Quando la porta si chiuse dietro di lui, Alvin si lasciò cadere sul sedile più vicino. Le gambe non lo reggevano; ora capiva, per la prima volta, il terrore dell’ignoto che dominava tutti i suoi compagni. La vista gli si annebbiò; tremava. Se avesse potuto fuggire dalla velocissima macchina, l’avrebbe fatto a costo di abbandonare tutti i suoi sogni.
Non era solo paura, era anche un senso di indicibile solitudine. Tutto ciò che conosceva e amava era a Diaspar; anche se non correva alcun pericolo, poteva forse non vedere mai più il suo mondo. Provò, come mai nessun altro aveva provato da secoli, cosa significhi lasciare la propria patria per sempre. In quell’attimo di smarrimento, il fatto di andare forse incontro a dei pericoli non aveva nessuna importanza. Ciò che importava era che si stava allontanando da casa.
A poco a poco si riebbe. Le ombre oscure sgombrarono dalla sua mente, e Alvin cominciò a guardarsi attorno per osservare il veicolo incredibilmente antico sui quale stava viaggiando. Ma non lo stupì il fatto, strano o meraviglioso, che il sistema di trasporto fosse ancora perfettamente funzionante dopo anni di immobilità. Non era conservato nei circuiti di eternità di Diaspar, ma, forse, in qualche altro luogo dovevano esserci circuiti analoghi che gli impedivano di cadere in rovina. Per la prima volta notò che il quadrante indicatore che gli stava di fronte. Portava una scritta breve, ma rassicurante: LYS — 35 minuti.
Mentre guardava, il numero si cambiò in 34. Era un’informazione utile, anche se, non avendo idea della velocità della macchina, non poteva stabilire quale fosse la distanza. Le pareti del tunnel continuavano a essere una grigia macchia confusa, e la sola sensazione di movimento era data da una leggera vibrazione che non si sarebbe potuta notare senza prestare grande attenzione. Forse a quell’ora Diaspar era lontana mille chilometri. Forse la macchina stava correndo sotto le colline che si vedevano dalla Torre di Loranne.
Cominciò a pensare a Lys, come se la sua mente volesse raggiungerla prima del corpo. Che tipo di città poteva essere? Riusciva solo a formarsi un’immagine identica a Diaspar, anche se più in piccolo. Si chiese se poteva esistere ancora, poi disse a se stesso che solo così poteva spiegarsi la corsa della macchina attraverso le viscere della Terra.
Improvvisamente ci fu un cambiamento distinto nelle vibrazioni dell’impiantito. Il veicolo aveva diminuito la velocità, non c’era dubbio. Il tempo doveva essere trascorso con maggiore velocità di quanto avesse pensato.
Piuttosto sorpreso, Alvin guardò l’indicatore: LYS — 23 minuti.
Perplesso e un po’ spaventato, schiacciò la faccia contro la parete trasparente. Le mura del tunnel fuggivano via in un grigiore uniforme, ma di tanto in tanto Alvin intravedeva delle scritte che sparivano con la stessa rapidità con cui erano apparse. E ogni volta le scritte sembravano restargli davanti agli occhi per un periodo un po’ più lungo.
Poi, senza nessun avvertimento, le pareti del tunnel vennero strappate dai fianchi del veicolo. Stava attraversando, sempre a grande velocità, un enorme spazio vuoto, molto più grande della sala che si trovava sotto Diaspar.
Osservando pieno di meraviglia attraverso la parete trasparente, Alvin riuscì a scorgere verso il basso una complicata rete di rotaie che si incrociavano e riincrociavano per scomparire negli innumerevoli tunnel che si aprivano ai due lati. Una luce azzurra scendeva dalla cupola e, stagliati contro il chiarore, si potevano distinguere i contorni di macchine immense.
