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Il compimento di un’impresa porta con sé una tristezza particolare: la sospirata meta è ormai raggiunta, la vita deve volgersi verso nuovi obiettivi.

E Alvin, oppresso da quella tristezza, gironzolava solo per i boschi e i campi di Lys. Nemmeno Hilvar lo accompagnava: ci sono momenti in cui si sente il bisogno di appartarsi anche dall’amico più caro.

Alvin andava a zonzo, senza sapere a quale villaggio sarebbe arrivato.

Non cercava un luogo in particolare, ma piuttosto un’idea, un’ispirazione, un modo di vita. Diaspar non aveva più bisogno di lui. I fermenti che aveva introdotto nella città stavano avendo il loro sviluppo, e più niente avrebbe potuto accelerare o ritardare i cambiamenti che stavano avvenendo.

Quella terra tranquilla sarebbe cambiata. Spesse volte si domandò se aveva fatto bene a soddisfare la sua curiosità e a riaprire la vecchia via tra le due culture. Certo era un bene che Lys avesse potuto conoscere l’intera verità. Come Diaspar, anch’essa si fondava in parte sulle paure e sulle false teorie.

Ogni tanto si metteva a fantasticare su quella che sarebbe stata la società del domani. Era certo che Diaspar sarebbe sfuggita alla prigionìa delle Banche Memoria e avrebbe ripreso il ciclo della nascita e della morte. Hilvar gli aveva assicurato che la cosa era possibile. Forse sarebbe venuto di nuovo il momento in cui, a Diaspar, l’amore non sarebbe stato più un concetto bandito.

«Èquesto», si domandava Alvin, «ciò che mi è sempre mancato a Diaspar, ciò che, in fondo, ho sempre cercato?» Ora sapeva che quando il potere e l’ambizione e la curiosità sono soddisfatti, restano pur sempre i desideri del cuore. Nessuno poteva dire di aver veramente vissuto finché non avesse raggiunto quella sintesi di tenerezza e di desiderio di cui Alvin, venendo a Lys, aveva scoperto l’esistenza.

Aveva viaggiato tra i pianeti dei Sette Soli, ed era stato il primo a compiere un’impresa simile dopo milioni e milioni di anni. Eppure tutto questo aveva così poca importanza, ormai; a volte pensava che avrebbe dato volentieri tutte le sue conquiste per poter ascoltare il pianto di un neonato e sapere che era suo figlio.

Un giorno, a Lys, avrebbe forse trovato quel che cercava; c’era un calore e una comprensione, tra quella gente, che mancava a Diaspar. Ma prima di pensare a sé, prima di trovare pace e riposo, c’era ancora una decisione da prendere.

Il destino aveva messo la potenza nelle sue mani. Una potenza che lui possedeva ancora. Era una responsabilità che aveva accettato con gioia, ma ora sapeva che non avrebbe avuto pace. D’altra parte, se avesse rinunciato, sarebbe stato come tradire una fiducia…

Era giunto in un villaggio costruito su graziosi canali, in riva a un grande lago, quando prese la sua decisione. Le case colorate, che sembravano ancorate sull’acqua, formavano uno scenario di una bellezza quasi irreale.

Qui c’era vita, calore, conforto; tutto quel che gli era mancato tra la desolata vastità dei Sette Soli.

Un giorno l’umanità sarebbe stata di nuovo pronta per affrontare lo spazio. Alvin non sapeva quale nuovo capitolo l’Uomo avrebbe scritto tra le stelle. La cosa non lo riguardava; il suo futuro era qui, sulla Terra.

Ma avrebbe fatto un ultimo volo prima di voltare per sempre le spalle agli astri.


Quando Alvin fermò l’astronave, la città era troppo lontana perché vi si riconoscesse l’opera dell’uomo e la curva del pianeta era già visibile. Ora potevano già distinguere la linea del crepuscolo che incendiava per chilometri il deserto. Attorno e sotto di loro brillavano le stelle.

Hilvar e Jeserac tacevano, cercando di scoprire perché Alvin stesse facendo quel viaggio e perché avesse chiesto a loro due di accompagnarlo.

Non avevano voglia di parlare mentre il desolato panorama si allargava sotto di loro. Tanto squallore li opprimeva, e Jeserac sentì un’improvvisa ondata d’ira e di disprezzo per gli uomini del passato che, con la loro indifferenza, avevano lasciato morire la bellezza della Terra.

Sperava che Alvin avesse ragione, che si potesse tornare indietro. La potenza e la scienza esistevano ancora; occorreva solo la volontà di lottare contro l’opera dei millenni per far sì che gli oceani si riempissero di nuovo.

L’acqua c’era, nascosta nelle profondità del suolo. Bisognava riportarla alla superficie o, se necessario, ricorrere a impianti che potessero ricrearla.


Quanto ci sarebbe stato da fare negli anni a venire! Jeserac capiva di trovarsi tra due ere; attorno a lui, il polso dell’umanità già cominciava ad accelerare il battito. C’erano grandi problemi da affrontare, ma Diaspar li avrebbe affrontati. Ricostruire il passato avrebbe richiesto secoli e secoli, ma alla fine l’Uomo avrebbe recuperato tutto quel che aveva perso.

Proprio tutto? Chissà! Forse non sarebbe stato possibile riconquistare la galassia; del resto, a quale scopo?

Alvin interruppe quelle fantasticherie, e Jeserac distolse gli occhi dallo schermo.

