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La stanza era immersa nel buio, salvo un rettangolo su cui si agitavano le onde di colore dei sogni di Alvin. Parte della composizione lo lasciava soddisfatto. Si era innamorato del contorno delle montagne che uscivano dal mare. I pendii che salivano verso il cielo possedevano una loro forza e fierezza. Le aveva studiate a lungo, e le aveva registrate nella memoria del visualizzatore, dove si sarebbero conservate fino al momento in cui avesse messo a punto il resto dell’immagine. Qualcosa gli sfuggiva, anche se non sapeva cosa fosse. Aveva provato e riprovato a riempire gli spazi vuoti, e gli strumenti avevano letto i suoi pensieri per proiettarli in immagine sulla parete. Ma non erano ciò che lui voleva. Le linee erano confuse e incerte, i colori troppo densi e sporchi. Se l’artista non sapeva cosa dipingere, anche il più miracoloso dei pennelli non avrebbe potuto portare a termine il quadro.

Alvin cancellò le parti che lo lasciavano insoddisfatto e ricominciò a lavorare sui tre quarti di rettangolo vuoto che aveva cercato di riempire di bellezza. In un improvviso impulso raddoppiò la grandezza dell’immagine esistente e la spostò al centro del rettangolo. No, era un modo sciocco di risolvere la situazione. La composizione risultava sbilanciata e, peggio ancora, il cambio della scala aveva rivelato i difetti di tutta la costruzione: la mancanza di sicurezza nei tratti che poco prima gli sembravano disegnati alla perfezione. Avrebbe dovuto ricominciare da capo.

«Cancellazione totale» ordinò alla macchina.

Il blu del mare scomparve, le montagne si dissolsero come nebbia, e rimase soltanto la parete vuota. Era come se non ci fossero mai state, come se si fossero perse nel limbo che aveva assorbito gli oceani e le montagne della Terra, anni prima che Alvin nascesse.

La luce tornò a inondare la stanza. Il rettangolo luminoso su cui Alvin aveva tentato fino ad allora di proiettare i suoi sogni si confuse col resto delle pareti. Ma erano proprio pareti? A chiunque fosse entrato per la prima volta in un posto del genere, quella stanza sarebbe sembrata molto strana. Era completamente priva di mobilio e non c’era nessuna linea di distinzione fra le pareti e il soffitto o il pavimento, così che Alvin poteva trovarsi al centro di una sfera. Nessuna linea visibile separava le pareti dal pavimento o dal soffitto. Non c’era nulla su cui l’occhio potesse posarsi; lo spazio che circondava Alvin poteva misurare tre metri o decine di miglia, per quanto la vista riusciva a giudicare. Sarebbe stato difficile resistere alla tentazione di avanzare a braccia tese per scoprire i limiti fisici di quel luogo straordinario.

Pure, tali camere avevano fatto da «casa» agli esseri umani per la maggior parte della loro storia. Alvin doveva soltanto dare la forma opportuna al suo pensiero, e le pareti si sarebbero immediatamente trasformate in finestre aperte sul punto della città da lui prescelto. Un altro desiderio, e subito macchine che non aveva mai visto avrebbero ammobiliato la stanza proiettandovi le immagini di qualsiasi mobile richiesto. Se fossero mobili

«reali» o no, era un problema che nessuno si poneva da almeno un miliardo di anni. Certo non erano meno reali di quelli fatti di materia solida, e quando non servivano più venivano rimandati nel mondo delle immagini, le Banche Memoria della città. Come tutto ciò che esisteva a Diaspar, non si sarebbero mai logorati, né avrebbero subito alcun cambiamento a meno che il loro modello-base non fosse stato cancellato da un atto cosciente di volontà.

Alvin aveva in parte ricostruito la sua stanza quando un tintinnio persistente gli risuonò nell’orecchio. Concepì mentalmente il segnale di ammissione e subito una delle pareti si dissolse. Come si aspettava, nello spazio libero apparvero le figure dei suoi genitori e di Jeserac.

La presenza del tutore indicava che non si trattava di una delle solite riunioni familiari, ma anche questo era già previsto.

L’illusione era perfetta, e così restò quando Eriston prese a parlare. In realtà, come Alvin sapeva benissimo, Eriston, Etania e Jeserac erano a molte miglia di distanza. I costruttori della città avevano conquistato lo spazio proprio come avevano vinto il tempo. Alvin non sapeva nemmeno dove abitassero i suoi genitori fra le spire multiple e i complessi labirinti di Diaspar poiché dopo l’ultimo vero incontro avevano cambiato residenza.