La luce era tanto brillante da far socchiudere gli occhi, e Alvin comprese che quello non era un posto per esseri umani. Un attimo dopo il suo veicolo saettava accanto a una fila di cilindri sospesi immobili sulla rotaia di guida. Erano molto più grandi di quello su cui stava viaggiando lui. Con tutta probabilità erano stati adibiti al trasporto delle merci. Attorno erano sparpagliati incomprensibili e complicati meccanismi, tutti immobili e silenziosi.
Quasi con la stessa velocità con cui era comparsa, la grande sala abbandonata sparì dietro il veicolo. Immediatamente dopo aver superato la grande sala, Alvin si sentì afferrare da un senso di rispetto. Per la prima volta riusciva veramente a comprendere il significato di quella immensa mappa senza luci che aveva osservato nella stazione di Diaspar. Il mondo era assai più ricco di meraviglie di quanto avesse potuto immaginare.
Tornò a guardare l’indicatore. La cifra non era cambiata. Per attraversare la grande caverna avevano impiegato meno di un minuto. Il veicolo riprese velocità, anche se continuava a non esserci la sensazione di movimento. E
le pareti ripresero a scorrere a una velocità che non si poteva minimamente calcolare.
Gli parve che fosse trascorsa un’eternità prima che si verificasse un nuovo cambio di velocità. Ora l’indicatore diceva: LYS — 1 minuto.
E quel minuto fu il più lungo che Alvin avesse mai trascorso. La velocità della macchina diminuiva gradatamente. Si stava per fermare.
Il lungo cilindro scivolò fuori dal tunnel in una caverna che avrebbe potuto essere la gemella dell’altra nel sottosuolo di Diaspar. Alvin era tanto eccitato da non capire più nulla; la porta era aperta da parecchio quando lui si rese conto che poteva lasciare il veicolo. Mentre si affrettava a scendere a terra, gettò un’occhiata all’indicatore. Il messaggio era cambiato, le parole erano infinitamente più rassicuranti: DIASPAR — 35 minuti.
Nel cercare la via per uscire dalla sala, Alvin scoprì il primo indizio di una civiltà diversa dalla sua.
La strada per tornare alla superficie si apriva chiaramente attraverso una larga galleria… e al termine si vedeva una scala. Quella scala indicava una civiltà diversa. A Diaspar era rarissimo vederne. Dal tempo in cui la maggior parte dei robot erano stati dotati di ruote, gli architetti di Diaspar si erano affrettati a sostituirle con piani inclinati o a spirale.
La scala, brevissima, terminava in una porta che si aprì automaticamente di fronte ad Alvin. Il giovane vide una cella simile all’altra che l’aveva trasportato giù nella Tomba di Yarlan Zey. Vi entrò. Pochi minuti dopo la porta si aprì di nuovo, rivelando un corridoio a volta che saliva dolcemente fino a un arco nel quale s’inquadrava un rettangolo di cielo. Non c’era stata alcuna sensazione di movimento, ma Alvin sapeva che doveva essere salito di parecchi metri. Si affrettò su per il corridoio, verso l’entrata inondata di sole. Aveva dimenticato ogni timore nell’ansietà di vedere ciò che si stendeva di fronte a lui.
Si trovò sul ciglio di una collinetta e per un attimo credette di essere ancora nel Parco di Diaspar. Ma se si trattava davvero di un parco, era talmente grande che la sua mente si smarriva. La città che si era aspettato di trovare era ancora invisibile. Fin dove l’occhio poteva giungere non c’era che prato e foresta.
Poi Alvin puntò lo sguardo all’orizzonte. Laggiù, al di sopra degli alberi, si stendeva da destra a sinistra una grande arco di pietra che avrebbe fatto apparire nane le più imponenti costruzioni di Diaspar. Era così lontano che i particolari si perdevano nella distanza, ma nei contorni c’era qualcosa di strano che Alvin non poteva afferrare. Poi i suoi occhi si abituarono alle dimensioni di quel colossale paesaggio; comprese allora che quelle mura laggiù non erano opera delle mani dell’uomo.
