12

Alvin si svegliò nel cuore della notte. Qualcosa l’aveva disturbato, un leggero rumore che era arrivato fino a lui nonostante il frastuono incessante della cascata. Si mise a sedere nel buio, cercando di scrutare la penombra e tendendo l’orecchio allo scroscio dell’acqua e ai rumori appena percettibili e fuggevoli degli animali notturni.

Non si vedeva niente. La luce delle stelle non bastava a illuminare i chilometri di paesaggio che si stendevano centinaia di metri più in basso. Soltanto la linea più scura, frastagliata, che nascondeva le stelle del sud indicava dov’erano le montagne. Accanto a lui, Hilvar si girò su un fianco e si appoggiò sul gomito.

«Che c’è?» bisbigliò.

«Mi sembra di sentire un rumore.»

«Che rumore?»

«Non so. Forse mi sono sbagliato.»

Nel silenzio, due paia d’occhi scrutarono il mistero della notte. All’improvviso Hilvar afferrò il braccio di Alvin.

«Guarda!» sussurrò.

A sud, lontano, scintillava un solitario punto luminoso, troppo basso nel cielo per essere una stella. Mentre guardavano, si fece sempre più intenso, fino a che l’occhio non riuscì più a fissarlo. Poi esplose… Fu come se un fulmine avesse colpito gli estremi confini del mondo. Per un attimo le montagne si orlarono di fuoco contro il buio del cielo. Passò un’eternità prima che si udisse il fantasma di un’esplosione lontana, e un’improvvisa raffica di vento agitò gli alberi dei boschi sottostanti. Poi, tutto tornò tranquillo e, una alla volta, le stelle si riaccesero nel cielo.

Per la seconda volta in vita sua, Alvin conobbe la paura. Non un sentimento personale e imminente quale aveva provato nella sala dei veicoli sotterranei, quando aveva preso la decisione che lo aveva portato a Lys.

Forse, più che paura adesso era stupore. Stava fissando l’ignoto, ed era come se avesse avuto la certezza che oltre quelle montagne c’era qualcosa da scoprire.

«Cos’era?» mormorò.

«Sto cercando di scoprirlo» fece Hilvar, e si richiuse nel silenzio. Alvin immaginò quel che stava tentando di fare e non volle disturbarlo.

Infine Hilvar diede un sospiro di disappunto. «Dormono tutti. Non c’è nessuno che mi possa rispondere. Dobbiamo aspettare che sia mattina. Potrei svegliare qualcuno, ma non voglio farlo senza una ragione veramente importante.»

Alvin si chiese cosa intendesse Hilvar per ragione importante. Stava per ribattere, con un certo sarcasmo, che quello gli sembrava proprio il caso di interrompere il sonno di qualcuno, ma Hilvar lo prevenne.

«Ora ricordo» disse, quasi in tono di scusa. «È molto tempo che non vengo da queste parti e non sono sicuro del mio orientamento. Ma quella dev’essere Shalmirane.»

«Shalmirane! Esiste ancora?»

«Sì. Me n’ero quasi dimenticato. Una volta Seranis mi ha detto che la fortezza è laggiù, tra quelle montagne. È in rovina da tempo immemorabile, si sa, ma potrebbe esserci ancora qualcuno.»

Shalmirane! Per i figli delle due razze, così diverse tra loro per cultura e per storia, quel nome aveva lo stesso suono magico. Tutta la storia del mondo non conosceva un fatto epico più grande della battaglia di Shalmirane contro l’invasore che aveva conquistato tutto l’Universo. Per quanto i fatti veri si fossero completamente persi nella nebbia che aveva avvolto l’Alba del Mondo, le leggende non erano mai state dimenticate, e avrebbero resistito finché l’Umanità fosse vissuta.

La voce di Hilvar si fece nuovamente sentire nel buio.

«Quelli che abitano al sud potrebbero dirci qualcosa di più. Ho diversi amici in quella zona. Domani mattina li chiamerò.»

