— Il regolamento stabilisce che basta la maggioranza semplice per procedere alla nomina — disse il comandante. — Questo, naturalmente, si applica nell’eventualità che vi sia più di un candidato. In ogni caso, il candidato eletto deve ricevere almeno il trentatré per cento dei voti. Bene. I candidati possono ora farsi avanti.
Come sempre accadeva quando tutto l’equipaggio si riuniva, la gente era ammassata nel corridoio del ponte principale e negli ambienti attigui, lasciando al comandante solo un minimo spazio per parlare. Lui era in piedi contro la paratia grigia che chiudeva il corridoio a prua. Da lì poteva guardare in faccia tutti coloro che aveva davanti. Il suo sguardo esplorò la folla passando da Leon a Elliot, a Huw, poi Giovanna, Sylvia, Natasha, David, Marcus, Zena, Heinz…
Nessuno però diceva nulla.
Chang e Roy, Noelle ed Elizabeth, Paco, Hesper, Marcus, Bruce, Jean-Claude, Edmund, Althea, Leila, Imogen, Charles. Il comandante guardava negli occhi tutti quanti, ricevendo in risposta solo sguardi inespressivi.
— Il mio mandato scade tra cinque giorni — esortò, ben sapendo di non dare certo una notizia inedita. — Allora, chi vuole succedermi si faccia avanti.
Un oceano di gente a disagio. Imbarazzo, occhiate sfuggenti, silenzio.
— Io propongo Leon — disse finalmente Paco.
— Rifiuto — replicò Leon quasi senza lasciarlo finire, sussultando all’idea di dover parlare. — Non posso fare il medico di bordo e il comandante allo stesso tempo.
— E perché? — chiese il comandante. — Avere una responsabilità non impedisce certo di assumersene altre.
— Per me sì — replicò Leon con lo sguardo torvo. — Non posso fare il comandante. Di conseguenza, devo rifiutare.
— Va bene. C’è qualcuno disposto a farsi avanti?
I suoi occhi cominciarono di nuovo a vagare tra la gente. Innelda, Sieglinde, Julia, Giovanna, Michael, Celeste, Chang, Elizabeth, Hesper, Marcus, Paco, Heinz, Imogen, Zena…
Uno qualsiasi. Uno qualsiasi.
Fu Elizabeth a rompere il lungo, imbarazzato silenzio. — Io propongo che lei, comandante, succeda a se stesso.
Il comandante chiuse gli occhi per un attimo. Eccolo, il colpo basso che si aspettava. — Io ho deciso di non ripresentarmi — rispose, obbligandosi a mantenere la calma.
— Nessuno è più qualificato di lei.
— Sono certo che non è così. Ne sono certo. Ripeto che non ho alcuna intenzione di restare in carica un altro anno.
Si guardò intorno di nuovo, stavolta vagamente disperato. Nessuno parlava. Un dubbio atroce gli attraversò la mente: si erano messi tutti d’accordo per obbligarlo a restare? Ma lui non glielo avrebbe permesso, no. Non potevano averla vinta.
— E va bene — disse allora. — Procederò io a nominare i candidati. Il regolamento non mi vieta di farlo, sapete?
Questo suonò decisamente inaspettato. Tutti si scambiarono delle attonite occhiate, assumendo un’aria inquieta. Nessuno gli stava più di fronte, tranne Noelle che evidentemente non temeva affatto di essere scelta come candidato.
— Heinz — disse il comandante. — Io candido lei, Heinz.
Freddo come sempre, Heinz replicò: — Ah, comandante, sa anche lei che è una pessima idea.
— Intende quindi rifiutare?
Heinz rispose con un’alzata di spalle. — No, no, farò il candidato, se proprio vuole. Ma chiunque voti per me è pazzo da legare.
— Ci sono altri candidati? — chiese il comandante, — Se non vi sono altri candidati, possiamo procedere con la votazione. — Di nuovo, li guardò a uno a uno, quasi implorandoli. Heinz era un candidato impossibile, e certamente lo sapevano tutti. Aveva fatto il suo nome solo per lanciare una provocazione, per smuovere le acque. Ma cosa avrebbe fatto se tutti avessero continuato a tacere? Poteva permettere che il comando andasse a uno come Heinz?
Il salvataggio arrivò in modo del tutto imprevisto. Fu lo stesso Heinz che propose, con un sorriso maligno: — Per me, l’unica a poter assumere il comando è Julia.
Qualcuno ridacchiò per la sua audacia; tuttavia, il comandante si aspettava una cosa del genere da Heinz, un giorno o l’altro. Gli occhi di tutti si spostarono verso Julia. Heinz l’aveva presa alla sprovvista. Il suo volto grazioso appariva rosso come un peperone.
— Julia, intende accettare? — le chiese il comandante.
Sebbene confusa, esitò solo per un istante. — Sì, io… accetto.
Il comandante provò un’ondata di sollievo. L’avrebbe amata per quello, si disse. — Grazie, Julia — disse, cercando di suonare distaccato come sempre. — Vi sono altri candidati? Oppure qualcuno vuole proporre la mozione di chiusura delle candidature?
Combattuto sino alla fine, Paco disse: — Io candido Huw.
— Rifiuto — replicò Huw all’istante. E poi, velocemente: — Io candido Paco.
— Che carogna — commentò amabilmente Paco, e tutti risero. Tutti tranne il comandante, che vedeva l’elezione degenerare in farsa e non lo gradiva affatto. Guardò nuovamente i suoi compagni, cercando di zittire la risata che ancora scuoteva nervosamente il gruppo. Poi il suo sguardo si posò su Noelle. Era la sola persona tranquilla, in quel momento. Come sempre, era in piedi da sola, con espressione serena e impassibile come se assistesse a quella riunione solo fisicamente e la sua mente vagasse su qualche lontano pianeta. E forse era vero. Molto probabilmente stava parlando con Yvonne, raccontando ciò che stava accadendo con l’elezione del nuovo comandante.
— Paco, non rifiuta la sua proposta a candidato? — chiese il comandante.
— Certo che no. Anzi, credo proprio che voterò per me stesso.
Il comandante si sforzò di sopprimere la rabbia. — Abbiamo tre candidati, dunque — dichiarò con tono forzatamente ufficiale. Se fossero diventati più di tre, si disse, sarebbe stato difficile raggiungere il quorum del trentatré percento, i diciassette voti validi per procedere alla nomina. — Qualcun altro vuole intervenire?
— Intervengo io — disse Elizabeth. — Per dire che è ora di votare.
— Approvato — fece eco Roy.
Avrebbero votato notificando al computer di bordo la loro scelta. Il comandante li osservò mentre si mettevano in coda davanti ai terminali, svolgendo qualche veloce calcolo mentale. Le donne, si disse, avrebbero votato quasi certamente compatte per Julia, non solo perché era una donna ma perché non si fidavano dei modi estrosi e irriverenti di Heinz e guardavano con generale ostilità il grezzo atteggiamento di Paco verso la maggior parte delle faccende di qualche importanza. E, con tutta probabilità, anche molti uomini la pensavano così. Pertanto, Julia sarebbe diventata il nuovo comandante. Non era un cattivo risultato. Julia era una persona tranquilla ma decisa, certamente in grado di ricoprire degnamente quell’incarico. Con la sua irriverente ironia, Heinz gli aveva fatto un gran favore: per lui poteva solo provare gratitudine. Ma la maggiore gratitudine andava naturalmente a Julia, che aveva accettato di candidarsi nonostante il pesante carico di lavoro che le dava in quel periodo il controllo della propulsione nel non-spazio. Era per lui che lo faceva, si disse. Doveva aver intuito, nonostante lui non gliene avesse mai parlato, quanto era ansioso di lasciare il comando e di partecipare all’esplorazione del pianeta A.
La votazione richiese solo pochi minuti. Il comandante, che fu l’ultimo a votare, diede il suo voto a Julia.
— Bene — disse, alzando lo sguardo verso la griglia da cui emergeva la voce elettronica del computer. — Adesso il risultato, grazie.
E il computer riferì che Julia aveva ricevuto cinque voti, Heinz due, Paco uno. Astensioni: quarantadue.
Per un istante il comandante rimase allibito. Cercò di parlare, ma per un momento non vi riuscì. Poi in qualche modo l’addestramento di Lofoten gli tornò alla mente e disse, quasi calmo: — Si direbbe proprio che non abbiamo raggiunto il quorum.
— Cosa facciamo adesso? — chiese Zena. — Votiamo di nuovo?
— No. Sarebbe inutile — commentò lentamente il comandante con durezza. Li guardò in faccia a uno a uno, lottando per sopprimere la rabbia che sapeva di non poter esprimere apertamente. — La vostra posizione è più chiara di quanto non sembri. Nessuno di voi vuole fare il comandante.
— Vogliamo che “lei” continui a fare il comandante — gridò Elizabeth.
— Già. Già. Questo in qualche modo l’avevo capito. Grazie. Grazie mille!
Alcuni lo guardarono preoccupati. Stava lasciando trapelare la sua rabbia, pensò.
— E va bene — disse, — L’elezione non ha portato ad alcun risultato. Mi arrendo alla vostra apparente volontà. Resterò in carica un altro anno ancora.
Nel loro posto segreto del magazzino, Julia tentò di consolarlo dall’amaro risultato delle elezioni. Ma, grazie all’addestramento di Lofoten, il comandante aveva già superato la crisi riconciliandosi con se stesso per l’impossibilità di scendere sul pianeta A. Ci sarebbero stati altri mondi da visitare oltre quel primo pianeta e un giorno o l’altro non sarebbe più stato comandante e avrebbe potuto unirsi alle squadre che li avrebbero esplorati. Oppure, era proprio quello il pianeta su cui si sarebbero stabiliti, e quindi lo avrebbe visto e studiato in breve tempo. In ogni caso, non c’era ragione di rimanere in collera. E quindi, il comandante accettò felicemente il conforto del corpo di Julia, dei suoi seni, delle sue labbra, delle sue cosce e del caldo rifugio che si trovava tra di esse, rifiutando però dolcemente qualsiasi tipo di consolazione verbale. Tuttavia, pensò bene di dirle quanto le era grato per aver accettato la candidatura al solo scopo di consentirgli di far parte della squadra di atterraggio. Ciò di cui si guardò bene dal parlare fu quella sensazione molto simile all’amore provata per lei quando aveva accettato la candidatura. Si trattava, comprese in seguito, non di vero amore ma di un caldo impulso di gratitudine. Amore e gratitudine sono cose diverse: uno non si innamora di un altro semplicemente per dei favori ricevuti. Julia gli piaceva, certo; per lei nutriva attrazione e rispetto, e sicuramente amava tutto ciò che accadeva tra loro nell’intimità della loro piccola alcova. Tuttavia non pensava affatto di amarla, e non gli pareva il caso di complicare con discorsi illusori la loro relazione.
Dal canto suo Noelle, estranea alle cose del mondo come sembrava sempre, mostrò una sorprendente comprensione del significato di quella rielezione e dell’effetto che aveva su di lui. — Lei è terribilmente deluso, vero? Ora non potrà più far parte della missione esplorativa — disse il giorno dopo, quando si trovarono da soli per la trasmissione del mattino.
— Deluso, già. Ma non per forza “terribilmente”. Far parte di quella missione era uno dei miei obiettivi, tuttavia sopravviverò anche restando a bordo.
— Le spiace davvero fare il comandante per un altro anno?
— Mi spiace solo di non poter lasciare l’astronave. Restare in carica un secondo anno non mi dà particolarmente fastidio; è una responsabilità che accetto semplicemente come qualcosa che devo fare.
Si voltò verso di lui, trovando i suoi occhi con quella precisione che sembrava negare la sua cecità. — Se qualcun altro fosse stato eletto comandante — disse — io e lei non ci saremmo più incontrati in questo modo. Julia, Paco o Heinz mi avrebbero dettato i messaggi da inviare sulla Terra.
Quello lo lasciò di stucco. Non ci aveva pensato.
