin, raggiunta la nave, commise l’imprudenza di appoggiare le dita sullo scafo. Si scottò ben bene, ma capì cos’era avvenuto. La crosta di terra si era fusa col calore; solo a poppa se ne vedeva ancora qualche piccola traccia, fusa allo stato di lava. Tutto il resto non c’era più; nulla offuscava lo scafo che né il tempo né le forze della Natura potevano toccare.

Con Hilvar a fianco, Alvin si voltò a guardare i senatori. Cercò di immaginare cosa stessero pensando… o meglio, cosa stesse pensando l’intera Lys. Dalle loro espressioni si sarebbe detto che non riuscissero più nemmeno a pensare.

«Vado a Shalmirane» annunciò. «Sarò di ritorno tra circa un’ora. Ma questo è solo l’inizio dei miei viaggi, e mentre sarò assente vorrei che meditaste su un fatto. La macchina che vedete è una delle più rapide navi spaziali che siano mai state costruite. Se volete sapere come l’ho trovata, andate a Diaspar e scoprirete la risposta. Dovete andarci, perché Diaspar non verrà fino a voi.»


Si volse a Hilvar e gli indicò la porta dello scafo. Hilvar esitò un istante, gettando un’ultima occhiata alla sua terra, poi entrò coraggiosamente nella cabina.

I senatori restarono a fissare la nave che, con minor velocità poiché il percorso sarebbe stato breve, spariva verso sud. Poi l’uomo coi capelli grigi scosse filosoficamente la testa e si girò verso i compagni.

«Vi siete sempre opposti a noi perché volevamo dei cambiamenti» disse.

«Finora avete vinto. Ora però non credo che il futuro possa risiedere in uno solo dei nostri due gruppi. Lys e Diaspar sono giunte ai termine di un’era.»

«Temo che tu abbia ragione» disse uno del gruppo. «Siamo alla crisi, e Alvin sapeva cosa stava dicendo consigliandoci di andare a Diaspar. Ora sanno che esistiamo, quindi è inutile continuare a nasconderci. Ci conviene entrare in contatto con i cugini… Forse li troveremo disposti a cooperare.»

«Ma le due estremità della sotterranea sono bloccate.»

«Noi apriremo la nostra, e fra non molto quelli di Diaspar faranno altrettanto.»

Le menti dei senatori, di quelli presenti ad Airlee e di quelli che si trovavano in punti lontani di Lys, considerarono la proposta. Non l’approvavano, ma non c’era altra alternativa.

Il seme gettato da Alvin aveva dato i suoi frutti molto prima del previsto.


Quando raggiunsero Shalmirane, le montagne erano ancora avvolte nell’ombra. Dall’altezza a cui si trovavano la grande conca della fortezza sembrava una piccola macchia. Si stentava a credere che il destino della Terra fosse un giorno dipeso da quel pozzo scuro.

Quando Alvin fermò la nave tra le rovine si sentì stringere la gola da tanta desolazione. Aprì il compartimento stagno e la quiete irreale di quel posto morto penetrò fin nella cabina. Hilvar, che aveva taciuto quasi sempre durante il viaggio, domandò piano: «Perché sei voluto tornare qui?»

Alvin non rispose finché non ebbero raggiunto la sponda del lago. «Volevo farti provare la nave» disse poi «e inoltre speravo che il polpo fosse tornato in vita. Mi sento in debito verso di lui, devo dirgli cosa ho scoperto.»

«In questo caso dovrai aspettare. Sei tornato troppo presto.»

Alvin se l’era immaginato; la sua speranza era stata così piccola che non si sentiva nemmeno deluso. Le acque del lago erano perfettamente calme.

Si inginocchiò sull’orlo e cercò di scrutare il fondo.

Graziose bollicine trasparenti, munite di tentacoli appena visibili, passavano quasi alla superficie. Alvin immerse la mano e cercò di afferrarne una. Subito la ritirò con un gemito. Era stato punto.

Un giorno, forse tra anni, forse tra secoli, le piccolissime meduse si sarebbero riunite e il gigantesco polpo sarebbe rinato con tutti i suoi ricordi.

Alvin si chiese come avrebbe accolto le scoperte che lui aveva fatto; forse non sarebbe rimasto contento di apprendere la verità sul Maestro. Si sarebbe ribellato all’idea che tutti quei millenni di paziente attesa erano stati inutili.

Inutili davvero, poi? Per quanto delusa potesse restare la creatura, la sua lunga attesa avrebbe avuto una ricompensa. Quasi per miracolo, il polpo aveva salvato dall’oblio fatti che sarebbero rimasti sconosciuti per sempre.

Ora il povero essere poteva riposare, e il suo credo poteva prendere la via di tante altre fedi che un tempo si erano credute eterne.

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