Alvin non lo stava quasi ascoltando. Si era immerso nei suoi pensieri e cercava di ricordare tutto ciò che aveva sentito su Shalmirane. Era pochissimo, purtroppo. Dopo l’immenso periodo di tempo trascorso, nessuno poteva ricavare la verità da una leggenda. Ma una cosa era certa: la battaglia di Shalmirane aveva segnato la fine delle conquiste dell’Uomo e l’inizio del suo lungo declino.


Tra quelle montagne, pensava Alvin, giaceva forse la risposta a tutti i problemi che lo tormentavano.

«Quanto ci vuole per raggiungere la fortezza?»

«Non ci sono mai stato, ma è molto lontano. Non credo che ce la faremmo in un giorno.»

«Possiamo usare la vettura?»

«No. Sono strade di montagna, nessun mezzo può arrivarci.»

Alvin rimase soprappensiero. Era stanco, aveva i piedi indolenziti, e i muscoli delle gambe erano ancora affaticati per l’insolito sforzo compiuto.

Era quasi tentato di rimandare il viaggio a un’altra volta. Ma forse non ci sarebbe stata un’altra volta…

Sotto la debole luce delle stelle cadenti — quante stelle erano morte dal giorno in cui era stata fondata Shalmirane! — Alvin prese la sua decisione.

Niente era cambiato. Le montagne avevano ripreso la loro guardia sulla pianura addormentata. Ma la svolta decisiva della storia era stata superata.

L’Umanità si stava muovendo verso un nuovo, strano futuro.

Alvin e Hilvar non dormirono più per quella notte, e alle prime luci dell’alba levarono il campo. La collina era umida di rugiada e Alvin ammirò stupito le goccioline luccicanti che piegavano i fili d’erba e le foglie.

Quando ripresero il cammino, il fruscio dei passi sull’erba bagnata lo affascinò. Guardando indietro verso la cima della collina, vedeva il sentiero che si erano lasciati alle spalle: era simile a un nastro nero disteso in mezzo a un prato luccicante. Il sole si era appena alzato sulle mura a oriente di Lys quando raggiunsero il limite della foresta. Qui, la Natura era tornata primitiva. Perfino Hilvar sembrava un po’ smarrito tra gli alberi giganteschi che impedivano alla luce di filtrare, creando grandi macchie d’ombra sul terreno della giungla. Dalia cascata, il fiume scendeva verso sud con un percorso troppo rettilineo per essere naturale, e camminando sulla riva riuscirono a evitare il più denso groviglio di piante. La più grande preoccupazione di Hilvar era quella di badare a Krif, che a volte spariva nella giungla, o si lanciava in volo sulle acque. Alvin, per il quale tutto era novità, notò che la foresta aveva un fascino diverso da quelle più piccole e più curate che si stendevano a nord. Poche piante erano identiche fra loro. Per lo più si trovavano a diversi stadi di involuzione, e alcune, durante i millenni, erano tornate alla loro forma originale. Parecchie non erano della Terra… e forse neppure del Sistema solare. Sulle piante più piccole si ergevano come sentinelle le gigantesche sequoie, che superavano i cento metri di altezza. Una volta erano state definite le più vecchie forme di vita della Terra, e riuscivano ancora a essere più anziane dell’Uomo.

Il fiume si allargava sempre più, formando ogni tanto piccoli laghi con minuscole isole. Molti erano gli insetti, creature a colori vivaci, che volavano disordinatamente sull’acqua. Una volta, nonostante gli ordini di Hilvar, Krif si allontanò veloce per andarsi a unire a un gruppo di lontani cugini. Scomparve all’istante in una nuvola di ali scintillanti, e nell’aria si sparse un ronzio rabbioso. Un attimo dopo la nuvola si aprì e Krif ne uscì di scatto, volando verso di loro a velocità vertiginosa. Da quel momento rimase sempre vicino a Hilvar, e non fece altri tentativi di cercare nuove amicizie. Verso sera, i due giovani riuscirono a intravedere di nuovo le montagne. Il fiume, la loro guida preziosa, scorreva ora pigramente, come se si stesse preparando al riposo della notte. Era chiaro comunque che loro non sarebbero riusciti a raggiungere le montagne prima del calar del sole.