— Quindi io sono felice che non sia successo. Mi sarebbe mancato, lo sa? A me piace molto stare… lavorare con lei.
Quelle parole, pronunciate con calma e quasi casualmente, lo agitarono moltissimo. L’affermazione era troppo semplice, troppo infantile per implicare qualcosa di più profondo. Di quello era certo, o perlomeno voleva esserlo. Noelle aveva parlato come si parla a un amico, a un compagno di giochi con cui si incontrava ogni giorno e di cui avrebbe pianto la partenza. E tuttavia lei non era affatto una bambina, vero? Era una donna, una giovane donna di ventisei anni, bella, intelligente e misteriosa. “A me piace molto stare… lavorare con lei.” Sì, proprio così. Quella frase semplice e diretta lo rimestava fin nel profondo, svegliando in lui qualcosa di allarmante, di turbolento e conturbante il cui significato stonava profondamente con l’innocenza delle sue parole. Con una sorta di vaga speranza, guardò il dolce viso di Noelle, cercando di capire cosa le passasse per la mente in quel momento. Ma invano. Lei restò seduta con espressione completamente impenetrabile, come sempre del resto.
Noelle che inviava i messaggi sulla Terra per Heinz. Noelle e Paco…
Quel pensiero fece scattare tutta una serie di collegamenti nella mente del comandante, che si ritrovò a chiedersi se Noelle aveva qualche sorta di coinvolgimento intimo a bordo, se si incontrava con qualcuno in modo diverso da come si incontrava con lui. Un coinvolgimento sessuale, emotivo, qualsiasi cosa. Restava quasi sempre nella sua cabina, almeno per quanto ne sapeva, e quando usciva passava ore intere a giocare a Go, oppure si dedicava alle solite attività di bordo: mangiava, andava alle terme, partecipava agli incontri ufficiali. Nessuno aveva mai avanzato il sospetto che si incontrasse segretamente con qualcuno. Ma non significava nulla. Anche lui e Julia si vedevano ormai da tempo all’insaputa di tutti. L’astronave era grande, la più grande nave spaziale mai costruita dall’uomo, ed era piena di angoli nascosti, stanze, passaggi. Probabilmente vi avvenivano molte cose che nessuno sospettava. Noelle e Paco? Noelle e Huw? Noelle ed Hesper, accidenti, giù nel laboratorio di Hesper pieno zeppo di luci e colori che lei non avrebbe mai visto?
Il flusso di quei pensieri lo stupì per la sua intensità. Si ritrovava perso improvvisamente in un vortice di folle nonsenso.
Nulla stava avvenendo, si disse infine. Nulla che lo riguardasse davvero, in un modo o nell’altro.
Noelle viveva una vita di completa castità. Non vi era probabilmente altra alternativa. Di quando in quando si recava alle terme, certo, e sedeva completamente nuda presso l’acqua fumante. Ma questo che significava? Tutti lo facevano. Ma nessuno l’aveva mai vista amoreggiare con qualcuno. Nessuno l’aveva mai vista unirsi ai giochi nell’acqua, oppure scomparire nelle stanze adiacenti le vasche seguita da un uomo. A bordo dell’astronave lei viveva come una suora. Perché quello era il modo in cui aveva sempre vissuto: anzi, molto probabilmente era ancora vergine, concluse il comandante.
Vergine. Che razza di assurdo concetto medievale. La parola stessa suonava terribilmente antiquata. Oh, forse simili creature esistevano ancora… fino a dodici, tredici anni. Perché no? Ma nessuno ci pensava più, o almeno non più di quanto la gente pensasse agli unicorni.
In ogni caso, vergine o meno, Noelle era certamente un’isola. Lei e sua sorella Yvonne possedevano un legame del tutto personale, in cui nessun altro era ammesso. E se davvero era vergine, si disse, forse la verginità era un requisito indispensabile per il mantenimento del ponte telepatico. Perché lei doveva restare intoccata, e intoccabile. Per cui non potrà mai… non farà mai…
“Ma che diavolo mi sta succedendo?”
Tutto ciò era follia. La sua mente, la sua ordinata e disciplinata mente, si era riempita all’improvviso di speculazioni assurde, di teorie infantili. Si stava comportando come l’adolescente innamorato che non aveva mai voluto essere. Ma perché, perché? Quanto era davvero importante Noelle per lui? Nonostante tutti i suoi sforzi, ormai non poteva negare di provare una forte attrazione per lei. Ne era innamorato? Be’, come minimo la sua splendida, statuaria bellezza esercitava un forte effetto su di lui. “Vuoi provare a portartela a letto?” si chiese brutalmente. “Allora provaci, se lei è interessata quanto te, naturalmente. Ma di sicuro non può essere la suora di clausura che tu immagini!”
In quel momento il comandante si sentì sollevato per la cecità di Noelle, che le impediva di vederlo in volto mentre tutti quei pensieri gli attraversavano la mente.
Mentre lui lottava per riprendere il controllo, Noelle chiese: — C’è qualcosa che non va?
Lei sapeva. Ma certo. Lei non doveva guardarlo in volto per sapere, perché possedeva una fantastica sorta di sensori incorporati, in cui affluivano continue informazioni sullo stato della gente, catturate grazie al modo di respirare, alle sostanze chimiche emesse dai pori della pelle e a tutti i più sottili segnali psicologici che consentivano a un attento osservatore di intuire lo stato di chi gli stava di fronte senza neppure il bisogno di guardarlo. E questi sensori, nei ciechi, erano naturalmente potenziati.
— Stavo pensando — rispose lui, senza mentire del tutto. — Pensavo a quanto sarebbero mancati anche a me questi nostri incontri.
— Ma adesso questo pericolo è passato.
— Sì, per fortuna.
Con delicatezza, lui le prese la piccola mano scura e la strinse tra le sue. Un tenero gesto di affetto, all’apparenza. Poi si obbligò a ricordarle che dovevano lavorare.
— Ho avvertito ancora quella scarica statica, lo sa?
— Davvero? E quando? — chiese lui, grato per il cambio di argomento e furioso al contempo per il tenero momento perduto.
— Stanotte. Sembrava un velo che mi oscurava la mente, un velo che si frapponeva tra me e Yvonne.
— Riesce ancora a contattarla?
— Non ho ancora provato. Crèdo di sì, ma ormai credevo che le interferenze fossero passate e invece…
— Negli ultimi mesi siamo passati nelle vicinanze di diverse stelle — spiegò lui. — E adesso ci stiamo avvicinando a un’altra.
— Sulla Terra mi trovavo a soli centocinquanta milioni di chilometri da una stella — replicò Noelle — e non ho mai avuto alcun problema a contattare Yvonne, anche quando mi trovavo lontana.
— Per quanto lontane potevate trovarvi sulla Terra — disse lui — si trattava sempre di una distanza minima, paragonata alla distanza a cui vi trovate adesso.
— Io continuo a credere che la distanza non conti affatto. Secondo me è qualcosa collegato alla presenza di stelle, ma non ho idea di cosa possa essere. Stelle diverse dal sole, in ogni caso. Non capisco, davvero non capisco — concluse Noelle, e stavolta fu lei a prendere la mano del comandante tra le sue stringendola molto più di quanto lui non avesse pensato di fare prima. — Odio quando qualcosa si frappone tra me e Yvonne. Mi fa paura. È la cosa più terrorizzante che possa immaginare.
E infine arrivò il momento di abbandonare il non-spazio e di decidere se valeva la pena mandare una missione esplorativa sul pianeta battezzato pianeta A da Zed Hesper. Ma prima avrebbero constatato se davvero l’astronave poteva uscire ed entrare nel nonspazio in modo controllabile, e se le informazioni fornite dagli strumenti di Hesper corrispondevano alla realtà dei fatti. Perché non tutti erano certi che la gran mole di dati raccolti sul pianeta A, tutte quelle informazioni incredibilmente dettagliate sulla stella e i suoi pianeti, sulla composizione atmosferica e sulla presenza di calotte di ghiaccio ai poli, costituisse un rapporto veritiero sullo stato reale delle cose. Molti sospettavano che si trattasse piuttosto di una sorta di costruzione fantastica con lo stesso legame con la realtà di quanto potevano averne i canti e le pozioni di uno sciamano preistorico.
Julia aveva la responsabilità del primo test, quella di portare l’astronave fuori dal non-spazio. Riuscirvi era soprattutto questione di elaborare le appropriate sequenze di comando, inserirle nel sistema di navigazione intelligente e lanciare il programma in presenza del comandante, che doveva dare un avallo formale. E poi aspettare che accadesse quello che si supponeva che dovesse accadere. Così fecero, passaggio dopo passaggio. E alla fine si resero conto che la manovra aveva avuto successo.
Inizialmente, parve loro che nulla fosse cambiato. Nessuna sensazione indicò il loro ingresso nel nonspazio, e nessuna ne segnalò la loro uscita. Nessuna sensazione di stravolgimento, niente spettrali lamenti o lunghi sibili nei corridoi, nessuno sfavillio di incredibili colori su e giù per lo spettro visivo umano e forse anche oltre.
In effetti, nulla indicava un cambiamento a bordo della Wotan. La continua, pulsante nebbia grigia composta di campi energetici interconnessi che li aveva avvolti per un intero anno era scomparsa all’improvviso, incredibilmente, miracolosamente, e i viaggiatori si ritrovarono a contemplare un cielo nero inchiostro in cui brillava un caldo sole dorato affatto diverso da quello sotto cui erano nati. Attorno a quel sole orbitava una serie di fedeli pianeti: il primo, il secondo, il terzo… sei pianeti in tutto, almeno a un primo esame. Quella vista era semplicemente maestosa a confronto del misterioso ma monotono involucro di non-spazio che aveva avvolto la Wotan per un intero anno come una seconda pelle. I viaggiatori assiepati davanti alla vetrata ruppero in applausi, risate, persino in lacrime.
Il comandante parlava intanto con Zed Hesper, che aveva deciso di restare nel suo laboratorio fino all’ultimo. — Che ne dice, Hesper — chiese. — Siamo arrivati a destinazione, oppure no?
Si, erano arrivati, rispose Hesper. Le correzioni di rotta eseguite nel non-spazio si erano dimostrate perfette (congratulazioni a Paco per la precisione dimostrata) e ora si trovavano proprio nel mezzo del sistema solare che comprendeva il pianeta A. Era il quarto dei sei pianeti di quella stella G2, ricordò Hesper al comandante.
Vederlo però non era facile; e certo non si poteva sperare di scorgerlo dalla grande vetrata. Prima bisognava determinare quale di quei pianeti fosse il quarto in relazione alla sua stella: se la posizione della Wotan fosse stata idealmente inclinata di novanta gradi sul piano dell’ellittica, i sei pianeti sarebbero comparsi sugli schermi perfettamente allineati in base alla distanza dal loro sole. Tuttavia la Wotan non si trovava affatto in una posizione tanto favorevole: anzi, il punto di emersione dal non-spazio offriva una panoramica inclinata, parziale è frammentata di quel sistema solare, e ognuno dei pianeti si presentava in punti diversi, alcuni al perielio, altri all’afelio; di conseguenza apparivano sparsi a casaccio in un’ampia porzione di cielo.
In ogni caso, a Hesper bastò qualche calcolo veloce per individuare il pianeta A. Hesper sapeva tutto di ciò che accadeva in cielo. Riferì l’esito dei suoi calcoli al comandante, e questi inquadrò con tutti gli strumenti l’oggetto della loro ricerca.
Sembrava un pianeta abitabile.
Sembrava “il” pianeta abitabile. Il pianeta dei loro sogni; la casa lontani da casa; la Nuova Terra a lungo cercata attraverso le immense distanze interstellari.
