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Alystra era riuscita a seguire Alvin e Khedron senza che loro se ne accorgessero. Pareva che avessero una gran fretta, cosa strana a Diaspar, e non si erano mai voltati indietro. Per Alystra era stato un gioco divertente pedinarli lungo la strada mobile, confondendosi tra la folla senza perderli d’occhio. Alla fine la loro meta fu chiara. Quando abbandonarono l’intrico delle vie per addentrarsi nel Parco, non potevano essere diretti che verso la Tomba di Yarlan Zey. Il Parco non conteneva altri edifici, e due individui che andavano di fretta come Alvin e Khedron non potevano essere lì per godere lo spettacolo del paesaggio.

La ragazza li seguì fino alla Tomba di Yarlan Zey, e poiché attorno al monumento non c’era modo di nascondersi, aspettò che Alvin e Khedron sparissero sotto la cupola di marmo. Poi, come furono entrati, si affrettò su per la breve salita erbosa. Era quasi certa che sarebbe riuscita a nascondersi dietro uno dei grossi pilastri, per sorvegliare di là cosa stessero facendo.

La Tomba era formata da due anelli concentrici di colonne, che racchiudevano una corte circolare. Le colonne, tranne che in un settore, nascondevano completamente l’interno. Alystra evitò di avanzare in quella direzione, e fece il giro della Tomba per entrare da uno dei lati. Raggiunse il primo cerchio di colonne, vide che non c’era nessuno, e andò in punta di piedi fino al secondo. Tra un pilastro e l’altro, poté intravedere Yarlan Zey che, immobile, vegliava da millenni sul parco e sulla città.

Ma non c’era nessun altro in quella solitudine marmorea. La Tomba era vuota.


In quel momento, Alvin e Khedron si trovavano parecchi metri sottoterra, in una cabina le cui pareti sembravano fuggire velocemente verso l’alto.

Quella era l’unica indicazione di movimento; nessun’altra traccia di vibrazione mostrava che stessero penetrando rapidamente nel sottosuolo, lanciati verso una meta che nessuno di loro due conosceva ancora.


Tutto era stato facile, e la via era stata creata apposta per loro. (Da chi?

si chiedeva Alvin. Dal Computer Centrale? O da Yarlan Zey stesso, quando aveva trasformato la città?) Lo schermo del monitor aveva mostrato loro il pozzo che si immergeva nelle viscere della terra, ma aveva potuto seguirne il corso solo per poco, perché ben presto l’immagine era sfumata.

Questo indicava che il monitor aveva esaurito le sue informazioni.

Alvin stava appunto riflettendo sul fatto, quando sullo schermo era apparso un nuovo messaggio, scritto in quello stile semplificato che le macchine usavano per comunicare con gli uomini prima che tutti raggiungessero un identico grado intellettuale: «Fermati nel punto fissato dalla statua. E

ricorda: Diaspar non è sempre stata così.»

Le ultime parole erano scritte a caratteri più grandi, e il significato di tutto il messaggio era stato subito chiaro per Alvin. Da secoli si usavano dei codici mentali per aprire porte e mettere macchine in movimento.

«Quante persone avranno letto queste parole?» disse pensoso.

«Quattordici, a quanto mi risulta» rispose Khedron senza spiegare meglio. «E forse qualcuna di più.»

Non potevano sapere se il meccanismo avrebbe risposto all’impulso.

Quando erano arrivati alla Tomba, avevano identificato senza fatica la pietra dell’impiantito su cui si fissava lo sguardo della statua. La prima impressione era che il simulacro di Yarlan Zey guardasse verso la città, ma se ci si metteva di fronte ci si accorgeva che gli occhi erano rivolti verso il basso e che il sorriso misterioso di Yarlan Zey era diretto a una pietra proprio appena varcato l’ingresso. Alvin, notato il fatto, aveva mosso per prova qualche passo avanti; subito si era accorto che lo sguardo di Yarlan Zey non era più diretto verso di lui. Dunque la pietra era proprio quella.

Tornò vicino a Khedron e mentalmente ripeté le parole che il Buffone stava dicendo a voce alta: «Diaspar non è sempre stata così». Immediatamente le macchine si misero in movimento, come se i milioni di anni trascorsi dalla loro ultima operazione non fossero mai esistiti. La grossa pietra su cui erano fermi si era mossa dolcemente, trasportandoli nelle profondità del suolo.

