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C’erano volute parecchie ore per uscire dalla Cava dei Vermi Bianchi.

Anche ora, non erano ben certi che qualche pallido mostro non li stesse inseguendo. Avevano le armi quasi scariche, ma dovevano ugualmente seguire la freccia di luce che li aveva guidati misteriosamente nelle viscere della Montagna di Cristallo, anche se, come già era accaduto, rischiavano di trovarsi in mezzo ai più tremendi pericoli.

Alvin si voltò per vedere se i suoi compagni erano ancora con lui. Alystra lo seguiva da presso, portando la sfera di luce fredda ma perenne che aveva rivelato orrori e bellezze fin dal primo momento in cui la loro avventura era cominciata. Il pallido raggio bianco illuminava lo stretto cunicolo e si spandeva sulle pareti fosforescenti. Finché fosse durata l’energia, avrebbero visto dove stavano andando, e scorto la presenza di un qualsiasi pericolo visibile. Ma i più gravi pericoli di quelle caverne, Alvin lo sapeva perfettamente, non erano visibili. Dietro Alystra, curvi sotto il peso dei proiettori, venivano Narillian e Floranus. Alvin si chiese perché mai quei proiettori fossero così pesanti, visto che sarebbe stato tanto semplice provvederli di un neutralizzatore di gravità. Pensava sempre a cose del genere, anche nel bel mezzo della più pericolosa avventura. E quando un pensiero simile gli attraversava la mente, era come se la struttura della realtà vacillasse per un attimo; allora, oltre il mondo dei sensi, gli pareva di cogliere la visione di un universo del tutto differente…

Il corridoio terminava in un muro spoglio. Forse la freccia li aveva ingannati di nuovo? No. A mano a mano che si avvicinavano, la roccia cominciò a sgretolarsi. Nel mezzo della parete fece capolino una sottile punta di metallo che ben presto si allargò divenendo una vite gigante. Alvin e i suoi amici indietreggiarono in attesa che la macchina si aprisse una via nella cava. Con uno stridio assordante provocato dal metallo contro la roccia — che certo doveva ripercuotersi in tutta la montagna, destando gli orribili mostri! — la sotterranea penetrò attraverso la parete e venne ad arrestarsi accanto a loro. La porta massiccia si aprì e Callistron apparve, urlando loro di fare presto. («Perché Callistron?» si domandò Alvin. «Cosa sta facendo in queste caverne?») Un attimo dopo erano in salvo e la macchina balzava in avanti per iniziare il suo viaggio attraverso le profondità della terra.

L’avventura era finita. Tra poco si sarebbero ritrovati a casa; si sarebbero lasciati alle spalle la meraviglia, il terrore, l’eccitazione di quelle ore. Erano stanchi e soddisfatti.

Dall’inclinazione del pavimento, Alvin era certo che la sotterranea stesse penetrando sempre più verso il basso. Callistron sapeva il fatto suo, e quella era senz’altro la via che doveva condurli a casa. Tuttavia era un peccato che…

«Callistron» disse a un tratto «perché non puntiamo verso l’alto? Nessuno sa com’è dall’esterno la montagna di Cristallo. Sarebbe magnifico uscire all’aperto su qualche pendio del monte e vedere il cielo e la terra tutt’attorno. Siamo stati sottoterra anche troppo.»

Com’ebbe pronunciato quelle parole, capì che erano sbagliate. Alystra diede un grido strozzato, l’interno della sotterranea ondeggiò come un’immagine vista attraverso l’acqua, e ancora una volta, al di là delle pareti di metallo che lo circondavano, Alvin colse uno sprazzo di quell’altro universo. I due mondi sembravano in conflitto, e con alterne vicende. Poi, all’improvviso, tutto scomparve. Ci fu un colpo secco, come se qualcosa si fosse lacerato, e il sogno finì. Alvin si ritrovò a Diaspar, nella sua camera, fluttuando di qualche centimetro al di sopra del pavimento poiché il campo gravitazionale lo proteggeva dal contatto opprimente con la materia bruta.

Era di nuovo se stesso. Questa era realtà, e Alvin poteva prevedere esattamente cosa sarebbe accaduto in seguito.

Alystra fu la prima ad apparire. Era più sconvolta che seccata, poiché era innamoratissima di Alvin.