Tutte le analogie e le equivalenze informatiche di Hesper si stavano dimostrando incredibilmente accurate. Sembrava un miracolo che quel piccolo uomo dal naso a becco fosse riuscito a elaborare informazioni tanto precise, lavorando sulle confuse equivalenze del non-spazio. Il pianeta A appariva esattamente come aveva previsto: un pianeta di tipo terrestre su cui spiccava il blu degli oceani, il verde della vegetazione, il marrone del suolo. Il polo nord sembrava coperto da una sottile e tentacolare cappa di ghiaccio, mentre il polo sud presentava una cappa di ghiaccio meno estesa ma più compatta. Candidi cumuli punteggiavano il cielo di quello che sembrava un pianeta dotato di atmosfera.
— Stappate lo champagne! — gridò Paco. — Siamo a casa!
Ma non c’era champagne perché la scorta portata dalla Terra era finita la sera della festa del sesto mese, e il vino sintetico preparato a bordo dell’astronave andava fermentato una seconda volta. E, d’altro canto, non erano ancora a casa, nonostante la sorprendente somiglianza di quel pianeta con la Terra. Nulla ancora garantiva loro la possibilità di stabilirvisi. Anzi, il comandante continuava a pensare che le probabilità di trovare il pianeta che cercavano al primo tentativo erano le stesse che avevano quattro giocatori di poker di ritrovarsi in mano quattro scale reali allo stesso momento.
Tuttavia il primo approccio era promettente, inutile negarlo. Il comandante non fu sorpreso né dispiaciuto dall’uscita di Paco. Quelle uscite erano una delle sue specialità. E poi era già un successo non da poco essere riusciti a giungere fin lì. Sì, in effetti avevano tutti i motivi per una piccola festa, anche se quel pianeta non era, probabilmente, quello che cercavano.
A quel punto bisognava indirizzare la corsa dell’astronave per portarla in orbita attorno al pianeta A. Quello significava che Julia aveva senz’altro da lavorare, poiché il viaggio nel non-spazio avveniva al di fuori dei classici schemi concettuali newtoniani riguardanti le leggi del moto, e quindi “l’accelerazione” che il propulsore interstellare impartiva alla Wotan durante la traversata e la conseguente “velocità” non avevano alcuna relazione con il moto dell’astronave dal momento in cui era uscita dal non-spazio. Dato che la Wotan si trovava in orbita attorno alla Terra nel momento in cui aveva abbandonato lo spazio normale, si ritrovava a quel punto a procedere alla stessa velocità. All’atto pratico, era come se l’astronave stesse ancora orbitando attorno alla Terra, solo che la Terra non era più vicina da tempo.
Quindi Julia doveva apportare le necessarie correzioni. La Wotan non era equipaggiata per lunghi viaggi nello spazio normale, ma possedeva comunque motori abbastanza potenti per muoversi in un sistema solare. L’operazione in sé non presentava eccessive difficoltà, e difatti Julia comunicò poco tempo dopo il successo delle manovre.
Nel frattempo Marcus e Innelda, gli esperti di ricerca planetaria, stavano compiendo un’analisi strumentale del pianeta che speravano di esplorare. Non aveva senso, infatti, sprecare tempo ed energia inviando una sonda, per non parlare di una squadra di esplorazione, se le letture dei dati riguardanti la composizione atmosferica e l’attrazione gravitazionale del pianeta A fossero risultate negative.
I dati forniti da Hesper, comunque, si confermavano davvero inattaccabili. La gravità equivaleva al novantatré percento della gravità terrestre, un valore ragionevole, quasi tentatore; l’atmosfera era composta di ossigeno e azoto, con meno ossigeno e più azoto dell’atmosfera terrestre ma comunque respirabile. Vi erano inoltre tracce di anidride carbonica, argon, neon, elio, nessuno di questi in percentuali identiche a quelle terrestri, ma comunque abbastanza vicine da risultare accettabili. Nessun segno di idrogeno libero nell’atmosfera, che avrebbe significato la presenza di temperature troppo basse. E, infine, vi era una rincuorante presenza di vapore acqueo, non molto in effetti, ma sufficiente. Un posto alquanto arido quel pianeta, ma arido come l’Arizona, non come Marte. E poi c’era il metano, quel poco di metano già riscontrato da Hesper. Ciò indicava con forte probabilità che su quel pianeta avevano luogo dei processi vitali. Non era ancora una certezza, poiché il metano poteva anche provenire da un qualche tipo di limitata attività vulcanica, ma tutto sommato la possibilità che quel pianeta ospitasse degli organismi viventi che crescevano, mangiavano, digerivano, defecavano, morivano e si decomponevano, tutti processi che producevano metano, era abbastanza alta.
Innelda e Marcus presentarono quindi un rapporto positivo. In base a ciò che si poteva dedurre dall’analisi strumentale a distanza, valeva la pena inviare una sonda sul pianeta A. C’era acqua, come minimo in quantità moderate; c’era aria riconoscibile come aria; la gravità era compatibile. Insomma, le analisi preliminari indicavano che quel pianeta poteva sostenere la vita, una vita terrestre. D’altra parte, non era possibile rintracciare la presenza di forme di vita evolute che possedessero già il pianeta. Nessuna città visibile dall’alto, nessuna strada, nessuna costruzione di qualsiasi tipo. Nessuna emissione radio proveniva dal pianeta A, e nulla altro di percettibile nell’intero spettro elettromagnetico. Nessun satellite artificiale orbitava attorno al pianeta. E tutto ciò era assolutamente positivo. I viaggiatori delle stelle non avevano alcuna intenzione di muovere alla conquista di eventuali civiltà aliene, né di mercanteggiare con regali e specie viventi la loro pemanenza in mezzo a comunità preesistenti. Il regolamento di bordo stabiliva chiaramente che la Wotan doveva evitare l’atterraggio su qualsiasi pianeta apparentemente abitato da creature intelligenti, La definizione di “creatura intelligente” era lasciata al comandante, ma in ogni caso era chiaro che l’intrusione in una civiltà in sviluppo andava assolutamente evitata.
Nell’universo esistevano, presumibilmente, abbastanza pianeti abitabili privi di razze dominanti intelligenti da rendere qualsiasi tipo di intrusione non solo moralmente inaccettabile, ma anche non necessaria. Quelle regole potevano applicarsi o meno anche al pianeta A, ma tuttavia costituivano un ottimo principio morale con cui iniziare la loro odissea galattica. In ogni caso, già qualcuno a bordo mormorava che quell’impostazione poteva anche essere rivista, più avanti nel tempo, se le circostanze lo avessero richiesto.
Naturalmente, il comandante accolse con istintivo sospetto i dati incoraggianti che Marcus e Innelda gli presentarono. Era implicito nella sua natura diffidente ritenere che sarebbe stato troppo bello se il primo pianeta esplorato si fosse rivelato quello adatto per stabilire la colonia. A meno che ogni sistema solare della galassia contenesse uno o due pianeti di tipo terrestre: ma in tal caso perché fino a quel momento non sì era trovata traccia di vita intelligente nei sistemi più vicini alla Terra? Se davvero la galassia comprendeva milioni o anche miliardi di pianeti di tipo terrestre, perché solo sulla Terra si era affermato un certo tipo di civilità?
In altre parole: cosa nella galassia aveva una possibilità su un miliardo di svilupparsi? La verde e piacevole Terra (ma, in tal caso, come avevano potuto scoprire un pianeta tanto simile al primo tentativo?) oppure la galassia era piena di pianeti di tipo terrestre e la razza umana costituiva la vera anomalia? Il comandante non ne aveva idea. Forse avrebbero trovato qualche risposta più avanti nel tempo, si disse. Tuttavia, la relativa facilità con cui avevano trovato quel pianeta, apparentemente abitabile ma privo di forme di vita intelligenti, lo sconcertava.
In ogni caso, ora l’azione passava al dipartimento di Huw. Era lui il responsabile dell’esplorazione planetaria. Quasi certamente avrebbe lanciato una sonda equipaggiata sulla superficie del pianeta per prelevare campioni significativi dell’ambiente che li attendeva.
La Wotan era dotata di tre sonde automatizzate, e aveva le strutture per costruirne altre in caso di necessità. Tuttavia, costruire altre sonde per sostituire le tre già pronte avrebbe richiesto un notevole impiego di risorse materiali ed energetiche, e quindi Huw intendeva adottare ogni precauzione per riportare felicemente a bordo ogni sonda lanciata. Ecco perché simulò in continuazione l’atterraggio per ben tre giorni prima di procedere al lancio effettivo.
Il lancio, peraltro, andò perfettamente. La sonda emerse senza scosse dal ventre dell’astronave e scese a spirale verso il bersaglio con assoluta accuratezza, entrando in orbita a circa ventimila chilometri sulla superficie del pianeta. A questo punto ebbe inizio un’estesa ricognizione ottica, con immagini che continuarono a confermare la probabile assenza di forme di vita superiori.
Dopo aver orbitato attorno al pianeta A per un giorno intero, correggendo più volte la rotta per assicurare la completa copertura visiva di tutte le terre emerse, la sonda entrò in modalità di atterraggio e scese in una grande savana, nel cuore della più grande e più secca massa continentale del pianeta. Lì, radiocomandata da Huw che seguiva ogni cosa sui monitor a bordo della Wotan, cambiò parzialmente struttura per adattarsi all’esplorazione a terra, estromettendo due serie di ruote cingolate per poi avviarsi lungo un percorso circolare dal raggio di cento chilometri. Su comando di Huw, braccia meccaniche spuntavano di tanto in tanto dal corpo centrale per raccogliere campioni di tutti i tipi: suolo, atmosfera, minerali, parti di vegetazione, qualsiasi cosa risultasse meritevole di studio e analisi. Dopo aver concluso l’ampio tragitto, la sonda ripartì nuovamente e, volando a bassa quota, raggiunse l’altro emisfero del pianeta. Le condizioni climatiche erano più o meno le stesse, anche se di poco meno aride, e la sonda raccolse una seconda serie di campioni. A quel punto Huw, soddisfatto di come erano andate le cose, lanciò il segnale di rientro e la sonda ripartì per tornare alla Wotan.
Per nove giorni una squadra di sette esperti, vestiti da capo a piedi con tute spaziali come misura precauzionale, analizzarono i campioni riportati dalla sonda in una delle camere sterili del grande laboratorio della Wotan. Il comandante, che aveva assegnato a se stesso le ricerche biologiche, trovò dei batteri nei campioni di suolo, vari tipi di protozoi nel campione d’acqua e parecchi insetti a dieci “zampe dotati di una robusta corazza nei campioni misti di terra e vegetazione. Studiò quelle creature con un misto di timore e di venerazione: dopotutto, si trattava delle prime creature multicellulari aliene mai scoperte dall’uomo, e lui poteva solo sperare che non fossero le uniche.
L’analisi biologica non rivelò nulla di apertamente tossico nei campioni prelevati, mentre l’analisi dell’aria confermò che l’atmosfera del pianeta A era con tutta probabilità compatibile con le esigenze dei polmoni di creature nate e cresciute sulla lontana Terra. I batteri messi a coltura non diedero luogo ad alcuna interazione con i microorganismi terrestri con cui dividevano lo spazio. Non li attaccarono e non vennero attaccati. Ciò poteva rappresentare o meno un segno positivo: restava da vedere se la biochimica del pianeta A era compatibile con quella terrestre. La reciproca indifferenza tra le colonie di batteri poteva anche indicare che gli eventuali coloni umani avrebbero trovato molte difficoltà a digerire e assimilare il cibo prodotto localmente.
Anche altre interessanti domande non trovarono risposta in quello stadio dell’esplorazione planetaria. Per esempio, l’aria poteva contenere qualche specie di virus in grado di provocare nuove, sconosciute malattie ai colonizzatori umani? I pochi campioni atmosferici raccolti qua e là potevano anche non rivelarlo. E che dire della possibile presenza di amminoacidi letali nella carne dei locali equivalenti delle mucche e delle pecore, sempreché esistessero? O alcaloidi nocivi nelle locali versioni di mele e asparagi? I campioni raccolti dalla sonda non potevano rivelare simili particolari: per rispondere bisognava procedere nel modo più lungo e difficile, con tempo e pazienza, scendendo sul pianeta e analizzando tutto ciò che trovavano.