«Volevo farvi vedere questo spettacolo» disse Alvin, calmo. «Forse un’occasione del genere non si ripresenterà.»

«Non avrai intenzione di lasciare la Terra, vero?»

«No. Ne ho abbastanza dello spazio. Anche ammesso che nella galassia sopravviva qualche altra civiltà, non credo valga la pena di trovarla. Abbiamo tanto da fare, qui. Ora so che la mia casa è questa, e non ho nessuna intenzione di lasciarla.»

Fissò le grandi distese deserte, ma i suoi occhi vedevano invece le acque che le avrebbero ricoperte tra migliaia di anni. L’Uomo aveva riscoperto il suo mondo; ora gli avrebbe ridonato la bellezza. Poi…

«Non siamo pronti per tornare sulle stelle, e passerà molto tempo prima che si possa accettare di nuovo la loro sfida. Mi sono chiesto cosa avrei dovuto fare di questa astronave; finché resterà sulla Terra, sarò sempre tentato di usarla e non troverò mai pace. D’altra parte non voglio distruggerla; sento che è stata affidata a me e devo usarla per il bene del mondo.

«Ecco cosa ho pensato di fare. La manderò fuori della galassia, col robot come guida, per scoprire cosa ne è stato dei nostri antenati e, se è possibile,cosali ha convinti a lasciare il nostro Universo. Dev’essere stato qualcosa di meraviglioso per indurli ad abbandonare tutto. Il robot non si stancherà, per lungo che possa essere il viaggio. Un giorno i nostri cugini riceveranno il mio messaggio, e sapranno che li stiamo aspettando qui sulla Terra. Ritorneranno, e spero che per quel momento saremo degni di riceverli, per grandi che possano essere diventati.»

Alvin tacque, assorto in un futuro che aveva tracciato ma che forse non avrebbe mai visto. Mentre l’Uomo avrebbe ricostruito il suo mondo, la nave avrebbe attraversato gli spazi oscuri tra le galassie, e tra migliaia di anni sarebbe stata di ritorno. Forse lui sarebbe stato là a riceverla, ma in caso contrario era ugualmente contento.

«La tua decisione è saggia» approvò Jeserac. Poi, un’ultima volta, l’eco di un antico terrore sorse a turbarlo. «E se per ipotesi» aggiunse «la nave entrasse in contatto con qualcuno che preferiremmo non incontrare…» Subito tacque, riconoscendo l’origine di quei timori, e con un sorriso di compatimento rivolto a se stesso scacciò l’ultimo fantasma degli Invasori.

«Dimenticate» ribatté Alvin, che aveva preso sul serio l’obiezione «che ben presto avremo l’aiuto di Vanamonde. Non sappiamo quali poteri abbia, ma pare che siano illimitati. Vero, Hilvar?»

Hilvar non rispose subito. Vanamonde era l’altro grande enigma, un punto di domanda sospeso in eterno sul futuro dell’umanità. L’evoluzione del misterioso essere verso l’autocoscienza era stata accelerata dal contatto continuo coi filosofi di Lys, i quali nutrivano grandi speranze di futura cooperazione con la mente infantile, convinti com’erano di poter sensibilmente diminuire gli eoni richiesti da uno sviluppo naturale.

«Non ne sono certo» confessò poi. «In un certo senso, non credo che ci si debba aspettare molto da Vanamonde. Oggi possiamo essergli d’aiuto, ma ben presto saremo soltanto un incidente passeggero nel suo ciclo vitale.

Non credo che il suo destino abbia a che fare col nostro.»

Alvin lo guardò sorpreso.

«Perché la pensi così?»

«Non saprei spiegartelo. È solo un’intuizione, nient’altro.» Avrebbe potuto aggiungere altre considerazioni, ma preferì tacere. Certe cose non si possono comunicare. Pur sapendo che Alvin non avrebbe certo riso delle sue fantasticherie, preferiva tenerle per sé.

Ma non si trattava solo di una fantasticheria, ne era certo, e quel pensiero l’avrebbe assillato per sempre. Era una certezza indefinibile, balenata alla sua mente durante quell’indescrivibile contatto con Vanamonde. Sapeva forse lo stesso Vanamonde quale sarebbe stato il suo solitario destino?

Un giorno l’energia del Sole Nero si sarebbe esaurita, e il prigioniero sarebbe tornato libero. Allora, al limite dell’Universo, dove il Tempo stesso era fermo, Vanamonde e la Mente Pazza si sarebbero incontrati tra i corpi spenti delle stelle.

Quel conflitto avrebbe scosso tutto il Creato, probabilmente; pure, non avrebbe per nulla riguardato l’Uomo, il quale non ne avrebbe mai conosciuto il risultato finale.

«Guardate!» fece Alvin all’improvviso. «Ecco quello che volevo mostrarvi. Capite quel che significa?»

La nave era a picco sul Polo, e il pianeta sotto di loro era un perfetto emisfero. Jeserac e Hilvar, fissando la cintura di luce crepuscolare, colsero nello stesso istante l’alba e il tramonto sui due lati opposti del globo. Il simbolismo era così perfetto, così impressionante, che per tutta la vita avrebbero portato impresso il ricordo di quell’attimo.


La notte scendeva sull’Universo; le ombre stavano allungandosi verso un oriente che non avrebbe mai più visto l’alba. Ma altrove le stelle erano ancora giovani, altrove si protraeva la luce del mattino; e lungo il sentiero già seguito un tempo, l’Uomo un giorno si sarebbe incamminato di nuovo.


FINE

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