«Oh, Alvin» protestò, fissandolo dalla parete su cui si era apparentemente materializzata. «Era un’avventura così emozionante! Perché l’hai sciupata?»

«Mi spiace, non era mia intenzione. Pensavo solo che sarebbe stata una buona idea…»

Fu interrotto dall’arrivo simultaneo di Callistron e di Floranus.

«Ascolta bene, Alvin» sbottò Callistron. «È già laterzavolta che interrompi una saga. Ieri hai interrotto la sequenza perché volevi uscire dalla Valle dell’Arcobaleno. L’altro ieri, mentre facevamo quel viaggio a ritroso nel tempo, hai sciupato tutto pretendendo di ritornare alle Origini. Se non vuoi attenerti alle regole, d’ora in poi stattene per conto tuo.»

Si dileguò irritatissimo, trascinando Floranus con sé. Narillian non apparve. Probabilmente ne aveva fin sopra i capelli di quelle interruzioni.

L’immagine di Alystra rimase tristemente a fissare Alvin.

Alvin spostò il campo gravitazionale in modo da alzarsi in piedi e si avvicinò al tavolo che aveva materializzato. Un vassoio di frutta esotica apparve sul tavolo. Non era il cibo che desiderava, ma nella confusione del momento la sua mente si era sviata. Non volendo rivelare il suo errore prese uno dei frutti dall’aspetto più rassicurante e cominciò a succhiarlo con cautela.

«Bene» disse infine Alystra. «Che intenzioni hai?»

«Non so cosa farci» rispose lui, scontroso. «Il regolamento è stupido, ecco. E poi come posso tener presenti le regole mentre sto vivendo una saga? Mi comporto nel modo che più mi viene spontaneo. A te non sarebbe piaciuto vedere la montagna?»

Alystra sbarrò gli occhi con orrore.

«Ma questo avrebbe voluto dire portarci all’esterno» balbettò.

Alvin sapeva che era inutile protrarre quella discussione. Lì stava appunto la barriera che lo separava dalla gente del suo mondo, la barriera che lo avrebbe costretto a una vita di delusioni. Sia nella realtà che nel sogno, lui non desiderava altro che uscire all’esterno. Per chiunque altro, a Diaspar, l’«esterno» era un incubo che nessuno aveva il coraggio di affrontare. Evitavano perfino di parlarne: era qualcosa di immondo, di mostruoso. Nemmeno Jeserac, il suo tutore, aveva voluto spiegargli perché.

Alystra lo stava ancora fissando con occhi teneri e ansiosi. «Tu sei infelice, Alvin» sospirò. «Nessuno dovrebbe esserlo a Diaspar. Lasciami venire di persona a parlare con te.»

Poco galantemente, Alvin scosse la testa. Sapeva come sarebbe andata a finire, e in quel momento desiderava restare solo. Doppiamente delusa, Alystra si dileguò.

Tra dieci milioni di abitanti, pensava Alvin, non c’era nessuno con cui poter parlare; Eriston ed Etania gli volevano bene, ma ormai il periodo di custodia stava per scadere, e loro erano ben contenti di lasciarlo libero di scegliersi i propri divertimenti e la propria strada. Negli ultimi anni, a mano a mano che la sua differenza dal modello-standard si era fatta più evidente, aveva spesso avvertito un certo risentimento nei suoi genitori. Non ce l’avevano con lui, ce l’avevano con la sorte che aveva scelto proprio loro, tra tanti milioni di cittadini, per andare a riceverlo quando, vent’anni prima, era uscito dalla Sala di Creazione.

Vent’anni.Ricordava il suo primo istante di vita, le prime parole udite:


«Benvenuto, Alvin. Io sono Eriston, tuo padre designato. E questa è Etania, tua madre». Le parole non avevano significato niente in quel momento, ma il suo cervello le aveva registrate con precisione assoluta. E ricordava il modo in cui aveva contemplato le proprie membra. Era cresciuto di qualche centimetro, da allora, ma per il resto non era cambiato quasi per nulla. Era venuto al mondo già adulto, come aspetto, e sarebbe rimasto quasi immutato fino al momento di tornare al nulla, tra un migliaio d’anni.

Prima di questo ricordo c’era il vuoto. Un giorno, forse, questo vuoto si sarebbe riempito, ma era un pensiero troppo remoto per incidere sulle sue emozioni.