«Alvin» cominciò Eriston «sono passati vent’anni da quando tua madre e io ti abbiamo incontrato la prima volta. Sai cosa intendo. La nostra custodia è terminata, sei libero di fare quel che ti piace.»

C’era un velo di tristezza nella voce di Eriston, ma appena un velo. Molto più evidente era il senso di sollievo, come se Eriston fosse contento all’idea che uno stato di cose, che ormai durava da anni, trovasse infine un riconoscimento legale. Alvin aveva anticipato di parecchio tempo la sua libertà di maggiorenne.

«Capisco» rispose lui. «Vi ringrazio per aver vegliato su me, e vi ricorderò in tutte le mie vite future.» La risposta era formale. Alvin l’aveva ormai udita tante volte da trovarla quasi priva di valore; era una semplice sequenza di suoni senza particolare significato. Tuttavia l’espressione «vite future» era difficile da comprendersi, considerandola attentamente. Sapeva vagamente cosa significasse; ora era giunto il momento di scoprirne l’esatto significato. C’erano molte cose a Diaspar che non comprendeva e che avrebbe dovuto imparare nei secoli di vita che aveva dinanzi a sé.

Per un attimo sembrò che Etania volesse dire qualcosa. Sollevò una mano, alternando la pallida iridescenza dell’abito, poi la lasciò ricadere e si voltò smarrita verso Jeserac. Per la prima volta Alvin si rese conto che i suoi genitori erano turbati. Riandò con la memoria agli avvenimenti delle ultime settimane. Non trovò nulla nella sua condotta che potesse giustificare quell’inquietudine, quell’aria leggermente allarmata di Eriston e di Etania.

Jeserac, però, prese le redini della situazione. Con un’occhiata inquisitrice ai suoi compagni si accertò che non avessero altro da aggiungere e si lanciò nella dissertazione che aveva già pronta da parecchi anni.

«Alvin, per vent’anni sei stato il mio pupillo e ho fatto del mio meglio per insegnarti gli usi della città e prepararti alla vita. Mi hai fatto molte domande e non sempre ho saputo risponderti. Alcune cose le ignoravo io stesso, altre non eri ancora maturo per apprenderle. Ora la tua infanzia è finita, ma sei appena adolescente. È ancora mio dovere guidarti, se ti servirà il mio aiuto. Ti occorreranno almeno duecento anni per conoscere questa città, e un poco della sua storia. Perfino io, che ho quasi terminato il mio ciclo, conosco appena un quarto di Diaspar e forse un millesimo dei suoi tesori.»

Fino a quel momento non era stato detto niente che Alvin non sapesse, ma non ci sarebbe stato modo di farlo capire a Jeserac. Il vecchio lo guardava fisso attraverso il golfo dei secoli, e le sue parole avevano tutto l’incalcolabile peso della saggezza acquisita durante la lunga vita a contatto con uomini e macchine. «Dimmi, Alvin, ti sei mai chiestodov’eriprima di nascere, prima di trovarti di fronte a Eriston ed Etania nella Sala della Creazione?»

«Ero soltanto uno schema nella mente della città, in attesa di essere creato così.»

Una piccola poltrona comparve e prese consistenza. Alvin si mise a sedere, e aspettò che Jeserac continuasse a parlare.

«Sei nel vero, ma questa è solo una parte della verità, una piccolissima parte. Finora hai incontrato solo ragazzi della tua età, i quali ignorano tutto. Ma ben presto ricorderanno. Tu no, invece, per cui devi essere preparato ad affrontare i fatti. Per più di un miliardo di anni, Alvin, la razza umana ha vissuto in questa città. Da quando l’Impero Galattico cadde e gli Invasori se ne tornarono sulle stelle, questo è stato il nostro mondo. Oltre le mura di Diaspar non c’è che il deserto di cui parlano le nostre leggende. Sappiamo pochissimo sui nostri antenati, tranne che erano esseri dalla vita brevissima e che, sebbene possa sembrare strano, potevano riprodursi senza l’aiuto delle unità di memoria e degli organizzatori di materia. Per un processo molto complesso e apparentemente incontrollabile, gli schemi-base di ogni essere umano erano conservati in cellule microscopiche all’interno dell’organismo. I biologi potranno darti maggiori spiegazioni, che non hanno molta importanza poiché il metodo è stato abbandonato agli albori della storia. Un essere umano, come qualsiasi altro oggetto, è definito dalla sua struttura, dal suo schema. Lo schema di un uomo è molto complesso, soprattutto lo schema che determina la mente di un uomo. Pure, la Natura riuscì a inserire questi schemi in cellule microscopiche.