Sopra di loro il riquadro di azzurro scomparve all’improvviso. La botola si era richiusa. Non c’era più pericolo che qualcuno cadesse incidentalmente nell’apertura. Alvin si domandò se una seconda pietra si fosse materializzata per rimpiazzare quella su cui lui e Khedron stavano appoggiando i piedi. Poi decise che non era possibile. Con tutta probabilità, nel pavimento della tomba era tornata la pietra originale. Quella su cui si trovavano doveva esistere soltanto per infinitesime frazioni di secondo, e ricrearsi di continuo a profondità sempre maggiori per dare la sensazione di un movimento verso il basso.

Né Alvin né Khedron parlarono durante il tragitto. Il Buffone si stava chiedendo se per caso non fosse andato troppo oltre. Non poteva immaginare dove li avrebbe portati quella strada, ammesso che portasse in qualche posto, e per la prima volta in vita sua aveva paura. Alvin invece non temeva nulla; era troppo eccitato. Provava la stessa sensazione sperimentata nella Torre di Loranne, quando aveva guardato il deserto e aveva visto le stelle spandersi nel cielo della notte. Allora si era limitato a guardare cose sconosciute; ora stava andando verso l’ignoto.

Le pareti rallentarono la loro corsa verso l’alto. Un raggio di luce apparve improvvisamente da un lato e, facendosi sempre più luminoso, rivelò infine una porta aperta. I due la attraversarono, mossero qualche passo nel piccolo corridoio e si trovarono in una vasta caverna circolare le cui pareti si riunivano a cupola circa cento metri sopra le loro teste. La colonna che avevano percorso nella discesa sembrava troppo esile per sorreggere i milioni di tonnellate di roccia, e anzi dava l’impressione che non facesse neppur parte integrante della immensa sala, come se fosse stata costruita in un secondo tempo. Khedron, seguendo lo sguardo di Alvin, giunse immediatamente alla stessa conclusione.

«Questa colonna» disse parlando in fretta, come nell’ansia di cercare parole adatte ai pensieri «è stata costruita soltanto per alloggiare il condotto attraverso cui siamo scesi. Ma non deve essere mai stata sufficiente a convogliare tutto il traffico di quando Diaspar era ancora aperta sul mondo. Il vero traffico si svolgeva attraverso quei tunnel laggiù. Immagino che tu abbia capito cosa sono.»

Alvin guardò verso il fondo della grande sala. A un centinaio di metri da loro le pareti erano traforate a intervalli regolari da dodici grandi tunnel che puntavano un poco verso l’alto. Alvin riconobbe il materiale grigio delle strade mobili. Quelle erano edizioni ridotte delle grandi strade. Il curioso materiale che dava loro vita si era cristallizzato nell’immobilità. Quando avevano costruito il Parco, la rete di vie mobili era stata sepolta.

Alvin si avviò verso il tunnel più vicino. Aveva fatto solo pochi passi quando notò che qualcosa di strano avveniva nel terreno su cui camminava: stava diventando trasparente. Ancora qualche metro, e ad Alvin parve di essere sospeso a mezz’aria. Si fermò e fissò il vuoto sotto di sé.

«Khedron!» chiamò. «Vieni a vedere!»


L’altro lo raggiunse, e insieme guardarono quella meraviglia sotto i loro piedi. Debolmente visibile, a una profondità infinita, si stendeva una mappa enorme, le cui linee convergevano verso un punto centrale. Rimasero per qualche istante a osservare in silenzio.

«Riesci a immaginare di che si tratti?» domandò Khedron, piano.

«Credo di sì. È la mappa dell’intero sistema di trasporti, e quei circoletti devono essere le altre città della Terra. Vedo i nomi scritti accanto, ma non riesco a leggerli.»

«Un tempo doveva esserci un’illuminazione interna» disse Khedron. Poi si mise a seguire con gli occhi le varie linee della mappa che si spingevano verso le pareti della sala. «Lo dicevo, io!» esclamò a un tratto. «Vedi che ognuna di queste linee si ricongiunge a uno dei tunnel più piccoli?»

Alvin aveva notato che oltre alle dodici arcate delle strade mobili c’erano moltissimi altri tunnel più piccoli, tunnel che si dirigevanoverso il basso,

non verso l’alto.

Khedron continuò, senza aspettare risposta: «Il sistema più semplice che si possa immaginare. La gente scendeva con le strade mobili, sceglieva la località in cui voleva recarsi, e seguiva la linea esatta sulla mappa».