La foresta, ancora prima che facesse buio, si era avvolta d’ombra e un vento freddo aveva cominciato a soffiare tra le foglie.

I due esploratori si accamparono sotto una sequoia gigante i cui rami più alti erano illuminati dai raggi del sole.

Quando il sole calò dietro le montagne, sulle acque danzanti del fiume rimase per un poco una certa luce. I due esploratori, perché tali si consideravano, e in fondo lo erano, si misero ad aspettare la notte, osservando il fiume e pensando a tutto ciò che avevano visto. Alvin stava riprovando quel delizioso torpore che aveva conosciuto la notte precedente, e assaporò la gioia di concedersi al sonno. Nella vita senza fatiche di Diaspar era inutile dormire, ma qui diventava indispensabile. Proprio nel momento in cui stava per chiudere gli occhi si chiese chi fosse stato l’ultimo essere umano a percorrere quel cammino, e quanto tempo prima.

Il sole era alto quando lasciarono la foresta e si fermarono ai piedi delle montagne che formavano le mura di Lys. Davanti a loro, la roccia s’inerpicava verso l’alto con ripidi strapiombi. Il fiume terminava in modo spettacolare, come quando era apparsa di colpo la cascata: il terreno si apriva, e le acque del fiume scomparivano rombando nel sottosuolo. Alvin cercò di immaginare attraverso quali caverne sotterranee scorresse prima di riemergere alla luce del giorno. Forse gli oceani della Terra esistevano ancora, persi nella profondità, e il vecchio fiume sentiva ancora il richiamo che lo portava al mare.

Hilvar rimase per qualche istante a osservare i gorghi e il terreno selvaggio che si stendeva attorno, poi indicò un passaggio tra i monti. «Shalmirane è in quella direzione» affermò. Alvin capì che Hilvar si era messo mentalmente in contatto con qualcuno dei suoi amici.

Non ci volle molto per raggiungere il passaggio, e quando l’ebbero attraversato si trovarono in vista di un altopiano i cui lati salivano con dolce pendenza. Ora Alvin non provava più stanchezza né paura, solo un’ansia tesa per la rivelazione vicina. Non riusciva a immaginare cosa avrebbe scoperto. Ma sul fatto che avrebbe finito per scoprire qualcosa non c’erano dubbi. Mentre si avvicinavano alla cima, la natura del suolo cambiò bruscamente. Ai piedi della montagna il pendio era stato di pietre vulcaniche, porose, accumulate qua e là in grossi mucchi. Ora la superficie si era fatta dura, lucida, e pericolosamente levigata, come se un tempo la roccia fusa fosse corsa a fiumi giù per la montagna.

Giunsero a pochi passi dalla cima.

Hilvar fu il primo a balzare sull’orlo dell’altopiano. Alvin lo raggiunse e si fermò stupito al suo fianco. Non erano sul ciglio di un altopiano, come immaginavano, ma sull’orlo di un gigantesco cratere, profondo un chilometro e mezzo e con più di quattro chilometri di diametro. Davanti a loro il terreno scendeva ripido, livellandosi leggermente verso il fondo della buca per poi risalire dalla parte opposta. La parte più bassa della conca era occupata da un laghetto circolare la cui superficie tremava continuamente, come se fosse agitata da onde incessanti.

Sebbene fossero completamente illuminate dal sole, le pareti interne erano nere come l’ebano. Alvin e Hilvar non riuscivano nemmeno a immaginare di quale materiale fosse composto il cratere, ma era nero, come roccia di un mondo che non ha mai conosciuto la luce del sole. Ma la cosa più strana era la fascia di metallo che ne orlava la bocca. Era larga circa trenta metri, annerita dal tempo, ma non mostrava il minimo segno di corrosione.