«Ciò che la Natura fa, l’Uomo può imitare a suo modo. Non sappiamo quanto tempo ci volle per raggiungere questo scopo. Un milione d’anni, forse, ma che importa? Alla fine i nostri antenati sono riusciti ad analizzare e a fissare l’informazione che avrebbe definito qualsiasi essere vivente, nonché a servirsene per creare nuovamente l’originale, come tu hai creato quella poltrona. So che queste cose ti interessano, Alvin, ma non posso spiegarti con esattezza come si raggiunse questo risultato. Il modo in cui questa informazione è conservata non ha importanza. Ciò che importa è l’informazione in se stessa. Può essere sotto forma di formule scritte, di campi magnetici varianti, o di cariche elettriche. Gli uomini hanno usato questi mezzi di conservazione, e molti altri. Ti basti sapere che molto tempo fa furono in grado di conservare se stessi, o meglio di immagazzinare il loro schema disincarnato grazie al quale potevano essere richiamati in vita.

Sono tutte cose che sai. In questo modo i nostri antenati ci diedero virtualmente l’immortalità, evitando però i problemi che sorgevano dall’abolizione della morte. Mille anni di vita in un corpo bastano a qualsiasi uomo; alla fine di questo periodo la sua mente è carica di ricordi, chiede solo il riposo, o un nuovo inizio.

«Tra poco, Alvin, mi preparerò a lasciare questa vita. Dovrò ripercorrere tutti i miei ricordi, cancellando quelli che non desidero conservare. Poi mi incamminerò verso la Sala della Creazione e vi entrerò da una porta che tu non hai mai visto. Questo vecchio corpo cesserà di esistere, e così la mia autocoscienza. Di Jeserac non resterà che un gruppo di elettroni congelati nel cuore di un cristallo. Dormirò un sonno senza sogni, Alvin. Poi, un giorno, forse tra un centinaio di migliaia di anni, mi ritroverò in un corpo nuovo, incontrerò coloro che saranno scelti a essere miei custodi, i quali mi guideranno come Eriston ed Etania hanno fatto con te, poiché dapprima non saprò nulla di Diaspar e non ricorderò nulla di questa vita. Poi i ricordi si riformeranno lentamente e io li userò come base man mano che avanzerò nel mio nuovo ciclo vitale. Questo è lo schema delle nostre vite, Alvin.

Noi tutti abbiamo vissuto già molte e molte volte, sebbene, poiché gli intervalli di non-esistenza variano secondo leggi apparentemente casuali, la presente popolazione non si ripeterà mai. Il nuovo Jeserac avrà amici diversi e interessi diversi, ma il vecchio Jeserac, o almeno la parte di lui che vorrò salvare, tornerà a esistere.

«Non è ancora tutto. In ogni momento, Alvin, solo un centesimo degli abitanti di Diaspar vive e si aggira per le strade. La grande maggioranza sonnecchia nelle Banche Memoria, in attesa del segnale che li chiamerà nuovamente in vita. Abbiamo così continuità e cambiamento, immortalità ma non ristagno.

«So cosa ti stai chiedendo, Alvin. Vuoi sapere quando ritroverai i ricordi delle tue vite precedenti, come sta già accadendo ai tuoi compagni. Non esistono questi ricordi per te. Tu sei unico. Abbiamo cercato di nasconderti questa verità finché abbiamo potuto, per non turbare la tua infanzia, sebbene tu abbia già sospettato qualcosa. Neppure noi ne siamo stati certi fino a cinque anni fa, ma ormai non c’è più alcun dubbio. Tu, Alvin, rappresenti un fenomeno che si è verificato solo pochissime volte dalla fondazione della città. Forse hai sonnecchiato nelle Banche Memoria durante tutte le ere, o forse sei stato creato solo vent’anni fa da qualche permutazione accidentale. Può darsi che tu sia stato creato all’inizio dai costruttori della città, come può darsi che tu sia solo un incidente casuale dei nostri tempi. Non lo sappiamo. Tutto ciò che sappiamo è questo: tu, Alvin, solo della specie umana, non hai mai vissuto prima d’ora. In parole povere, sei il primo bambino che viene al mondo da almeno dieci milioni di anni.»

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