Il Tempo non aveva distrutto ogni cosa; la Terra possedeva ancora montagne di cui poteva essere orgogliosa.
Alvin rimase a lungo nell’imbocco della galleria, abituandosi gradatamente allo strano mondo in cui era arrivato. Ciò che più lo aveva colpito erano le dimensioni dello spazio. L’anello di montagne che lo circondava avrebbe potuto contenere una dozzina di città della grandezza di Diaspar.
Ma per quanto cercasse, non c’era traccia di esseri umani. La strada che conduceva giù dalla collina, però, sembrava ben tenuta; non restava che incamminarsi.
Ai piedi della collina, la strada s’insinuava in mezzo a grandi alberi che quasi nascondevano la vista del sole. Sotto quegli alberi Alvin percepì uno strano miscuglio di suoni e di profumi. Conosceva il fruscio del vento tra le foglie, ma sotto c’erano migliaia di rumori vaghi che non gli ricordavano nulla. Era stordito da quei ronzii, da quei colori sconosciuti, da quei profumi di cui non esisteva ricordo nella memoria della sua razza. Il calore, la profusione di colori e di profumi, e la presenza invisibile di milioni di esseri viventi, lo colpirono quasi con violenza fisica.
Tutt’a un tratto si trovò sulla sponda di un lago. Gli alberi a destra terminarono bruscamente. Davanti a lui c’era un’immensa distesa di acqua, con alcuni isolotti sparsi qua e là. Mai in vita sua Alvin aveva visto tanta acqua; al confronto, le più grandi piscine di Diaspar non erano che pozzanghere. Si avviò lentamente lungo la sponda e raccolse un po’ d’acqua nel cavo delle mani, lasciandola scivolare tra le dita.
Il grosso pesce argenteo, che apparve all’improvviso in mezzo alle canne, fu la prima creatura non umana che Alvin avesse mai visto. Avrebbe dovuto apparirgli estremamente strana, tuttavia la forma del pesce gli risultò familiare. Mentre restava sospeso nel vuoto verde pallido, con le pinne in lento movimento, il pesce sembrava l’essenza della forza e della velocità. Qui, incorporate nella carne viva, c’erano le linee slanciate delle grandi astronavi che avevano solcato i cieli della Terra. Evoluzione e scienza erano giunte a un’identica conclusione. E l’opera della natura era durata assai più a lungo.
Si strappò all’incanto del lago e riprese a camminare. La foresta lo circondò di nuovo, ma solo per poco. La via terminava in una radura larga circa settecento metri e lunga il doppio, e Alvin comprese perché non aveva visto tracce di esseri umani.
La spianata era piena di edifici a due piani, dipinti in colori pastello, che riposavano la vista anche sotto la luce vivida del sole. Alcuni erano semplici e funzionali, altri costruiti in un complesso stile architettonico ornato da colonnine scanalate e di fregi. In questi edifici dall’aspetto molto antico imperava l’antichissima sagoma dell’arco a sesto acuto.
Mentre si avviava verso il villaggio, Alvin si sforzava di assuefarsi al paesaggio. Nulla gli era familiare; perfino l’aria era diversa, e la gente alta e bionda che si muoveva tra le case con grazia naturale apparteneva chiaramente a un’altra razza.
Nessuno si occupò di Alvin, il che era perlomeno strano, perché gli abiti dello straniero erano completamente diversi dai loro. A Diaspar la temperatura era condizionata, e perciò gli abiti erano puramente ornamentali. Lì, invece, erano soprattutto funzionali, e generalmente consistevano in una specie di peplo avvolto attorno alla persona.
Solo quando Alvin giunse nel cuore del villaggio, un gruppo di cinque uomini usciti da una casa avanzarono decisamente verso di lui, quasi fossero stati in attesa del suo arrivo. Alvin provò un’emozione improvvisa, il sangue cominciò a pulsargli nelle vene. E pensò a tutti i fatali incontri che nel lontano passato l’uomo aveva avuto con gli esseri dei mondi lontani.