«Che cosa succedeva, poi?» chiese Alvin. Khedron tacque. I suoi occhi indagavano nel mistero di quei tunnel discendenti. Erano trenta o quaranta, tutti uguali. Solo i nomi sulla mappa avrebbero permesso di distinguerli, e quei nomi erano ormai indecifrabili.

Alvin si era allontanato, e stava facendo il giro del pilastro centrale. In quel momento, la sua voce giunse a Khedron leggermente alterata dall’eco della sala.

«Che c’è?» Khedron era quasi riuscito a decifrare uno dei nomi e non voleva muoversi. Ma la voce di Alvin era insistente, e il Buffone corse a vedere.

Molto al di sotto si stendeva l’altra metà della grande mappa. Nell’intrico sfuocato di linee, una era ben distinta e fortemente illuminata. Pareva non aver alcun nesso col resto del grafico e puntava, come una freccia scintillante, in direzione di uno dei tunnel discendenti. Verso la fine la freccia formava un cerchio di luce dorata nel quale si leggeva una sola parola: Lys.

Alvin e Khedron fissarono a lungo in silenzio la segnalazione luminosa.

Per Khedron si trattava di una sfida che lui non avrebbe mai avuto il coraggio di accettare, ma per Alvin quella freccia significava la realizzazione di tutti i suoi sogni. Per quanto la parola Lys non gli dicesse niente, la ripeté diverse volte, assaporando la sillaba quasi fosse un frutto di sapore esotico. Il sangue gli scorreva nelle vene con violenza, e le guance gli si erano infuocate come se avesse la febbre. Si guardò attorno e cercò di immaginare come poteva essere stato quel luogo, quando erano cessati i trasporti aerei ma le diverse città della Terra avevano continuato a mantenersi in contatto. Pensò agli incalcolabili milioni di anni passati, al traffico che diminuiva a poco a poco, e alle luci che si spegnevano, a una a una, finché ne era rimasta una soltanto. Per quanto tempo aveva brillato, da sola, quella luce in attesa di guidare i passi di qualcuno che non era mai arrivato?

Dal giorno in cui Yarlan Zey aveva isolato Diaspar dal resto del mondo erano trascorsi ormai mille milioni di anni. Doveva essere da quel periodo che Lys aveva perso ogni contatto con Diaspar. Sembrava impossibile che avesse potuto sopravvivere. Forse, dopo tutto, quella luce accesa non aveva più nessun significato.

Khedron interruppe le sue fantasticherie. Sembrava nervoso e a disagio; non aveva più niente dell’individuo calmo e sicuro di sé.

«Non dobbiamo andare oltre. Potrebbe essere pericoloso finché… finché non saremo più preparati.»

Le parole erano sagge, ma Alvin colse una nota di paura nella voce del compagno. Se non fosse stato per questo, forse le avrebbe ascoltate. Ma la troppa fiducia che nutriva in se stesso, combinata al disprezzo per la paura di Khedron, lo convinsero a proseguire. Gli sembrava stupido essere arrivato fino a quel punto solo per volgere la schiena, quando la meta poteva essere a portata di mano.

«Io scendo in quel tunnel» rispose, quasi sfidando Khedron a fermarlo.

«Voglio vedere dove porta.» Si mosse risoluto. Dopo un attimo di esitazione, l’altro lo seguì.

Nel tunnel, il campo peristaltico li afferrò trasportandoli in meno di un minuto in fondo alla galleria e deponendoli all’ingresso di una stretta camera semicilindrica. All’estremità opposta, altri due tunnel si dipartivano verso l’infinito.

Gli uomini delle civiltà che erano esistite prima della fondazione di Diaspar avrebbero trovato quel luogo del tutto familiare. Tuttavia per Alvin e Khedron era un lembo di un altro mondo. La funzione di quella macchina affusolata con la punta rivolta verso la lunga galleria era evidente. I due uomini la osservarono con grande meraviglia. La parte superiore era di un materiale trasparente, e guardando all’interno Alvin scorse alcune file di elegantissimi sedili. Non era possibile distinguere lo sportello di quella macchina sospesa a trenta centimetri sopra la rotaia metallica che scompariva nella galleria. Pochi passi più in là, un binario identico spariva nell’altro tunnel, ma lì non c’erano macchine in attesa. Alvin ebbe la certezza che nella lontana, sconosciuta Lys, la seconda macchina fosse in attesa in una stazione assolutamente identica.