A mano a mano che i loro occhi si abituavano alla scena, Alvin e Hilvar si accorsero che il nero della conca non era così assoluto come era sembrato al primo momento. Qua e là, piccoli sprazzi di luce si accendevano rapidissimi sulle pareti di ebano. E svanivano immediatamente come stelle che si riflettessero su un mare agitato.

«È meraviglioso!» mormorò Alvin. «Ma cos’è?»

«Sembra una specie di riflettore.»

«Ma è così nero!»

«Solo ai nostri occhi, non dimenticarlo. Non sappiamo che genere di radiazioni usassero.»

«Ma ci dev’essere qualcos’altro. Dov’è la fortezza?»

Hilvar indicò il lago. «Guarda bene.»


Alvin fissò la superficie increspata del lago, cercando di carpire il segreto nascosto in quelle acque. Dapprima non vide nulla; poi, vicino agli orli, distinse un debole reticolo di luce e ombra. Riuscì a seguirne lo schema fino al centro del lago, dove andava a perdersi nell’acqua più profonda.

Il lago scuro aveva sommerso la fortezza. Laggiù giacevano le rovine di edifici una volta potenti, ora sopraffatti dal tempo. Ma non tutto era stato sommerso, perché sull’altro lato del cratere Alvin scorse mucchi di pietre e grossi blocchi che un tempo avevano fatto parte delle massicce pareti.

L’acqua le lambiva, ma non era ancora riuscita a ingoiarle del tutto e completare la sua vittoria.

«Facciamo il giro del lago» propose Hilvar, parlando sottovoce, come se la maestosa desolazione lo intimorisse. «Forse troveremo qualcosa fra quelle rovine laggiù.»

Per i primi cento metri la discesa era così ripida e liscia che fu difficile tenersi in piedi; ma ben presto giunsero dove il declivio si raddolciva, e poterono camminare senza difficoltà. Vicino alle sponde del lago la superficie d’ebano levigato era coperta da un sottile strato di terriccio, forse portato dal vento di secoli. Poche centinaia di metri più in là, titanici blocchi di pietra erano accumulati l’uno sull’altro, come balocchi abbandonati da un bambino gigante. Qui si riconosceva ancora una massiccia sezione di parete; là, due obelischi scolpiti indicavano un’antica porta. Dovunque crescevano piante rampicanti e muschio. Anche il vento sembrava soffiare sottovoce.

Così Alvin e Hilvar raggiunsero le rovine di Shalmirane. Contro quelle mura, e contro le energie che esse contenevano, avevano tuonato e fiammeggiato forze capaci di ridurre in polvere un intero mondo, ed erano state sconfitte. Un tempo, in quel cielo tranquillo avevano brillato fuochi strappati al cuore di antichi soli, e le montagne di Lys dovevano aver tremato come creature vive sotto la furia dei loro padroni.

Nessuno aveva mai espugnato Shalmirane. Ora, però, la fortezza, l’inespugnabile fortezza, era vinta dai pazienti viticci dell’edera, dalle generazioni dei vermi, dalla lenta crescita delle acque del lago.

Attoniti di fronte a tanta maestà, Alvin e Hilvar camminavano in silenzio verso le colossali rovine. Passarono sotto l’ombra di un muro diroccato e scesero in un canalone fiancheggiato da massi enormi. Davanti a loro si stendeva il lago. Andarono a fermarsi dove l’acqua scura già lambiva i loro piedi. Piccole onde venivano a rompersi incessantemente sulla riva.

Hilvar fu il primo a parlare. Nella sua voce c’era una nota d’incertezza che spinse Alvin a guardarlo sorpreso.

«C’è qualcosa che non capisco» disse lentamente. «Non ce vento. Perché allora queste increspature? L’acqua dovrebbe essere perfettamente calma.»