Gli esseri che lui stava per incontrare erano della sua stessa specie, ma fino a che punto erano mutati durante gli anni in cui erano stati separati dalla gente di Diaspar?
La delegazione si arrestò a qualche passo da lui. Il capo sorrise e tese la mano nell’antichissimo segno di saluto.
«Abbiamo giudicato più opportuno aspettarvi qui» disse. «La nostra patria è molto diversa da Diaspar, e la passeggiata dal capolinea fin qui dà ai nostri visitatori un po’ di tempo per ambientarsi.»
Alvin strinse la mano dell’ospite, troppo sorpreso per rispondere. Ora capiva perché gli altri indigeni l’avevano ignorato così totalmente.
«Sapevate del mio arrivo?» disse infine.
«Certo. Sappiamo sempre quando c’è qualcuno in arrivo. Ditemi, come avete scoperto la linea? È passato tanto tempo dall’ultima visita. Temevamo che il segreto fosse andato perduto.»
Il delegato fu interrotto da uno dei compagni.
«Sarà meglio frenare la nostra curiosità, Gerane. Seranis ci aspetta.»
Il nome «Seranis» fu preceduto da una parola sconosciuta che Alvin immaginò fosse un titolo. Ma non ebbe difficoltà nel comprendere tutte le altre, e non si rese conto che si trattava di un fatto sorprendente. Diaspar e Lys dividevano la stessa eredità linguistica, e l’antica invenzione che permetteva di registrare il suono aveva fissato un modello perenne di lingua.
Gerane fece un gesto di ironica rassegnazione. «Benissimo» sorrise.
«Seranis ha pochi privilegi, non dobbiamo privarla di questo.»
Mentre avanzavano verso il centro del villaggio, Alvin studiò gli uomini che gli stavano attorno. Apparivano cortesi e intelligenti, ma queste erano virtù che lui aveva sempre considerato normali, quindi cercava qualcosa che li potesse differenziare dagli uomini di Diaspar. C’era qualche differenza, ma comunque era difficile poterla definire con esattezza. Erano più alti di Alvin, abbronzati, e due di loro mostravano gli inconfondibili segni dell’età fisica. I loro movimenti rivelavano un vigore e un’agilità che ad Alvin parvero attraenti e insieme preoccupanti. Sorrise ricordando Khedron, il quale era convinto che tutte le città si assomigliassero.
Ora la popolazione del villaggio fissava Alvin con franca curiosità.
All’improvviso da alcuni cespugli a destra arrivò un vocìo acuto, confuso, e un gruppo di esserini agitati saltò fuori di corsa e fece cerchio attorno ad Alvin. Il giovane si fermò strabiliato, incapace di credere ai suoi occhi. Era qualcosa che il suo mondo aveva perduto da tempo immemorabile. Ecco come un tempo incominciava la vita; quelle rumorose, affascinanti creature erano bambini.
Una sensazione dolorosa e sconosciuta turbò il cuore di Alvin. Nessun’altra vista avrebbe potuto fargli capire in modo così vivido quanto lui fosse lontano dal mondo che conosceva. Diaspar aveva pagato, e pagato in pieno, il prezzo dell’immortalità.
Il gruppetto si fermò davanti a un grande edificio che sorgeva proprio al centro del villaggio. Sul pennone infisso nella torretta sventolava una fiammante bandiera verde.
Solo Gerane entrò con Alvin. L’interno era fresco e tranquillo. La luce che filtrava attraverso le pareti trasparenti accendeva ogni cosa di un chiarore riposante. Il pavimento era liscio e soffice, con una bella decorazione a mosaico. Sulle pareti un artista di grande valore aveva dipinto una serie di scene di foresta. Tra queste ce n’erano di quelle che Alvin non riusciva comprendere, tuttavia le guardava con grande piacere. Incastrato in una parete c’era uno schermo con una massa di colori in movimento. Forse era un visifono, anche se molto piccolo. Salirono insieme per una scala a chiocciola che portava sul tetto piatto dell’edificio. Da quel punto si vedeva l’intero villaggio che consisteva in un centinaio di edifici. In lontananza, oltre gli alberi, si scorgevano vasti prati dove pascolavano animali di razze diverse. Alvin non sapeva riconoscerli: alcuni erano quadrupedi, altri sembravano avere sei e persino otto gambe.