Infatti, Huw propose: — A questo punto ritengo che la sola cosa da fare sia inviare qualcuno laggiù, comandante.
Il comandante ne era perfettamente consapevole; tuttavia quelle parole ebbero su di lui lo stesso effetto di un pugno al plesso solare. Ma subito dopo sperò di non aver dato mostra del suo dolore. Ora bisognava scegliere i membri della squadra di esplorazione, e naturalmente lui non ne avrebbe fatto parte. Nonostante l’addestramento di Lofoten, sentiva di essere probabilmente destinato a rammaricarsi a lungo per l’obbligo di restare a bordo.
— Per questa missione servono tre volontari — disse. — Huw, è ancora convinto di voler assumere il comando della squadra?
Con un largo sorriso, Huw replicò: — Lei mi ha appena convinto a fare il mio dovere sino in fondo, amico mio.
— Innelda — chiamò quindi il comandante. — Lei si offre volontaria per scendere laggiù?
Innelda, una donna dagli occhi a mandorla slanciata e imperiosa, non venne presa alla sprovvista più di Huw da quella richiesta. Tutti a bordo erano addestrati ad analizzare dei possibili ambienti alieni e a reagire alle insidie che quegli ambienti potevano presentare: le loro vite potevano dipendere, in ultima analisi, dalla razionalità con cui affrontavano delle situazioni ignote. Tuttavia, le conoscenze di Innelda in quel campo non erano solo parte dell’addestramento, ma costituivano la sua specializzazione scientifica.
— E infine — aggiunse il comandante, suscitando grande attesa da parte di tutti per il nome del terzo prescelto — dato che mi sembra necessario saperne di più sulla vita animale e vegetale di questo pianeta, ho deciso di integrare la squadra con un esperto biochimico. Il suo compito sarà di stabilire se l’organismo umano potrà alimentarsi con le piante e gli animali presenti sul pianeta o se sarà necessario creare delle fonti di cibo alternative, manipolando geneticamente ciò che abbiamo portato dalla Terra. — Il suo sguardo si fermò su Giovanna. — Questo è il suo campo, immagino. Vuole scendere laggiù con gli altri, Giovanna?
La reazione generale fu di attonita sorpresa. Non perché aveva chiesto a un biochimico di scendere sul pianeta A con gli altri, dato che Giovanna era qualificata come il comandante per occupare il terzo posto, ma perché l’aveva chiesto a un’altra donna. Tutti, ormai, avevano sentito e discusso la tesi di Paco sull’inopportunità di rischiare la vita di possibili madri nell’esplorazione di pianeti sconosciuti, e ora il comandante si accingeva a mandare sul pianeta A non una sola donna ma due, cioè l’otto per cento della parte femminile dell’equipaggio. Si trattava forse di un velato rimprovero a Paco? Oppure il comandante concordava pienamente con Paco e quello era il suo modo di far capire loro che la forzata rielezione lo obbligava a mandare Giovanna?
Nessuno lo sapeva e nessuno aveva intenzione di chiederlo, anche perché, chiaramente, il comandante non aveva alcuna intenzione di rispondere. La scelta era caduta su Huw, Innelda e Giovanna e loro avevano accettato, per cui sarebbero scesi. Huw e Giovanna, ricordarono alcuni, stavano insieme all’inizio del viaggio ed erano rimasti buoni amici: senza dubbio avrebbero lavorato bene. Perlomeno, la loro scelta incontrò il favore generale.
Ciò a cui il comandante dedicava i suoi pensieri, comunque, era il fatto di rischiare la vita senza prezzo e insostituibile di tre membri del suo equipaggio. Uomini o donne, non faceva alcuna differenza: lui non voleva perdere nessuno, ma ormai bisognava rischiare, e personalmente odiava quell’idea. L’unica, quindi, era comporre la squadra esplorativa in modo tale che le eventuali perdite, se proprio dovevano verificarsi, non avrebbero messo in pericolo il proseguimento della missione.
Ormai, inviare una squadra umana era un passo necessario. Fino a quel momento, tutti i controlli effettuati sull’abitabilità del pianeta A avevano dato risultati positivi, e qualcuno doveva pur scendere per verificare di persona che tipo di ambiente vi regnava. Tuttavia, i primi a scendere potevano anche non tornare più. Esisteva sempre la possibilità che una sorpresa orribile e persino fatale attendesse i primi esseri umani che vi ponevano piede. Volendo, in effetti, anche il viaggio sulla navetta di esplorazione rappresentava un pericolo. La navetta automatizzata che avrebbero utilizzato per l’esplorazione offriva la massima semplicità e robustezza ed era stata provata e riprovata, ma era solo una macchina. E le macchine potevano guastarsi. Alcune di esse si guastavano rapidamente, altre dopo migliaia e migliaia di ore di funzionamento, ma comunque tutte si guastavano. E un guasto in quella situazione rappresentava un evento dalla portata imprevedibile.
Un guasto, un’esplosione durante la discesa, un cattivo atterraggio, una partenza difettosa avrebbero comportato una terribile perdita, sia dal punto di vista umano che da quello della missione. Razionalmente parlando, i componenti dell’equipaggio della Wotan non erano certo facilmente spendibili, ma in quel momento alcuni risultavano più necessari di altri. Il comandante ci aveva pensato a lungo prima di effettuare le sue scelte. A bordo dell’astronave c’era una considerevole abbondanza di capacità, certo, ma diversi membri dell’equipaggio erano assolutamente indispensabili, e perderne anche uno solo sarebbe stato un brutto colpo da assorbire. Huw era uno di quelli. Nessuno meglio di lui poteva affrontare l’imprevedibilità degli ambienti alieni, ma proprio per questo doveva far parte della prima missione. Il comandante poteva solo augurarsi che Huw tornasse indietro, anche perché continuava a dubitare che quello fosse il pianeta giusto, e quindi prevedeva nuove missioni esplorative su altri pianeti. Aveva trascorso ore e ore a pensare a possibili alternative a quella scelta, ma sembrava proprio che non ne esistessero. Per contro, la perdita di Giovanna o di Innelda sarebbe stato un duro colpo, ma altri a bordo potevano svolgere i loro compiti altrettanto bene. E se una delle due donne, o tutte e due, si fosse rifiutata di scendere, aveva in mente altri cinque, sei nomi di elementi che poteva inviare senza particolari problemi pratici. Alcuni, però, non avevano mai fatto parte della sua lista. Quelli che non poteva mai rischiare in nessuna circostanza erano Hesper, Paco, Julia e Leon: Hesper perché localizzava i pianeti di tipo terrestre da esplorare, Paco perché vi dirigeva l’astronave, Julia perché faceva seguire all’astronave la rotta tracciata da Paco e Leon perché li manteneva tutti in perfetta salute, in attesa di trovare il pianeta giusto per stabilirvi la colonia. Vista l’incertezza del momento sull’abitabilità del pianeta A per gli esseri umani, era possibile che dovessero ricorrere a nuovi balzi nel non-spazio. E, senza le capacità fondamentali di quei quattro elementi, non vi sarebbe stato bisogno neppure delle capacità degli altri, l’agronomo, il supervisore della banca degli embrioni, l’ingegnere edile e via dicendo.
A bordo vi era un’altra persona non spendibile: Noelle. Il comandante considerava completamente assurda l’ipotesi di aggregarla a qualsiasi titolo a una squadra di esplorazione planetaria. “Noelle, sei un fiore raro e prezioso, sei la salvezza della Terra. Non metterei mai a rischio la tua vita, mai, mai!”
Non molto dopo, il comandante la convocò nella sua cabina. — Com’è oggi la qualità del contatto?
Negli ultimi tempi la strana interferenza andava e veniva, presentandosi o scomparendo senza alcuna ragione apparente. In ogni caso, sembrava non riguardare la loro posizione nello spazio o la prossimità di certi tipi di stelle.
Quello era uno dei giorni migliori, gli riferì subito Noelle.
— Bene — disse lui. — Invii subito il messaggio, allora. Faccia sapere alla Terra che stiamo per effettuare il nostro primo atterraggio su un pianeta. Dica loro di incrociare le dita. E che preghino, se ricordano ancora come si fa. E, se non lo ricordano, che consultino qualche vecchio libro di preghiere.
Sembrava che Noelle non avesse capito cosa intendeva.
— Preghiere?
— Oh… sono suppliche alle forze universali per ottenere qualche favore — spiegò. E poi: — Non importa. Si limiti a dire loro che stiamo per inviare tre persone sul pianeta A per verificare se si tratta davvero di un posto sul quale possiamo vivere.
Per Huw, quello era il grande momento della sua carriera, il momento in cui avrebbe preso possesso della scena per mantenerlo. Stava per diventare il primo essere umano a porre piede su un pianeta di tipo terrestre orbitante in un altro sistema solare.
Aveva trascorso gli ultimi tre giorni a riconfigurare la navetta automatizzata in dotazione alla Wotan, adattandola anche alla guida manuale. A differenza della sonda già inviata sul pianeta A, di cui esisteva una versione identica rimasta a bordo, la navetta era abbastanza spaziosa da trasportare un equipaggio di tre o quattro persone, ed era concepita esattamente per delle missioni esplorative come quella che si accingevano a eseguire. Il programma base prevedeva delle brevi ricognizioni sotto lo stretto controllo del computer di bordo dell’astronave madre, ma questo non bastava a Huw che voleva pilotarla di persona sia nella fase di avvicinamento al pianeta che nella fase di ricognizione vera e propria. Infine, dopo tre giorni di programmazione, simulazione e controlli, diede il suo benestare all’inizio della missione.
La composizione della squadra però aveva subito un cambiamento rispetto a tre giorni prima. Durante una sorta di festino celebrativo nelle terme a cui partecipavano Paco, Heinz, Natasha, Innelda e due o tre altri, Innelda era scivolata malamente (secondo la sua versione a causa di una mano indiscreta sulle natiche), procurandosi una brutta slogatura a una caviglia. Di conseguenza, Leon le aveva prescritto una settimana di assoluto riposo; Innelda non si sognava neppure di restare ferma a letto, ma dato che doveva spostarsi con le stampelle e Huw non aveva intenzione di rimandare l’atterraggio, sembrò opportuno a tutti sostituirla con qualcun altro. E così, con l’avallo del comandante, Innelda venne sostituita da Marcus, la cui esperienza di planetografo equivaleva sotto molti aspetti a quella di Innelda. Innelda reagì con rabbia alla sostituzione, ma le sue proteste caddero nel vuoto.
Non molto tempo dopo, avrebbe scoperto che l’autore di quel tiro mancino (probabilmente Paco, anche se nessuno lo accusò apertamente) le aveva fatto il più grande favore della sua vita. Ma quelle cose appaiono chiare solo dopo, quando ormai tutto è successo.
Le figure quasi aliene in tuta spaziale di Huw, Giovanna e Marcus diedero vita a una piccola, gloriosa processione quando marciarono, attraverso le viscere dell’astronave, dirette all’hangar in cui si trovava la navetta. L’intero equipaggio si radunò per vederli, tutti tranne Noelle, stremata da un contatto alquanto faticoso occorso quella mattina con sua sorella, e addormentatasi nella sua cabina, e l’adiratissima Innelda, che aveva scelto di rinchiudersi nella propria cabina in segno di protesta, rimuginando sul suo destino come un furioso Achille. Huw apriva la processione, salutando maestosamente a destra e a manca come il suo glorioso antenato in partenza per il Nuovo Mondo. Sicuramente, quel giorno il suo sangue celtico ribolliva d’orgoglio. Cos’erano mai quelle piccole escursioni su Venere, Ganimede, Callisto in confronto a tutto ciò?
Lui, Giovanna e Marcus si sistemarono nei comodi sedili della navetta. Il portello si chiuse. La pressurizzazione cominciò, il grande portello della Wotan si aprì e la navetta scivolò fuori silenziosamente, separata dalla nave madre, emergendo nello spazio aperto.