Khedron cominciò a parlare con troppa rapidità. «Che strano mezzo di trasporto! Può ospitare al massimo un centinaio di persone, quindi non ci deve essere mai stato un traffico molto intenso. Poi, perché prendersi il disturbo di scavare sotto terra, quando le vie del cielo erano ancora aperte?

Forse gli Invasori avevano anche proibito di volare. Però stento a crederlo.

O hanno costruito i tunnel nel periodo di transizione, quando gli uomini viaggiavano ancora ma non volevano più sentir parlare dello spazio? In questo modo potevano spostarsi da una città all’altra, senza mai vedere il cielo e le stelle.» Scoppiò in una risata nervosa. «Sono certo di una cosa, Alvin. Quando Lys esisteva, doveva essere precisa a Diaspar. Le città si assomigliano tutte. È logico che alla fine siano state abbandonate e gli uomini si siano riuniti nella sola Diaspar. A che scopo averne più di una?»

Alvin non lo udiva nemmeno. Cercava l’entrata del lungo proiettile. Se la macchina era controllata da un codice d’ordine verbale o mentale, non sarebbe mai riuscito a farsi obbedire, forse, e quell’enigma lo avrebbe perseguitato per tutto il resto della vita.

Lo sportello che si aprì in silenzio lo colse alla sprovvista. Non ci fu né rumore né avvertimento quando la parete sparì lasciando intravedere l’interno.

Quello era il momento di fare la scelta. Fino a un attimo prima avrebbe potuto tornare sui suoi passi. Ma se varcava quella soglia, sapeva cosa sarebbe accaduto, anche se non poteva immaginare come sarebbe finita la sua avventura. Non sarebbe più stato in grado di controllare il suo destino; si sarebbe messo completamente nelle mani di forze sconosciute.

Non esitò. Aveva paura di tirarsi indietro, perché quel momento tanto atteso poteva non ripresentarsi mai più. Se si ritirava, voleva dire che il suo coraggio era assai inferiore alla sua voglia di sapere. Khedron fece per parlare, ma Alvin ormai era già nella macchina. Il giovane si voltò a guardare il compagno, rimasto immobile oltre il rettangolo della porta. Cadde tra loro uno strano silenzio, mentre ognuno dei due aspettava che l’altro parlasse.

La decisione venne da sé. Ci fu un debole luccichio trasparente e la parete della macchina si richiuse. Alvin alzò la mano in segno d’addio, mentre già il lungo cilindro balzava in avanti. Prima di imboccare il tunnel, il bolide aveva già raggiunto un’accelerazione notevole.

C’era stato un tempo in cui, ogni giorno, milioni di uomini facevano viaggi del genere, in macchine quasi uguali a quella, per spostarsi da casa loro verso gli studi o gli affari. Da quell’epoca remota, l’uomo aveva esplorato l’universo ed era ritornato sulla Terra, aveva vinto un Impero e se l’era lasciato sfuggire; ora uno di quei viaggi veniva rifatto, con una macchina sulla quale legioni di uomini dimenticati si erano sentiti perfettamente a loro agio.

Doveva essere il viaggio più sensazionale che un essere umano avesse mai compiuto da miliardi di anni.


Alystra aveva ispezionato la Tomba una dozzina di volte, anche se i luoghi dove nascondersi non erano molti. Poi si era chiesta se per caso, invece di seguire Khedron e Alvin, non avesse seguito soltanto le loro proiezioni.

Ma era assurdo! La propria proiezione poteva essere materializzata nel punto stesso che si desiderava visitare. Non c’era senso nel farla «passeggiare» per strada, buttando via una buona mezz’ora di tempo. No, erano il vero Alvin e il vero Khedron che lei aveva seguito fino alla Tomba.

Da qualche parte, dunque, doveva esserci un’entrata segreta. Tanto valeva cercarla mentre li aspettava.

Khedron riapparve proprio mentre Alystra stava guardando dietro una colonna. Lei udì dei passi, si voltò e vide subito che il Buffone era solo.

«Dov’è Alvin?» gridò.

Passò del tempo prima che il Buffone potesse rispondere. Sembrava agitato e smarrito, e Alystra fu costretta a ripetere la domanda. Non parve minimamente sorpreso di trovare la ragazza in quel luogo.

«Non so dove sia» disse infine. «Posso dirti solo che è in viaggio per Lys. Adesso ne sai quanto me.»

Non era prudente, di solito, prendere alla lettera le parole di Khedron.

Ma Alystra capì subito che il Buffone non stava giocandole uno dei suoi scherzi. Khedron diceva la pura verità… qualsiasi cosa questa potesse significare.

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