Seranis lo aspettava all’ombra della torre. Alvin si chiese quanti anni potesse avere. I capelli biondi della donna erano striati di grigio, segno probabilmente di età matura. La vista dei bambini, con tutte le conseguenze inerenti, l’aveva lasciato molto confuso. Dove c’erano nascite doveva esserci certamente anche la morte, e forse qui la durata della vita era molto diversa che a Diaspar. Seranis poteva avere cinquanta, cinquecento, o cinquemila anni, ma nei suoi occhi c’era la stessa espressione di saggezza e di esperienza che brillava a volte in quelli di Jeserac.
La donna indicò un sedile, ma sebbene sorridesse in segno di benvenuto, non disse nulla finché Alvin non si fu accomodato. Infine sospirò e si rivolse all’ospite in tono gentile.
«Questa è un’occasione che non si presenta spesso, per cui vogliate scusarmi se non conosco le maniere adatte. Prima di tutto, c’è una cosa di cui devo informarvi. Posso leggervi nel pensiero.» Sorrise, vedendo l’aria costernata di Alvin, e soggiunse prontamente: «Non avete ragione di preoccuparvi. Qui si ha il massimo rispetto per il segreto dei pensieri altrui. Entrerò nella vostra mente solo se me ne darete il permesso. Certo non sarebbe stato simpatico nascondervi questa nostra facoltà, e la cosa vi aiuterà a capire perché per noi la parola è un mezzo un po’ lento e incompleto. Non la usiamo molto spesso».
La rivelazione non sorprese Alvin. Un tempo uomini e macchine avevano posseduto quel potere, e le macchine, immutabili, potevano ancora leggere gli ordini nella mente dei padroni. Poi, a Diaspar, l’uomo aveva perso quella facoltà che un tempo divideva con le macchine sue schiave.
«Non so cosa vi abbia condotto a Lys» continuò Seranis «ma se siete in cerca di zone abitate, le vostre ricerche terminano qui. A parte Diaspar, oltre le nostre montagne non c’è altro che deserto.»
Strano come Alvin, che aveva contrastato tanto spesso le opinioni universalmente condivise, non dubitò affatto in quel momento delle parole di Seranis. Pensava soltanto con amarezza che tutto quanto gli avevano insegnato rispondeva quasi alla verità.
«Parlatemi di Lys» pregò. «Perché siete stati tagliati fuori da Diaspar? E
come fate a sapere tante cose di noi?»
«Vi accontenterò. Ma prima vorrei sapere qualcosa di voi. Come avete trovato la linea di trasporto, e perché siete venuto qua?»
Dapprima esitante, poi sempre con maggiore confidenza, Alvin raccontò la sua storia. Non aveva mai parlato con tanta libertà; qui almeno c’era qualcuno che non avrebbe riso dei suoi sogni, poiché a Lys sapevano che quei sogni erano veri. Una o due volte Seranis lo interruppe con qualche domanda, quando lui menzionò alcuni aspetti di Diaspar che le erano sconosciuti. Era difficile per Alvin rendersi conto che certi particolari della sua vita di ogni giorno potevano essere privi di significato per chi non aveva mai vissuto nella città e non ne conosceva la complessa cultura e l’organizzazione sociale. Seranis ascoltò con grande interesse, e Alvin capì che aveva perfettamente compreso ogni cosa. In seguito si rese conto che molte altre menti avevano ascoltato le sue parole.