Alvin non ebbe tempo di formulare una risposta. Hilvar si era gettato in ginocchio col capo piegato, e aveva immerso l’orecchio destro nell’acqua.

Alvin si domandò cosa sperasse di scoprire in quella ridicola posizione, poi si rese conto che stava ascoltando. Dopo un attimo di esitazione, Alvin seguì l’esempio dell’amico.

La sensazione di gelo durò pochi secondi; poi il giovane cominciò a sentire, debole ma distinta, una pulsazione continua, ritmica. Era come se dalle profondità del lago salisse il battito di un cuore gigante.

I due si rialzarono e si fissarono in silenzio. Nessuno osava dire ciò che pensava, cioè che il lago era vivo.

«Sarebbe meglio» fece infine Hilvar «se cercassimo tra le rovine, tenendoci lontani dal lago.»

«Credi che ci sia qualcosa laggiù?» domandò Alvin indicando le misteriose onde che si frangevano ai piedi. «Qualcosa di pericoloso?»

«Niente che possegga una mente può essere pericoloso» rispose Hilvar («Sarà vero?» pensò Alvin. «E gli Invasori, allora?») «Non riesco a captare nessun pensiero, qui, eppure ho la sensazione che non siamo soli. È molto strano.»

Tornarono lentamente verso le rovine, senza riuscire a scacciare dalla mente l’eco di quel battito sordo. Pareva ad Alvin che il mistero andasse facendosi sempre più fitto, e che ogni sforzo lo allontanasse ancora di più dalla verità che cercava.

Non sembrava che quelle rovine potessero dire loro qualcosa, ma frugarono con cura fra i cumuli di macerie e di sassi. Lì, forse, era nascosta la tomba di macchine misteriose… quelle macchine che erano state in funzione molto tempo prima. Nel caso di un ritorno degli Invasori, pensò Alvin, le macchine sarebbero state inservibili. Perché non erano più tornati? Questo era un altro mistero. Ma aveva già troppi problemi da risolvere, per cercarne altri.

A pochi metri dal lago trovarono una piccola spianata fra i sassi. Un tempo era coperta d’erba che ora appariva tutta bruciacchiata e carbonizzata. Al centro della radura c’era un treppiede di metallo, ben infisso nel terreno, che reggeva un anello circolare inclinato sul proprio asse in modo da esser rivolto verso un punto a mezza via tra la terra e il cielo. In un primo momento parve che l’anello non racchiudesse nulla; poi, dopo un esame più attento, Alvin vide che vi gravitava dentro una sostanza evanescente che affaticava l’occhio vibrando all’orlo dello spettro visivo. Era il riverbero della potenza che emanava da quei meccanismi, Alvin ne era certo. Da lì doveva essersi prodotta l’esplosione di luce che li aveva condotti a Shalmirane.

Non osarono avvicinarsi e restarono a guardare la macchina da una prudente distanza. Erano su una buona strada; ora non restava che scoprire chi, o cosa, avesse sistemato là l’apparecchio, e con quale scopo. L’anello puntava chiaramente verso lo spazio. Forse la luce che avevano scorto era una specie di segnale? Quella possibilità implicava preoccupanti ipotesi.

«Alvin» fece all’improvviso Hilvar «abbiamo visite.»

Alvin si girò sui talloni. Vide tre occhi senza ciglia, disposti a triangolo, che lo fissavano. Quella, per lo meno, fu la sua prima impressione; poi dietro gli occhi scorse la sagoma di una piccola macchina, molto complessa.

Fluttuava nell’aria a poche decine di centimetri dal suolo e differiva da qualsiasi robot che avesse mai visto.

Passato il primo momento di sorpresa, Alvin si sentì padrone della situazione. Per tutta la vita aveva dato ordini alle macchine, e il fatto che questa gli fosse sconosciuta aveva poca importanza. Del resto aveva visto soltanto una piccola percentuale dei tipi di robot che in città provvedevano a tutti i fabbisogni giornalieri.