Riportò ancora una volta la mente al mistero della sua nascita.

Non pareva affatto strano ad Alvin d’essere stato creato, in un unico istante di tempo, dalle forze e dalle potenze che materializzavano tutti gli oggetti della vita quotidiana. Il mistero non era quello. L’enigma che lui non era mai stato in grado di risolvere e che nessuno avrebbe mai potuto spiegargli era costituito dalla sua unicità.

Unico.Spesso, ascoltando gli altri senza che se ne accorgessero, si era sentito definire con quell’aggettivo, che gli era suonato leggermente di malaugurio, come se quell’unicità rappresentasse una minaccia per sé e per tutti.

I genitori, il tutore, tutti gli amici avevano cercato di proteggerlo da quella verità, quasi volessero preservare l’innocenza della sua lunga infanzia. Quella finzione stava per cessare: tra pochi giorni sarebbe stato un cittadino di Diaspar, e nessuno avrebbe potuto nascondergli ciò che lui desiderava conoscere.

Perché, per esempio, non riusciva a immedesimarsi nelle saghe? Tra le migliaia di forme di ricreazione che la città offriva, le saghe erano la più popolare. Chi entrava in una saga non era uno spettatore passivo, come accadeva per i rozzi divertimenti di certe ere primitive di cui Alvin aveva sentito parlare. Nelle saghe si era partecipanti attivi, e si possedeva, o sembrava di possedere, una libera volontà. Gli avvenimenti e le scene che formavano il materiale vivo delle avventure poteva essere stato preparato molto tempo prima da artisti dimenticati, ma avevano sufficiente flessibilità da permettere ampie variazioni. Si entrava in un mondo immaginario con i propri amici, provando emozioni che Diaspar non offriva, e finché la finzione durava non era assolutamente possibile distinguere il sogno dalla realtà. Del resto, chi poteva essere certo che Diaspar stessa non fosse un sogno?


Nessuno avrebbe potuto vivere tutte le saghe che erano state concepite e registrate dal giorno in cui avevano fondato la città. Vi si trovavano tutte le emozioni, e vi giocavano tutte le sfumature. Alcune, le più popolari tra i giovanissimi, erano semplici drammi di avventura e scoperta. Altre erano di pura esplorazione degli stati psicologici. Altre ancora erano esercizi di logica o di matematica che potevano offrire grande soddisfazione alle menti più sofisticate.

Ma, per quanto le saghe sembrassero soddisfare i suoi compagni, lasciavano in Alvin un senso di insoddisfazione. Nonostante il loro colore, le avventure emozionanti, la varietà di soggetti e di ambienti, mancavano di qualcosa.

Le saghe, concluse Alvin, non approdavano a niente. Erano tracciate su schemi troppo esili. Non c’erano le ampie distese, gli sterminati paesaggi di cui la sua anima aveva bisogno. Soprattutto, non vi si coglieva nemmeno un barlume di quell’immensità che gli antichi uomini avevano esplorato, il vuoto luminoso tra le stelle e i pianeti. Gli artisti che avevano creato le saghe dovevano aver sofferto della stessa fobia che attanagliava tutti i cittadini di Diaspar. Anche le avventure più fantastiche avvenivano in ambienti circoscritti: caverne sotterranee, o piccole valli circondate da montagne che escludevano alla vista tutto il resto del mondo.

C’era un’unica spiegazione. In tempi remotissimi, forse prima ancora che Diaspar esistesse, era accaduto qualcosa che aveva distrutto l’ambizione e la curiosità dell’Uomo, scacciandolo dalle stelle e costringendolo a rifugiarsi nell’ultima città della Terra. L’uomo aveva rinunciato all’Universo ed era tornato al grembo artificiale di Diaspar. Quell’aspirazione invincibile, che un giorno l’aveva portato alla galassia e alle nebbiose isole che si estendevano oltre, si era spenta. Da innumerevoli cicli cosmici nessuna nave spaziale aveva più esplorato il Sistema solare; forse lassù, tra le stelle, i discendenti dell’Uomo stavano ancora costruendo Imperi, o trascinando soli nella rovina.

La Terra non lo sapeva, né si curava di saperlo. Ma Alvin sì.

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