Quand’ebbe finito, ci fu un istante di silenzio. Poi Seranis lo guardò e chiese dolcemente: «Perché siete venuto a Lys?».
Alvin la guardò senza capire.
«Ve l’ho detto» ripeté. «Volevo esplorare il mondo. Tutti mi dicevano che all’esterno non c’era che deserto, ma io volevo accertarmene coi miei occhi.»
«È stata la sola ragione?»
Alvin esitò. Quando rispose, non fu l’indomito esploratore a parlare, ma il ragazzo smarrito, venuto al mondo in un ambiente a lui estraneo.
«No» fece lentamente «non è stata questa la sola ragione… Sebbene me ne renda conto soltanto ora. Mi sentivo molto solo.»
«Solo? A Diaspar?» Seranis sorrise, ma i suoi occhi erano pieni di comprensione e simpatia. Alvin capì che si aspettava quella risposta.
Ora che aveva raccontato la sua storia, aspettò che Seranis adempisse la promessa. La donna si era alzata in piedi, e percorreva il terrazzo in su e in giù.
«So quel che volete conoscere» disse. «Potrei tentare di rispondere alle vostre domande, ma sarebbe faticoso farlo a parole. Se volete aprire la mente, dirò tutto molto più chiaramente. Potete fidarvi; non leggerò nel vostro pensiero senza il vostro permesso.»
«Che dovrei fare?» s’informò Alvin, prudentemente.
«Guardatemi negli occhi… ecco… dimenticate tutto il resto.»
Alvin non capì mai ciò che avvenne dopo. Ci fu l’eclissi totale di tutti i suoi sensi, e sebbene non potesse ricordare come l’avesse acquistata, quando ritornò in sé la sua mente possedeva la conoscenza.
Poté guardare indietro nel passato, non chiaramente, ma come qualcuno che da un’alta cima osservi una pianura sconfinata. Comprese che l’Uomo non aveva sempre abitato nelle città e che, dal tempo in cui le macchine l’avevano affrancato dal lavoro, c’era sempre stata rivalità tra i due differenti tipi di civiltà. Nei tempi antichissimi esistevano migliaia di città, ma una larga parte dell’umanità aveva preferito vivere in comunità extraurbane relativamente piccole. Trasporti e comunicazioni permettevano qualsiasi contatto col resto del mondo, mentre si poteva evitare di vivere in quei grossi agglomerati insieme a molti milioni di altri individui.
Lys si era costituita come molte altre comunità. Col tempo, però, aveva sviluppato una propria cultura indipendente, di un livello superiore a qualsiasi altra. Era una cultura basata sull’uso diretto delle facoltà mentali, il che la separava da tutte le altre comunità umane che si servivano sempre più della tecnica.
Attraverso gli eoni, con il procedere su strade diverse, l’abisso morale tra Lys e le altre città si era allargato. I contatti erano stati ripresi solo nei momenti di grande crisi: quando la Luna era uscita dalla sua orbita, erano stati gli scienziati di Lys a distruggerla. Gli stessi avevano tenuto a bada gli Invasori nella battaglia finale di Shalmirane.
Il grande sforzo aveva esaurito l’umanità; una per una le città erano morte, e il deserto le aveva ingoiate. Gli uomini avevano cominciato la grande migrazione che doveva fare di Diaspar l’ultima e la più grande città.
Lys era rimasta indenne, ma aveva dovuto combattere la sua battaglia col deserto. La barriera naturale delle montagne non era sufficiente, e c’erano volute intere ere per rendere sicura la grande oasi. A questo punto la visione si offuscò. Alvin non poté scoprire con quale mezzo Lys si fosse assicurata l’eternità.