«Puoi parlare?» chiese.

Silenzio.

«Qualcuno ti controlla?»

Ancora silenzio.

«Allontanati. Avvicinati. Alzati. Abbassati.»

Nessuno dei comandi convenzionali produceva alcun effetto. La macchina restava sprezzantemente immobile. C’erano due possibilità: o era priva di intelligenza o era troppo intelligente, dotata inoltre di volontà e di capacità di scelta. In questo caso bisognava trattarla da pari a pari. L’aveva forse sottovalutata, ma essa non gli avrebbe serbato nessun rancore, perché la presunzione non è un difetto dei robot.

Hilvar non poté fare a meno di ridere davanti all’aria sconfitta di Alvin.

Stava per proporgli di lasciargli fare un tentativo, ma le parole gli morirono sulle labbra. Il silenzio di Shalmirane fu rotto da un suono inconfondibile: il rumoroso gorgoglio di un corpo enorme che emerge dall’acqua.

Per la seconda volta da che aveva lasciato Diaspar, Alvin desiderò essere a casa. Poi si ricordò che quello non era lo spirito adatto per affrontare un’avventura, e si mosse risolutamente verso il lago.

L’essere che stava uscendo dall’acqua sembrava la mostruosa copia, in sostanza vivente, del robot che continuava a tenerli sotto il suo silenzioso controllo. Lo stesso triangolo d’occhi non poteva essere una pura coincidenza; perfino lo schema di tentacoli e piccoli arti snodabili era stato rozzamente riprodotto. La rassomiglianza, però, non era assoluta. Il robot non possedeva, poiché non ne aveva bisogno, la frangia di palpi pelosi che battevano l’acqua con ritmo regolare, le numerose zampe tozze sulle quali la bestia cercava di trascinarsi a terra, né le valvole respiratorie, ammesso che fossero tali, che ora ansimavano aspirando l’aria.

La maggior parte del corpo del mostro era ancora sommersa; solo la parte superiore si rizzava verso l’aria con uno sforzo che dimostrava quanto l’elemento gli fosse estraneo. L’essere misurava circa quindici metri, e non occorreva possedere alcuna cognizione di biologia per comprendere quanto fosse anormale. Aveva tutta l’aria di una cosa improvvisata senza logica, come se le parti fossero state prodotte senza pensarci troppo e accostate fra loro a casaccio.

Né Alvin né Hilvar provarono il più leggero senso di sgomento quand’ebbero esaminato l’abitante del lago. Il mostro aveva un aspetto così sconclusionato che era impossibile considerarlo pericoloso. La specie umana aveva da lungo tempo imparato a superare il terrore infantile di ciò che si presenta orrido alla vista. Era una paura che dopo i primi amichevoli contatti con le razze extraterrestri non poteva più sussistere.

«Lascia che me ne occupi io» disse Hilvar. «Sono abituato a trattare con gli animali.»

«Ma questo non è un animale» bisbigliò Alvin di rimando. «Scommetto che è intelligente e che il robot è suo.»

«O il robot possiede lui. Comunque, deve avere una mentalità molto strana. Non riesco a intercettare nessuna traccia di pensiero. Ciao… Che succede?»

Il mostro non si era mosso dalla sua posizione, ma una membrana semi-trasparente aveva cominciato a formarsi al centro del suo triangolo d’occhi, una membrana che pulsava e tremava e che tutta un tratto prese a emettere dei suoni. Erano suoni bassi, gutturali, e creavano parole inintelligibili, sebbene fosse facile capire che l’essere stava cercando di comunicare.

Era doloroso assistere a quel disperato tentativo di esprimersi. Il mostro si agitò invano per parecchi minuti, poi parve rendersi conto di non aver ottenuto nulla. La membrana si contrasse ed emise suoni più alti di parecchie ottave di frequenza che rientrarono nello spettro del linguaggio normale. Cominciarono a formarsi vere parole, se pure inframmezzate da mugolii inarticolati. Era come se la creatura stesse cercando di ricordare suoni imparati molto tempo prima, ma che non aveva avuto occasione di adoperare da molti anni.