Una leggera accensione dei razzi, un rapido tocco della mano guantata di Huw su un tasto del quadro comandi, e la navetta si allontanò definitivamente dalla Wotan, puntando verso il pianeta A. Presto la grande massa azzurra, marrone e verde del pianeta fu l’unica cosa che i tre esploratori poterono vedere nell’oblò di fronte alle poltrone di accelerazione. Le dimensioni del pianeta crebbero in modo incredibilmente veloce a mano a mano che si avvicinavano: era un pianeta grande come la Terra, ma ai loro occhi appariva come una specie di Giove. Un anno trascorso nell’isolamento del non-spazio aveva dato loro l’impressione che la Wotan fòsse il solo oggetto concreto dell’universo; ora ce n’era un altro.
Nonostante Huw fosse definitivamente il responsabile e potesse assumere in ogni momento il controllo della navetta, il compito insidioso di calcolare la traiettoria migliore per l’ingresso nell’atmosfera venne svolto dal sistema di guida intelligente della Wotan. Una semplice questione di opportunità: simili calcoli erano la specialità di quei sistemi, e le loro reazioni ai possibili errori erano mille volte più veloci delle reazioni di Huw. E così, il gallese si limitò a guardare, annuendo con approvazione a mano a mano che la manovra di avvicinamento si compiva. Il punto stabilito per l’atterraggio si trovava sul più invitante dei quattro continenti del pianeta, a pochi chilometri da una costa sabbiosa. Quel continente sembrava offrire il clima più temperato, meno caldo degli altri, in ogni caso, e probabilmente bagnato di quando in quando da qualche pioggia. L’intenzione era quella di esplorare a piedi il territorio compreso tra il punto di atterraggio e la costa, con un dettagliato esame delle acque dell’oceano per verificare se ospitassero qualche tipo di forma di vita marina.
Ormai si trovavano a poche centinaia di chilometri dalla superficie. Nonostante le aspettative, il territorio sotto di loro appariva desolato e inospitale. Spelacchiate distese giallo-marrone punteggiate di arbusti senza foglie strani e contorti, basse formazioni rocciose modellate dal vento: in ogni caso, nulla di interessante dal punto di vista geologico. Molto lontano, a est, si intravedeva il profilo di basse colline, o forse di un altipiano. Certo che il pianeta A non aveva molto da offrire in fatto di montagne, pensò Huw. Era un paesaggio noioso e vagamente moribondo, eroso, appiattito, in cui probabilmente nulla era accaduto da milioni e milioni di anni.
Tutto sommato non si trattava di un posto molto promettente per fondarvi la prima colonia della Nuova Terra. Ma ormai erano scesi, e avrebbero guardato quello che c’era da vedere.
— Manovra di atterraggio — riferì Huw al comandante che seguiva ogni cosa nella sala comandi della Wotan, ventimila chilometri sopra di loro, mentre la navetta percorreva gli ultimi chilometri perfettamente guidata e assistita. Stavano per atterrare giusto al centro di una grande formazione rocciosa a forma di ciotola, forse un antico cratere creato da una poderosa collisione cosmica, posta in una vasta pianura semidesertica.
L’ambiente, osservò Huw, non sembrava affatto di tipo terrestre, visto da distanza ravvicinata. Il cielo aveva una vaga sfumatura verdastra. La posizione del sole non appariva per nulla corretta, spostata com’era di diversi gradi rispetto all’orizzonte. Guardarlo dava onestamente fastidio. Le sole cose vive nei dintorni erano degli arbusti dalle cime gialle che crescevano qua e là sulla cima della conca in cui si trovava la navetta. Avevano uno strano tronco centrale nero come la pece, che saliva spiraleggiando come un cavatappi e da cui si protendevano degli stentati ramoscelli. Piante di un altro mondo, nulla da dire. Persino il modo in cui crescevano era strano, dato che formavano degli anelli ellittici lunghi e stretti, composti forse da un centinaio di arbusti. Inoltre, ogni anello appariva ben distanziato dagli anelli vicini, come se si trattasse dei confini di qualche impossibile giardino. Ma quello era un deserto, su un pianeta apparentemente disabitato, e quella strana figura geometricamente perfetta non poteva certo essere un giardino. Tuttavia c’era qualcosa di sbagliato anche in quegli assurdi anelli vegetali.
Le formazioni rocciose attorno a loro, nere e spiraleggianti piramidi dai bordi frastagliati, ispiravano lo stesso indefinito “disagio”. Ma forse era perché annunciavano, a livello sottilmente palese, che avevano subito dei processi di formazione e di erosione ben diversi dalle rocce terrestri.
Secondo quanto stabilito, Huw sarebbe stato il primo a uscire dalla navetta. Era lui l’esploratore planetario e il comandante della spedizione: quello era il suo spettacolo, dal primo all’ultimo momento. E lui era assolutamente ansioso di uscire, di scendere la scaletta e di porre piede su quel pianeta sconosciuto, pronunciando le parole che le circostanze imponevano al primo visitatore terrestre di un pianeta di un’altra stella. Tuttavia Huw era un esploratore troppo esperto per precipitarsi fuori alla cieca, nonostante la gran voglia di farlo che provava in quel momento. Prima bisognava controllare ogni dettaglio dell’atterraggio, determinare e registrare la loro posizione, rilevare la temperatura esterna, scandagliare il fondo della conca per accertarsi che la navetta non si trovasse in una posizione instabile e non s’inclinasse su un lato nel momento stesso in cui scendevano, e così via. Tutto quel lavoro richiese circa un’ora.
Avevano quasi finito e si apprestavano a scendere quando Huw constatò, con qualche sorpresa, di sentirsi molto strano.
Strano, già. Profondamente a disagio. Nauseato. Persino un po’ spaventato.
Si trattava di sensazioni assolutamente insolite per lui. Huw era un uomo robusto e sanguigno, e sensazioni quali lo sgomento, l’apprensione, l’inquietudine e la paura gli risultavano del tutto estranee. Era prudente e circospetto, qualità apprezzabili in un uomo che dedicava con il massimo piacere la propria vita all’esplorazione di ambienti alieni spesso pericolosi, ma la tendenza all’ansietà non faceva certo parte del suo carattere.
Tuttavia quella che provava adesso non poteva essere altro che ansietà. Ne era certo, perché ne avvertiva gli inequivocabili sintomi: un’insolita stretta allo stomaco, un nodo alla gola che rendeva difficile deglutire, insomma tutti i sintomi comunemente descritti come sintomi di ansietà. E l’ansietà era una parente stretta della paura. Fino a quel momento non aveva mai provato nulla di simile, ma d’altro canto non poteva dire di aver mai provato la minima paura.
Ma che strano, si disse. Quel posto era infinitamente meno minaccioso di Venere, dove la temperatura più gradevole lo avrebbe cotto al forno nel giro di minuti e una singola boccata d’aria sarebbe bastata a corrodergli i polmoni in modo irrimediabile, e tuttavia Venere non gli aveva ispirato neppure l’ombra di quelle sensazioni. Perché su Venere al massimo poteva morire, e lui era convinto che quel tipo di morte non fosse ciò che il destino aveva in serbo per lui. E, comunque, aveva accettato ormai da tempo la morte come una possibile conseguenza di qualche errore nel suo lavoro. Nessun timore lo aveva dunque sfiorato anche durante l’esplorazione di Mercurio, di Ganimede, della ruggente, vulcanica Io e di tutti gli ostili ma affascinanti pianeti e satelliti del sistema solare. E allora perché quella sensazione di… di terrore lo inchiodava al suo posto, nonostante indossasse una tuta spaziale del modello più avanzato e si trovasse nel sicuro ambiente pressurizzato di un’elegante, robusta navetta spaziale?
Ormai era quasi giunto il momento di uscire, Huw lanciò un’occhiata a Giovanna, rannicchiata nella poltroncina antiaccelerazione alla sua destra, e a Marcus, tremante alla sua sinistra. Poteva vedere solo i loro volti, e nessuno dei due sembrava particolarmente felice. Marcus tremava, certo, ma dopotutto era un tipo emotivo e… be’, tremava sempre. Ma anche l’espressione di Giovanna tradiva una profonda apprensione. Tuttavia, si disse Huw, poteva anche trattarsi di concentrazione: probabilmente Giovanna stava pensando agli esperimenti che intendeva eseguire in superficie.
La fastidiosa sensazione di ansia, comunque, parve addirittura aumentare, lasciandolo sempre più perplesso. Era forse una goccia di sudore quella che gli colava lungo la punta del naso? Sì, accidenti, era proprio sudore; e un’altra stava solleticandogli la fronte. Sembrava proprio che si fosse messo a sudare, anzi, cominciava a sentirsi davvero uno straccio.
Ho mangiato qualcosa che non andava, si disse; ho sempre digerito anche i sassi, ma in effetti c’era sempre l’eccezione che confermava la regola, vero?
— Bene — disse a Giovanna, a Marcus e all’equipaggio a bordo della Wotan che li seguiva. — È arrivato il momento di uscire e di prendere possesso di questo pianeta in nome di Henry Tudor.
Pronunciò quelle parole con voce squillante e poco seria, ma quel piccolo scherzo non provocò alcuna ilarità tra i suoi compagni. Quella faccenda non gli piaceva affatto. E poi, che strano: doveva sforzarsi per risultare allegro! Senza dire altro, controllò per l’ultima volta la tuta spaziale e cominciò a impostare i comandi per l’apertura del portello.
— Adesso uscirò — annunciò. — Voi restate dentro fino a quando non ve lo dirò io, intesi? Accertiamoci che tutto vada bene, prima di rischiare ulteriormente. Al mio segnale, Giovanna mi raggiungerà. Controlleremo di nuovo che tutto vada bene e poi scenderà anche Marcus. D’accordo?
Entrambi risposero affermativamente.
Il portello si aprì. Huw si abbassò per uscire, attese un attimo e poi scese la scaletta con passi lenti e misurati, cercando di ricordare quei celebri versi sull’intrepido Cortez immobile e silente su quel picco di Darien: “ed ecco, osserva i cieli…” era così? “quando un nuovo pianeta muove alla tua vista”.
Il suo piede sinistro toccò il suolo del pianeta A.
— Per tutti i diavoli dell’inferno! — esclamò Huw, una lacerante e anacronistica imprecazione che fece sobbalzare non solo i suoi due compagni sulla navetta, ma l’intero equipaggio della Wotan. Quelle furono le prime parole pronunciate dall’uomo sul primo pianeta di tipo terrestre mai scoperto nella galassia.
— Huw, stai bene? — domandò Giovanna da dentro la navetta, e un attimo più tardi Huw udì la voce del comandante provenire dalla Wotan e chiedergli la stessa cosa. Doveva aver cacciato un urlo terribile, pensò.
— Sì, sto bene — rispose lui, cercando di non apparire troppo scosso. — Mi sono leggermente slogato una caviglia quando ho messo il piede a terra, ecco tutto.
Dopodiché completò la discesa e si allontanò dalla navetta.
Aveva mentito riguardo alla caviglia e riguardo al sentirsi bene. Si sentiva veramente uno straccio, in realtà.
Metter piede su quel pianeta era stato come metter piede nelle fauci dell’inferno.
Il disagio, l’ansia, qualunque cosa fosse che provava pochi minuti prima a bordo della navetta non era nulla in confronto. L’intensità delle sensazioni negative era cresciuta in modo esponenziale, e ciò si era verificato nel momento stesso in cui il suo piede aveva toccato il suolo. Era l’equivalente psichico di trovarsi a piedi nudi su una griglia metallica incandescente. E l’ansia stava già lasciando il posto a qualcosa di molto peggio, qualcosa ai limiti del terrore, del panico cieco.
Quelle sensazioni gli risultavano completamente nuove. La scoperta di poter provare paura come tutti e di trovarsi sul punto di perdere il controllo alimentò il suo terrore.