La voce di Seranis parve giungere da un punto lontanissimo, ma non fu la sua voce sola. Fu una sinfonia di parole, come se molte voci stessero cantando all’unisono con lei. «Questa, in breve, è la nostra storia. Come avete visto, fin dai tempi più remoti avevamo poco in comune con le altre città. Quando le altre si sono estinte abbiamo lottato per non essere trascinati nella distruzione. Con la fine dei trasporti aerei è restata un’unica via di allacciamento con Lys: la sotterranea Lys-Diaspar. Dalla parte vostra, è stata chiusa quando hanno costruito il Parco, e voi ci avete dimenticati.
Noi, però, non vi abbiamo dimenticati.
«Diaspar ci ha sorpresi. Ci aspettavamo che seguisse il destino delle altre città, mentre invece ha raggiunto una cultura stabile che può durare fin che dura la Terra. Non è una cultura che ammiriamo, però siamo contenti che quelli che desiderano sfuggirvi siano in grado di farlo. Questo viaggio l’hanno fatto più di quanti possiate pensare, ed erano tutti uomini di valore che, venendo a Lys, ci hanno portato il loro contributo.»
La voce svanì; la paralisi dei sensi di Alvin cessò e il giovane riprese perfettamente coscienza. Si accorse meravigliato che il sole era basso nel cielo, e che già da oriente avanzava la notte. In distanza una campana fece udire un sonoro rintocco, che lasciò l’aria piena di mistero e di solennità.
Alvin ebbe un brivido. Era tardi e si trovava lontano da casa. Provò il bisogno improvviso di rivedere i suoi amici, di ritrovarsi nell’ambiente familiare di Diaspar.
«Debbo tornare» disse «Khedron… i miei genitori… saranno in pensiero.»
Non era l’intera verità. Certamente Khedron si stava chiedendo cosa poteva essergli capitato, ma, per quanto ne sapeva, nessun altro era a conoscenza della sua fuga da Diaspar. Non sapeva spiegarsi la ragione della piccola bugia, e si vergognò di se stesso non appena pronunciate le parole.
Seranis lo guardò pensosa.
«Temo che non sia tanto facile.»
«Perché? La sotterranea che mi ha condotto fin qui non può ricondurre a Diaspar?» L’aveva sfiorato il sospetto che forse avrebbe dovuto restare per sempre prigioniero a Lys, ma si rifiutava di credervi.
Seranis, per la prima volta, parve leggermente a disagio.
«Abbiamo parlato di voi» disse, senza spiegare cosa intendesse con «abbiamo», né come avesse fatto a consultarsi con gli altri. «Se ritornerete a Diaspar, l’intera città saprà della nostra esistenza. Anche se ci promettete di non dir nulla, vi sarà impossibile mantenere il segreto.»
«Perché dovrei tenerlo? Sarebbe un’ottima cosa per i nostri popoli rimettersi in contatto.»
«Non siamo di questo parere.» Seranis pareva contrariata. «Se apriremo le porte, la nostra terra verrà invasa dai curiosi e dai tipi in cerca di avventure. Finora, solo i migliori di voi sono giunti fin qua.»
La risposta era piena di inconscia superiorità, tuttavia era basata su presupposti sbagliati. Alvin si sentì seccato, tanto da dimenticare la paura.
«Non è vero. E poi, nessuno a Diaspar vorrebbe lasciare la città, anche se sapesse che c’è un altro luogo abitato. Lasciatemi tornare a casa; per Lys la cosa non porterà nessun cambiamento.»
«Non sta a me decidere. Del resto, sottovalutate le facoltà della mente se pensate che le barriere che tengono la vostra gente rinchiusa a Diaspar non possano crollare. Comunque, non possiamo trattenervi contro la vostra volontà, ma se tornerete a Diaspar dobbiamo prima cancellare dalla vostra mente il ricordo di Lys.» Seranis esitò. «Questo, però, non è mai accaduto.
Tutti i vostri predecessori hanno chiesto di restare.»
Alvin si rifiutava di accettare quella scelta. Voleva esplorare Lys, scoprirne i segreti, sapere quanto fosse diversa dalla sua patria. Nello stesso tempo era ben deciso a tornare a Diaspar, per provare ai suoi amici di non essersi illuso. Non poteva capire perché dovesse mantenere il segreto.