Hilvar fece del suo meglio per aiutarla.

«Ora riusciamo a capirti» disse, parlando con lentezza e marcando le sillabe. «Possiamo fare qualcosa per te? Abbiamo visto la luce. Ci ha portato qui da Lys.»

Alla parola «Lys» l’essere parve afflosciarsi come per un’amara delusione.

«Lys» ripeté. «Sempre Lys. Non viene mai nessun altro. Noi chiamiamo i Grandi ma loro non ci odono.»

«Chi sono i Grandi?» chiese Alvin, chinandosi in avanti. I palpi frangiati si stesero fremendo verso il cielo.

«I Grandi. Dai pianeti del giorno eterno. Verranno. Il Maestro che l’ha promesso.»

Questo non aiutava per niente a mettere le cose in chiaro. Prima che Alvin potesse riprendere il suo interrogatorio, Hilvar intervenne. Le sue domande erano così pazienti, così incoraggianti e tuttavia così penetranti che Alvin preferì non interromperlo. Soffocò la sua impazienza. Gli seccava ammettere che Hilvar gli fosse superiore come intelligenza, ma non c’era dubbio che la sua abilità nel trattare con gli animali fosse eccezionale. Perfino quell’essere fantastico riusciva a rispondergli. La sua parlata si faceva più distinta col procedere della conversazione. Ora le risposte erano più elaborate, e il mostro aggiungeva informazioni spontanee.

Alvin perse la cognizione del tempo mentre Hilvar ricostruiva l’incredibile storia. Non riuscirono a scoprire l’intera verità. Rimanevano ampie lacune su cui fare congetture e discussioni. Il mostro rispondeva di buon grado alle domande di Hilvar, ma il suo aspetto aveva cominciato a mutare. Era affondato un poco nel lago, e le gambe che io sorreggevano si erano come ritratte nel resto del corpo. A un tratto avvenne un cambiamento anche più sconcertante: i tre grandi occhi si chiusero, si raggrinzirono, e sparirono del tutto, come se la creatura avesse visto tutto ciò che desiderava vedere per il momento, e ormai non avesse più bisogno degli occhi.

Alterazioni quasi impercettibili si susseguivano continuamente. Ormai alla superficie dell’acqua non restava che il diaframma vibrante per mezzo del quale il mostro si esprimeva. Senza dubbio anche quel diaframma, quando ne fosse cessata l’utilità, sarebbe tornato alla massa amorfa originale di protoplasma.

Alvin stentava a credere che in una forma così instabile potesse risiedere un’intelligenza, ma la sorpresa più grande doveva ancora venire. Sebbene fosse evidente che la strana creatura non era di origine terrestre, perfino Hilvar, con tutta la sua conoscenza della biologia, impiegò parecchio tempo prima di rendersi conto che l’organismo con cui stava parlando non era una singola entità. L’essere si era espresso sempre riferendosi a «noi»: infatti non era altro che una colonia di esseri indipendenti, organizzata e controllata da forze sconosciute.

Animali di tipo vagamente simile, le meduse, ad esempio, erano un tempo esistiti negli antichi oceani della Terra. Alcuni erano stati di grandi dimensioni, con corpi traslucidi e foreste di tentacoli e di ventose, ma nessuno aveva mai posseduto un guizzo d’intelligenza, a parte alcune reazioni a stimoli elementari.

Qui c’era un’intelligenza, anche se debole e in declino. Alvin non doveva mai più dimenticare quell’incontro assurdo, con Hilvar che ricostruiva lentamente la storia del Maestro, il polpo che tentava di emettere parole umane, il lago torbido che lambiva le rovine di Shalmirane, e il robot che li fissava con i suoi tre occhi.

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