Anche il fatto di non sapere che cosa lo spaventasse tanto contribuiva a fargli perdere il controllo. La paura era “semplicemente” là, un fatto esistenziale legato allo sbarco su quel pianeta, una cosa concreta come le sue mani o come la tuta spaziale che lo avvolgeva. Sembrava uscire ribollendo dal suolo e afferrare la sua anima passando dai piedi, per poi risalire attraverso i polpacci, gli stinchi, le cosce, l’inguine, l’intestino.
“Ma che diavolo, che diavolo, che diavolo…”
Huw sapeva di dover riprendere il controllo di sé. L’ultima cosa che voleva era far sospettare a qualcuno degli altri ciò che gli passava per la testa. Ma, dopotutto, calpestava quel suolo alieno da forse un minuto, e l’unico segno che poteva tradire il suo stato d’animo era stato il grido iniziale, peraltro giustificato alla perfezione. No, non c’era nulla di cui preoccuparsi.
Piano piano, la forza d’animo guadagnata in mille e mille sfide agli ambienti più ostili prese il sopravvento. No, questo non poteva succedere davvero, si disse, perché lui non era tipo da cedere così senza motivo. La sensazione iniziale di terrore provata calpestando il suolo di quel pianeta lasciò spazio a un disagio costante ma controllabile: probabilmente stava abituandosi all’effetto. Non gli piaceva, no non gli piaceva affatto, ma forse stava imparando come convivere con la paura. Forse.
Si allontanò di cinque o sei passi dalla navetta, poi si fermò e inspirò profondamente, ancora e ancora. Raddrizzò le spalle e si diede tutto il contegno possibile in quella situazione. Con uno sforzo sospinse le onde di terrore verso il basso, giù per il suo corpo millimetro dopo millimetro, giù nelle gambe, nelle caviglie, nei piedi.
Ma la paura era là.
Non voleva arrendersi, e cercava di risalire fino al cuore per poi stringerlo alla gola e prendergli la mente. Ma lui l’aveva in pugno, dannazione, qualsiasi cosa fosse lui l’aveva in pugno. Più o meno. La sua presenza lo frustrava, ma lui non voleva mollare, anche a costo di un considerevole spreco di energie mentali e morali. Tuttavia doveva lottare continuamente per respingere il profondo desiderio di urlare, di piangere, di agitare selvaggiamente le braccia. Ma era una battaglia che sembrava poter vincere, e difatti respinse facilmente un ultimo assalto di nauseante disagio e si dedicò al compito di dare un’occhiata ai dintorni.
Un lieve gemito sulla sinistra richiamò la sua attenzione. Uno degli altri era uscito dalla navetta senza attendere il suo segnale, e probabilmente il gemito era la reazione all’effetto da griglia incandescente che sembrava assalire chiunque posasse piede per la prima volta sul suolo di quel pianeta.
— “Ehi!” — gridò. — Non vi ho forse ordinato di restare dentro fino al mio segnale?
Era Marcus, realizzò Huw, il che peggiorava ancora le cose: secondo i suoi ordini, Giovanna doveva essere la seconda a uscire dalla navetta. Invece Marcus era sceso di sua iniziativa e, muovendosi in modo stranamente confuso e disorientato, descriveva una serie di cerchi irregolari alla base della scaletta, trascinando i piedi per terra e sollevando piccole nuvole di polvere.
— Huw, sto per uscire anch’io — annunciò Giovanna in quel momento. — Non mi sento molto bene qui dentro da sola.
— No, aspetta… — replicò Huw, ma ormai era troppo tardi. Giovanna si era già affacciata al portello, e un attimo più tardi prese a scendere frettolosamente la scaletta. La voce del comandante risuonò nell’elmetto di Huw, chiedendogli presumibilmente cosa stesse succedendo, ma in quel momento Huw non aveva tempo di rispondere. Doveva lottare continuamente contro le ondate di inspiegabile terrore che sembravano salire pulsando dal suolo verso la sua mente, tenendo al contempo sotto controllo l’equipaggio. Con uno sforzo, mosse verso Marcus, che intanto aveva smesso di gironzolare attorno alla scaletta per lanciarsi in una sorta di zigzagante, confusa corsa verso un punto indefinito all’orizzonte.
— Marcus! — chiamò seccamente Huw. — Fermo dove sei, Marcus! È un ordine!
Barcollando, Marcus si fermò. Ma dopo alcuni secondi cominciò nuovamente a correre, descrivendo una sorta di ampia traiettoria ricurva che in breve lo allontanò ulteriormente dal modulo di atterraggio.
Giovanna era scesa dalla navetta, ormai. Correndo goffamente nella gravità ridotta si affiancò a Huw, che la guardò vagamente disperato attraverso il cristallo dell’elmetto. La fronte di Giovanna era madida di sudore, e i suoi occhi tradivano un terrore incontrollabile. Nel frattempo, Marcus continuava ad allontanarsi.
— Non so — disse Giovanna, come rispondendo a una domanda che Huw non aveva fatto. — Mi sento strana, Huw.
— Strana come? — le chiese lui, cercando in tutti i modi di parlare con voce normale.
— Ho paura. Ho paura. Aiutami, Huw! — La vergogna le attraversò lo sguardo come un lampo. — È come se stessi vivendo una sorta di incubo, ma sono sveglia. Vero che sono sveglia, Huw?
— Certo che sei sveglia — replicò lui. E così Huw non era il solo a provare quella strana sensazione. Interessante, molto interessante. E stranamente rassicurante, dopotutto, perlomeno per quanto lo riguardava. Tuttavia si trattava di cattive notizie per la spedizione. Huw afferrò Giovanna per il polso con la mano guantata. — Cerca di mantenere il controllo e vieni con me. Dobbiamo riprendere Marcus prima che sia troppo tardi.
Marcus si trovava ormai a circa trenta metri di distanza. Stringendo ancora il polso di Giovanna, perché non era certo di quanto lei avesse realmente il controllo di se stessa e perché voleva mantenere unito il gruppo, Huw si mise a correre sul terreno piatto e polveroso, trascinando Giovanna con sé. Dopo un attimo lei prese il ritmo del suo passo, adattandosi alla gravità ridotta e alla conformazione del terreno, e i due avanzarono verso Marcus con più coordinazione, intenzionati a fermarlo. Ci volle qualche minuto prima di raggiungerlo. Quando si trovarono abbastanza vicini, Marcus si fermò all’improvviso, voltandosi verso di loro come una volpe in trappola, per poi avvicinarsi con entrambe le mani tese, completamente disperato.
— Oh, Gesù, Gesù — prese a mormorare Marcus con una sorta di lamento singhiozzante. Invocava quel nome arcaico, un nome quasi privo di significato per lui e per i suoi compagni, ma sempre in grado di portare qualche conforto. — Ho tanta paura, Huw.
— Lo so, ragazzo, lo so — replicò Huw, prendendo la sua mano tesa e facendo cenno a Giovanna di prendere l’altra. I tre esploratori restarono così, con le mani unite come dei bambini, lanciandosi occhiate stordite e attonite, mentre dalla Wotan il comandante tempestava Huw di domande a cui nessuno poteva ancora rispondere. Intanto il suono dei burrascosi singhiozzi di Marcus riempiva i caschi dei suoi due compagni. Huw notò che Giovanna aveva a sua volta il volto livido dalla paura, anche se dava mostra di miglior autocontrollo.
Approfittando dell’attimo di calma, Huw controllò il suo stato d’animo. La tempesta interiore non sembrava affatto sopita. Se si concentrava sui suoi compiti di comandante, cercando di mantenere tutti uniti e di capire cosa stava accadendo, il panico sembrava controllabile; ma, non appena si fermava, ecco che quelle ribollenti ondate di terrore minacciavano nuovamente di travolgerlo.
Restare vicino ai suoi due compagni lo aiutava, comunque. Tutti e tre ormai avevano capito che quel disturbo agiva a livello generale, colpendoli allo stesso modo. Tuttavia, tenersi per mano e guardarsi negli occhi creava una sorta di catena protettiva che forniva loro maggiore forza rassicurante per cercare di resistere ai travolgenti impulsi di immotivata paura che continuavano ad assalirli senza sosta.
— Com’è per lei, Marcus? — chiese Huw.
Terrorizzato al punto da non riuscire più ad articolare parola, Marcus rispose con un breve, inquietante gemito che si perse nel silenzio. Giovanna, però, era in condizioni migliori: — È come se tutti gli incubi della mia infanzia si fossero uniti in un unico, grande orrore. Come la somma delle paure che non vogliono arrendersi alla ragione: occhi che ti fissano dalle pareti, insetti schifosi con grandi pinze che schizzano fuori dagli armadi, serpenti ai piedi del mio letto…
— Hai cominciato a sentirlo dentro la navetta?
— Sì, non appena siamo atterrati. Ma qui fuori è molto peggio, quasi insopportabile. Anche tu provi le stesse cose?
— Sì — replicò Huw con tono distaccato. — Provo le stesse cose.
Le stesse cose, già. Denti stretti, doloranti, sempre più grandi fino a dare l’impressione di riempire la bocca. Una pulsazione all’inguine, una pulsazione dolorosa. Blocchi frastagliati di ghiaccio che si muovevano nello stomaco. E l’onnipresente pulsare della paura. Paura. Paura. Come un’implacabile scarica nervosa in grado di attivare le sinapsi del terrore, quelle che non aveva mai scoperto di possedere.
Nessuna meraviglia che quel pianeta non presentasse traccia di forme di vita evolute. L’evoluzione animale doveva affrontare una sfida continua, da quelle parti. Qualsiasi sistema nervoso abbastanza complesso da consentire il funzionamento dei vari processi omeostatici di una forma di vita superiore non avrebbe mai potuto superare l’ostacolo posto da quei costanti impulsi di cieco terrore. Nessun sistema nervoso più complesso di quello dei vermi e degli insetti avrebbe potuto resistere a lungo.
— Cosa credi che sia? — chiese Giovanna. — E cosa facciamo adesso?
— Non lo so. Non lo so — fu la risposta di Huw.
Poi, mettendosi finalmente in contatto con la Wotan, Huw riferì: — Abbiamo un grosso problema, quaggiù. Da quando siamo usciti dalla navetta siamo stati assaliti da strane sensazioni di terrore che ci stanno portando dritti verso la pazzia. Non esiste motivo apparente per questa situazione. Si limita ad accadere. Tutto è iniziato al momento dell’atterraggio. È come se questo pianeta fosse…
Marcus emise all’improvviso un lungo, terrificante urlo.
— …in qualche modo maledetto — concluse Huw.
In quel momento, Marcus si liberò della loro stretta e afferrò il casco con entrambe le mani. Prima che Huw potesse fare qualcosa, Marcus si tolse il casco e prese a respirare a pieni polmoni l’aria non filtrata di quel pianeta infernale. Era il primo essere umano a fare una cosa così. Huw lo guardò impotente, mentre Marcus si piegava in avanti, vittima del più violento attacco di nausea che Huw avesse mai visto. Un attimo dopo, Marcus cadde in ginocchio tremando come una foglia, per poi stringersi lo stomaco e vomitare getti su getti di liquido sottile, con una violenza e un’intensità che lasciò allibiti i suoi due compagni.
Marcus non costituiva certo una bella visione mentre si liberava lo stomaco, ma perlomeno stava effettuando un’utile prova sull’effetto dell’atmosfera del pianeta A sui polmoni umani, un esperimento che avrebbero dovuto compiere, prima o poi, nel corso dell’esplorazione. E l’effetto era nullo, almeno per il momento, il che significava che Marcus non dava mostra di soffrire alcun danno respirando quell’aria. Tuttavia, visto il suo stato di completa e disperata confusione psichica, era probabile che non si sarebbe neppure accorto di qualche vago problema fisico, tipo un leggero effetto corrosivo sui suoi polmoni.
Finalmente Marcus si rialzò. Appariva stordito e frastornato, ma decisamente più calmo di prima, come se quella selvaggia eruzione dal profondo del suo stomaco fosse servila a tranquillizzarlo.