Doveva prendere tempo, o convincere Seranis che gli stava chiedendo una cosa impossibile.
«Khedron sa che sono qui. Non potete cancellare anche i suoi ricordi.»
Seranis sorrise. Il sorriso era dolce, cordiale, ma Alvin non s’illuse. Dietro quel sorriso si nascondeva una volontà implacabile.
«Ci sottovalutate, Alvin. Sarebbe una cosa da nulla. Posso raggiungere Diaspar più presto di quanto impieghi ad attraversare Lys. Altri, venuti prima di voi, avevano detto ai loro amici dove erano diretti. Ma gli amici li hanno dimenticati ed essi sono spariti dalla storia di Diaspar.»
Alvin era stato uno stupido a ignorare quella possibilità. Era ovvia, ora che Seranis ne aveva parlato. Si domandò quante volte, nei milioni di anni da che le due culture si erano separate, uomini di Lys erano entrati a Diaspar per fare in modo che la loro esistenza non venisse scoperta. E si domandò anche quale estensione poteva avere la loro potenza mentale. Quella potenza che non esitavano a usare.
Era prudente fare dei piani? Seranis aveva promesso che non avrebbe letto nella sua mente senza permesso. Ma potevano esserci delle circostanze in cui la promessa non sarebbe stata mantenuta…
«Non potete pretendere che prenda una decisione su due piedi. Posso vedere qualcosa del vostro paese prima di fare la mia scelta?»
«Certo. Potete restare finché vi piacerà, e tornare a Diaspar in qualunque momento, qualora cambiaste idea. Ma se potete prendere questa decisione nei prossimi giorni, sarà meglio. Non voglio che i vostri amici si spaventino, e quanto più resterete lontano da casa, tanto più mi sarà difficile prendere i provvedimenti necessari.»
Alvin sarebbe stato curioso di sapere quali fossero quei provvedimenti.
Forse qualcuno di Lys si sarebbe messo in contatto con Khedron, senza che il Buffone se ne rendesse conto, e ne avrebbe alterato i ricordi. La scomparsa di Alvin sarebbe stata notata, ma le notizie che lui e Khedron avevano raccolto sarebbero andate perdute. Col passare dei secoli, il nome di Alvin si sarebbe aggiunto a quello degli altri Unici misteriosamente scomparsi senza lasciare traccia, e sarebbe stato dimenticato.
C’erano molti misteri in quel luogo, e per ora gli sembravano insolubili.
Il collegamento unilaterale tra Lys e Diaspar era un banale incidente storico o nascondeva qualche segreto proposito? Chi e cosa erano gli Unici, e se la gente di Lys poteva entrare in Diaspar, perché nessuno aveva mai cancellato dai circuiti-memoria quel filo che conduceva alla scoperta dell’esistenza di Lys? Forse quella era l’unica domanda cui Alvin poteva rispondere. Il Computer Centrale era un avversario troppo potente, che non si sarebbe lasciato impressionare nemmeno dai più progrediti cultori di tecnica mentale…
Mise da parte il problema; un giorno, grazie a una maggiore esperienza, ci sarebbe tornato sopra. Era inutile speculare, costruire piramidi di congetture su una base di ignoranza.
«Benissimo» disse, seccato per quell’imprevisto ostacolo sulla sua strada. «Vi darò la risposta al più presto possibile… ma dovete mostrarmi la vostra terra.»
«D’accordo.» Il sorriso di Seranis non conteneva più alcuna minaccia.
«Siamo fieri di Lys. Sarà un piacere mostrarvi come gli uomini possono vivere senza l’aiuto delle città. Nel frattempo, non preoccupatevi… I vostri amici non saranno allarmati per la vostra assenza. Provvederemo noi, solo per misura precauzionale.»
Per la prima volta, Seranis aveva fatto una promessa che non avrebbe potuto mantenere.