— Allora? — disse Huw, forse troppo rudemente. — Si sente meglio adesso?
Marcus non rispose.
— Ci dica almeno com’è questa atmosfera! Come si sta senza casco?
Marcus lo guardò con occhi vitrei. Dopo un attimo le sue labbra si mossero, ma evidentemente il centro della parola era andato a massa. — Io… io… — balbettò.
Andava male. Marcus poteva essere tutto meno che tranquillo.
Huw, stranamente, si accorse di essersi quasi abituato a quel panico inspiegabile. Non gli piaceva, anzi lo odiava, ma ormai aveva capito che non era dovuto a qualche timore recondito del suo subconscio, quanto a un effetto endemico di quel miserabile pianeta, e quindi trovava maggior forza per cercare di ingabbiarlo, negando ai suoi effetti peggiori la possibilità di crescere. Il suo corpo continuava a tremare, certo, e dita gelide e scheletriche sembravano stringere e torcere la sua spina dorsale, mentre strani movimenti intestinali minacciavano di rivoltarlo sottosopra come Marcus. Ma c’era un sacco di lavoro da fare, prove da effettuare, ricognizioni da svolgere. Huw si concentrò su quell’aspetto, traendone un notevole beneficio.
Parlando sia ai compagni in ascolto a bordo della Wotan che a Giovanna e all’infelice Marcus, Huw disse: — Ci sono diverse possibilità di spiegazione. La prima è che questo pianeta sia già abitato da forme evolute di vita, che non riusciamo a vedere e che stanno irradiando qualche sorta di raggio mentale su di noi. Certo è un’ipotesi ai limiti dell’assurdo, ma a questo punto non possiamo scartarla a priori. Un’altra è che il pianeta stesso emetta qualche sorta di irradiazione psichica, una specie di radioattività mentale. Anche questa però suona altamente improbabile, lo ammetto. Tuttavia, per quanto assurde queste due ipotesi possano sembrare, sono, secondo me, meno assurde della terza ipotesi che mi viene alla mente, e cioè che la razza umana soffra di qualche sorta di sindrome che la lega al suo sistema solare e che provoca in noi una specie di cieco terrore non appena poniamo piede su un pianeta abitabile che non sia la Terra. Una specie di maledizione, se vogliamo, una maledizione che abbiamo acquisito nel corso del nostro processo evolutivo e che ci impedisce, Dio voglia che mi sbagli, di stabilirci su un altro pianeta. E quindi… Marcus! Marcus, accidenti, torni indietro!
Marcus era fuggito proprio mentre Huw era preso dalle sue ipotesi, e si era lanciato in avanti senza esitare, senza barcollare, semplicemente mettendosi a correre a gambe levate verso le aspre e bruciate pareti del cratere in cui erano atterrati.
— Merda! — esclamò Huw, lanciandosi dietro di lui.
Ma ormai Marcus stava salendo la scoscesa pendenza che delimitava il bordo del cratere. Con attonita sorpresa, Huw vide che tendeva a evitare le macchie ellittiche di arbusti dalle cime gialle, descrivendo una sorta di otto per passare da una macchia all’altra, sempre correndo, senza voltarsi né fermarsi, puntando dritto verso la cima ormai poco distante. Huw moltiplicò i suoi sforzi per riuscire a raggiungerlo. Marcus era giovane, snello e allenato; Huw aveva quindici anni più di lui ed era di costituzione radicalmente opposta, muscoloso, robusto e poco agile. Inutile dire che non aveva mai amato la corsa. Inoltre correre sembrava acuire le qualità sgradevoli di quel posto: ogni volta che metteva piede a terra, Huw avvertiva una sorta di scossa elettrica salirgli lungo la gamba e prendere la strada più diretta per il suo cervello. In vita sua non aveva mai immaginato una simile lacerazione dello spirito. La tentazione di mollare tutto e buttarsi a terra in posizione fetale, piangendo come un bambino, divenne insostenibile.
Ma Huw strinse i denti e continuò a correre. Sapeva di dover prendere Marcus, ormai fuori controllo, e di doverlo riportare alla navetta prima che si facesse male seriamente correndo come un pazzo in quel deserto.
Marcus, però, continuò a correre come se volesse attraversare mezzo continente prima di fermarsi a riprendere fiato, e Huw si ritrovò presto esausto e stordito, con un forte dolore al fianco e la gamba sinistra sempre più rigida. E il livello della paura aveva cominciato di nuovo a crescere, tornando intenso come al momento dello sbarco. Facendo uno sforzo, poteva continuare a correre oppure combattere la demoniaca radiazione psichica di quel pianeta, ma sembrava impossibile fare entrambe le cose nello stesso momento.
Annaspando raucamente, salì ancora un poco fino a metà del pendio, poi barcollò e dovette fermarsi. Per la prima volta nella sua vita adulta si sentì sul punto di scoppiare in lacrime. Marcus, intanto, giunse in cima e sparì oltre il limite del cratere, perdendosi oltre la nera corona di grandi rocce acuminate dall’aspetto vagamente lunare che cingeva il margine superiore della conca.
Huw barcollava sempre più, e probabilmente sarebbe caduto se Giovanna non fosse giunta al suo fianco pochi attimi più tardi.
— Hai visto da che parte è andato? — gli chiese subito.
Compiendo un ulteriore, faticoso sforzo Huw trovò abbastanza fiato per rispondere. — Da qualche parte lassù — disse, indicando un gruppo roccioso che li sovrastava. — Si è infilato là dentro, in quella specie di labirinto.
Giovanna annuì. — Come stai?
— Bene, credo. Fammi solo riprendere fiato, poi andremo a cercarlo.
Un attimo più tardi, i due salirono il resto del pendio tenendosi per mano. Di nuovo, il contatto fisico si rivelò benefico, nonostante le tute spaziali. Ormai Huw tendeva a frenare il passo: il battito scomposto del suo cuore suggeriva chiaramente di procedere a un’andatura più moderata, anche perché il pendio si stava rivelando più ripido di quanto non apparisse da sotto. Anche il terreno non era poi così uniforme, anzi: più procedevano e più si faceva irregolare, zeppo com’era di sottili e robusti rampicanti, buche e un numero incredibile di sassi acuminati proprio nei punti dove uno avrebbe appoggiato volentieri il piede.
Finalmente arrivarono in cima. A poca distanza, il terreno scendeva ripidamente per qualche decina di metri, confluendo in una vasta pianura segnata dalle figure ellittiche formate dagli strani arbusti neri e gialli. La loro strana disposizione spiccava ancora di più vista dall’alto: era geometricamente perfetta, e la distanza tra gli ellissoidi appariva sorprendentemente regolare. Rari alberi, alti, neri, spogli e decisamente brutti, rompevano la monotonia del paesaggio. In lontananza, la pianura si perdeva nella foschia dell’orizzonte. Nulla indicava la prossimità del mare, sempreché non avessero clamorosamente sbagliato i calcoli.
Sulle prime non videro alcun segno di Marcus.
Poi Giovanna emise un grido soffocato e indicò un punto non distante. Huw si concentrò sul punto indicato e annuì. Sì, era Marcus. Ma cosa stava facendo?
Marcus giaceva ai piedi della discesa, a circa cento metri da loro, con la faccia in giù e le braccia strette attorno a un masso vagamente squadrato e rettangolare, come se stesse abbracciandolo. Huw notò l’insolito angolo che la testa di Marcus aveva rispetto alle spalle. Si disse che non doveva essere successo nulla di buono, e quindi si affrettò a raggiungerlo con tutta la rapidità consentitagli dalla gamba irrigidita. Via via che si avvicinava, sentiva montargli dentro un’ansia molto diversa da quella con cui quel dannato pianeta riempiva le loro menti ormai da qualche ora.
Finalmente raggiunsero Marcus, che non stava abbracciando il masso come sembrava dall’alto: più semplicemente, vi era caduto sopra con le braccia allungate. Huw s’inginocchiò accanto a lui. La sua guancia era premuta innaturalmente sulla superficie rocciosa e un grosso taglio, o meglio una frattura, correva dall’alto in basso lungo tutta la fronte. Un rivolo di sangue usciva dalle labbra socchiuse e dal naso; gli occhi erano aperti, ma troppo vitrei. Non respirava. A giudicare dalla sua posizione, pensò Huw, doveva essersi rotto l’osso del collo cadendo.
Huw dovette pensare qualche istante per ricordare l’ultima volta che aveva visto un cadavere. Sicuramente erano passati vent’anni, forse trenta. La morte non rappresentava un evento comune nell’epoca di Huw, soprattutto la morte all’età di Marcus. Di quando in quando accadevano incidenti mortali, certo, ma in genere la morte veniva considerata un evento impossibile per coloro che avevano meno di cento, centocinquant’anni. Ecco perché la morte stupida e priva di senso di quel giovane uomo su quello squallido pianeta alieno colpì Huw con grande forza. Al di là di tutte le sensazioni da incubo provate sul pianeta A dal momento dell’atterraggio in poi, Huw avvertì, per motivi totalmente diversi, un caldo turbinio di shock, dolore e sconforto attraversare da capo a piedi la sua anima. Per un attimo le ginocchia gli mancarono, obbligandolo a sedersi per combattere l’improvvisa debolezza. Quel pianeta gli stava insegnando cose che non avrebbe mai voluto imparare: prima di tutto i limiti della sua resistenza, che un tempo considerava illimitata.
— Cosa facciamo, Huw? — domandò Giovanna. — Cosa possiamo fare? C’è qualcosa nell’infermeria della navetta che…
Huw rise. Fu una risata tanto rude e inaspettata che lei mosse un passo indietro e Huw fu sul punto di scusarsi. Tuttavia non lo fece. — L’unica cosa che possiamo fare adesso — rispose piano — è raccogliere il povero Marcus e riportarlo alla navetta. Altrimenti possiamo seppellirlo qui e segnare il posto con una lapide. Sarebbe la cosa più pratica da fare, ma non possiamo… non possiamo. No. Non senza autorizzazione. L’unica cosa che non possiamo fare, Giovanna, è riportarlo in vita.
In quel momento risuonò nei loro caschi la voce del comandante, che voleva sapere di Marcus.
— Marcus è morto, comandante — replicò Huw cupamente. Si sentiva furioso con se stesso, anche se sapeva di non avere alcuna colpa per l’accaduto. — C’è qualcosa su questo pianeta che ti spinge alla follia. Marcus non è riuscito a contrastarla, ha perso il controllo e si è messo a correre, allontanandosi dalla navetta, su per la collina e giù dall’altra parte, fino a quando non è caduto di testa contro una roccia, rompendosi il collo come un idiota.
Dall’altra parte silenzio assoluto.
— Huw — riprese il comandante. — È certo che non sia sotto shock, o che non sia svenuto?
— Le ho detto che è morto, comandante.
— Leon, qui accanto a me, vorrebbe parlarle per un attimo.
— E perché? — ribatté selvaggiamente Huw. — Non posso resuscitarlo con la respirazione bocca a bocca. Marcus ha una frattura al cranio e il collo rotto, dannazione! È morto e basta! Io non posso fare nulla, Leon non può fare nulla… nemmeno Gesù Cristo in persona potrebbe farci qualcosa! Credetemi!
Di nuovo Gesù Cristo, rifletté Huw. Gli antichi miti riaffioravano. Pareva proprio che qualcosa su quel pianeta li spingesse a invocare un aiuto divino. — E nemmeno Zeus, se è per quello… — commentò amaramente, furioso con se stesso, con il comandante, con l’intero universo.
Di nuovo, il comandante fu lento a rispondere.
— Secondo me questo pianeta è assolutamente inabitabile — riprese Huw per riempire in qualche modo il silenzio intollerabile della Wotan. — È solo un’opinione personale, ma sembra decisamente plausibile. C’è qualcosa di molto strano qui, qualche sorta di campo psichico che comincia ad agire non appena metti piede sul pianeta e non ti lascia più. Uno cerca di fare ciò che può, ma si sente sempre peggio ogni minuto che passa. Qualche attacco è peggiore di altri, ma comunque uno non si sente mai bene. Capisce ciò che intendo, comandante?
— Abbiamo seguito ogni parola delle vostre conversazioni a terra. Comprendiamo il vostro stato d’animo.
— No, non lo comprendete affatto. Siete solo convinti di comprenderlo. Cosa devo fare con Marcus? Seppellirlo qui?
— No. Riportatelo a bordo.
— Pensate che non sia morto davvero?
— Penso che recuperare di lui quello che è possibile per la banca degli organi della nave abbia più senso che ficcarlo in un buco nel terreno — spiegò il comandante, cercando di non suonare brusco. — Naturalmente avete intenzione di tornare subito a bordo, vero?
— No.
— No?
— Tornare a bordo significa interrompere la missione, comandante. Mi sta ordinando di farlo?
— Lei ha detto che quel pianeta è inabitabile.
— Ho detto che “secondo me” è inabitabile. Ma ne abbiamo esplorato solo una minima parte, e questa radiazione psichica potrebbe esistere solo in questa regione. Un pianeta con aria respirabile non esiste in ogni angolo dell’universo: a parer mio dobbiamo esplorare almeno qualche altra regione prima di dichiarare fallita la missione.
— Questa missione ci è già costata un morto, Huw.
— Esattamente. Ecco perché voglio essere assolutamente certo che questo pianeta sia inabitabile prima di partire. La morte di Marcus non avrebbe veramente alcun senso se ci lasciassimo scoraggiare al punto da fuggire da un pianeta che invece poteva offrirci un asilo sicuro, se solo lo avessimo cercato.
Quelle parole vennero accolte da nuovo silenzio. Huw si chiese che razza di effetto stava sortendo la morte di Marcus sul comandante e sull’equipaggio della Wotan. Su di lui l’effetto drammatico aveva sempre meno presa, si disse. Il corpo contorto di Marcus, ancora ai suoi piedi, gli sembrava nulla più di una bambola spezzata, ormai.
Ancora una volta fu Huw a rompere il silenzio. — Comandante, vuole ordinarmi di interrompere la missione?
— No. Mi fido di lei, Huw. Che cosa intende fare?
— Il piano originale prevedeva di raggiungere a piedi la costa, ma la cosa non ha senso, ormai. Io mi sposterei subito su un altro continente per una breve ricognizione. Se anche là avvertiremo questa specie di radiazione negativa, torneremo subito a bordo. Adesso, per prima cosa, metteremo Marcus a bordo. Che ne pensa?
— Per me va bene — replicò il comandante. — Provate pure su un altro continente, se ritenete che ne valga la pena.
Huw fece un cenno a Giovanna, e i due portarono il cadavere su per la collina e giù dall’altra parte fino alla navetta, nei cui pressi recuperarono il casco di Marcus. Nonostante la leggerezza di Marcus e la ridotta gravità di quel pianeta, il trasporto non fu affatto facile. Le soffocanti emanazioni continuavano ad agire, privandoli di volontà e di forza. Ma in qualche modo vi riuscirono. Sistemarono Marcus nella sua poltrona antiaccelerazione, e finalmente sedettero a loro volta.
— Hai davvero intenzione di esplorare qualche altro posto prima di tornare alla navetta? — chiese Giovanna.
— Sì, naturalmente se senti di farcela.
— Secondo me è una semplice perdita di tempo, Huw.
— Anche secondo me — ammise Huw. — Ma abbiamo lavorato duro per arrivare fin qui. Ecco perché dobbiamo provarci un’altra volta, per non doverci chiedere in futuro se per caso non abbiamo voltato le spalle a un pianeta su cui potevamo vivere. Prendimi pure in giro, Giovanna, ma io non posso mollare tutto così.
— Anche con il cadavere di Marcus seduto qui accanto a noi?
— Anche così — tagliò corto lui. Parlava digitando nel contempo una richiesta di assistenza al sistema di navigazione della Wotan, poiché non si sentiva abbastanza lucido da manovrare da solo la navetta. Quadranti e lettori digitali cominciarono ad attivarsi, il portello si chiuse e la voce meccanica degli altoparlanti annunciò che tutto era pronto per il decollo. Per un attimo, Huw pensò di tornare al controllo manuale, ma poi si rese conto di essere esausto, letteralmente prosciugato da quanto era avvenuto nelle ultime ore. Tutto ciò che voleva era affondare nella comoda poltrona antiaccelerazione e lasciare che qualcun altro gestisse le cose, almeno per il momento.
La navetta si alzò con un sibilo, puntando subito verso est. Presto si ritrovarono a un’altezza di mille chilometri, sopra un oceano verde grigiastro privo di onde e dall’aspetto estremamente denso. La notte cominciò a calare, e poco dopo si ritrovarono al buio. Quel pianeta non aveva alcuna luna. Su quello sfondo nero inchiostro le stelle brillavano come nello spazio aperto. Con lo sguardo rivolto al cielo nero, Huw cercò istintivamente di tracciare delle costellazioni in quella volta celeste decisamente poco familiare. Quella, si disse, sembra un albero con dei rami giganteschi, quell’altra una testa di cane e quell’altra ancora un antico guerriero in procinto di scagliare la sua lancia. Dopodiché cercò di indicarle a Giovanna, ma lei si rivelò incapace di vederle, nonostante l’accuratezza delle sue descrizioni, e piano piano anche Huw si perse nella confusione di quell’incredibile miriade di stelle.
La navetta raggiunse nuovamente la terraferma, mentre un’alba verdastra illuminava l’orizzonte. Finalmente riposato, Huw assunse il controllo manuale e cercò un posto dove atterrare.
Quel continente era un unico, immenso deserto, un mare arancione di dune. Forse non irradiava onde psichiche come il continente al di là dell’oceano, ma non sembrava certo un buon posto dove fondare una colonia. Dall’alto, Huw non vide nulla che potesse sembrare un fiume, un lago o persino un torrente, solo enormi dune di sabbia intervallate di quando in quando da colline rocciose basse e piatte. Scendendo, però, si resero conto della presenza di vegetazione, alti e insoliti arbusti quasi secchi che crescevano all’ombra delle rocce. Nulla di paragonabile alle rigogliose oasi terrestri, comunque. Non importava. Ormai l’idea di fondare una colonia su quel pianeta era tramontata. Si trovavano lì per un motivo molto diverso, forse un capriccio; ma si trattava di un capriccio a cui Huw dava la massima importanza.
Cercando tra le dune individuarono, non molto dopo, una zona pianeggiante e spazzata dal vento. La navetta vi atterrò senza problemi e Huw diede inizio alle procedure di routine che precedevano l’apertura del portello. Ma, di nuovo, l’assurda sensazione di terrore che caratterizzava quel pianeta cominciò a farsi sentire. Erano atterrati da appena cinque minuti e già avvertivano il gelido tocco di dita scheletriche correre su per le loro schiene, la nausea espandersi nei loro stomaci, la sensazione che le loro menti e i loro cuori venissero avvolti in un’invisibile tela di materia velenosa.
Quello schifoso pianeta era maledetto, si disse Huw.
Alzò gli occhi e guardò Giovanna. Lei annuì. Anche lei provava le stesse sensazioni.
— Usciamo lo stesso — ordinò Huw.
— Per quale motivo?
— Per poter dire che lo abbiamo fatto. Forza, muoviamoci.
Con un’alzata di spalle, Giovanna slacciò la cintura di sicurezza della poltroncina per poi muoversi e seguirlo fuori. Come prima, le ondate di paura si intensificarono non appena posero piede sul terreno. Huw alzò gli occhi nel luminoso cielo del mattino. Per qualche strano motivo si stava convincendo della presenza di strane creature alate sopra di loro, anche se non aveva visto alcuna forma di vita superiore fino a quel momento. Eppure gli sembrava proprio che dei giganteschi mostri con grandi zanne e ali nere e ricurve li stessero studiando, creature intelligenti simili a pipistrelli che volteggiavano lentamente in grandi cerchi, attendendo solo il momento buono per sferrare un attacco micidiale.
Ma non c’era nulla nel cielo. Niente mostri. Neppure una nuvola.
Ciononostante, un terrore incontrollabile lo afferrò alla gola. Il sibilo sferzante con cui immaginò scendere quelle creature gli riempì le orecchie, la forza terribile delle grandi ali con cui lo avvolsero lo scosse come una foglia, la crudeltà dei loro artigli affondati nella carne riempì la sua mente di dolore lancinante. E il loro odore… un odore selvaggio, bruciante, malvagio. Stava soffocando. Il fiato gli mancò, mentre il cuore batteva all’impazzata. Ma era solo un incubo. Solo un altro dannato incubo.
Doveva reagire in qualche modo. Con la forza della disperazione afferrò il casco con entrambe le mani e se lo tolse, per poi riempirsi i polmoni dell’aria di quell’orribile pianeta.
Era un’aria fredda, amara, sottile, il tipo di aria che Marte doveva avere quando, eoni prima, possedeva un’atmosfera. Quella, però, lasciava in bocca uno strano retrogusto quasi medicinale, dovuto senza dubbio alla presenza di uno o più elementi sconosciuti in quantità tale da risultare percettibili. Nessun odore di metano, notò Huw: forse l’esame spettrografico aveva confuso degli elementi sconosciuti con il metano. Ah, ma che importava? Inspirò con grande gusto tre o quattro profonde boccate d’aria.
Giovanna lo guardò preoccupata. — Cosa stai facendo? — gli chiese.
Huw non volle dirle nulla dei grandi mostri con le ali che sentiva volteggiare sopra di loro, pronti a calare come aquile per staccargli la testa con un morso. Invece rispose: — Abbiamo viaggiato a lungo prima di arrivare qui, e io voglio semplicemente assaggiare l’aria di un altro pianeta prima di andarmene.
— Sì, ma se quest’aria contiene qualcosa di pericoloso?
— Marcus l’ha respirata — replicò Huw. — È solo ossigeno, azoto, CO2 e qualche altro elemento. Cosa vuoi che contenga di pericoloso?
— Comunque Marcus è morto.
— Non perché ha respirato quest’aria — rispose Huw. Ma, dopo aver respirato ancora un paio di volte, si rimise il casco. Quell’assaggio dell’atmosfera del pianeta A gli lasciò in bocca uno spiacevole sapore chimico. La gola e le narici gli bruciavano, tuttavia sospettava che questo non significasse nulla di speciale: doveva trattarsi di un altro trucco di quel pianeta maledetto, un altro scherzo dell’immaginazione.
Erano lì per esplorare, e quindi si misero doverosamente al lavoro. Senza perdersi di vista, compirono una breve passeggiata, cinquanta metri da una parte e trenta dall’altra. Giovanna smosse un po’ il terreno e scoprì un nido di piccoli insetti dalle lucenti corazze color grigio metallico che stimolarono la sua curiosità scientifica per qualche minuto.
Tuttavia appariva chiaro che lo stesso effetto psichico li affliggeva anche su quel continente. Huw continuava a guardare in alto in cerca dei mostri alati, e Giovanna non riusciva a concentrarsi su quello che faceva. Gli stessi spasmi di paura prendevano entrambi, nonostante non vi fosse nulla di minaccioso attorno a loro. Qualsiasi fenomeno fosse, non pareva affatto confinato in una località specifica: lo provava il medesimo effetto subito dopo due atterraggi in punti diversi. Probabilmente si trattava di un’irradiazione che partiva dal nucleo stesso del pianeta, interessando l’intera superficie.
Huw guardò Giovanna. Sembrava calma, ma il suo volto era pallido e madido di sudore. Chiaramente, anche lei aveva sviluppato qualche sorta di tecnica mentale per tenere a bada quella sensazione di terrore, ma si trattava comunque di una fatica troppo immane per essere sostenuta a lungo. Un pianeta dove ci si trovava sempre costretti a ricacciare indietro la voglia di urlare e piangere dalla paura non rappresentava certo una scelta saggia per fondarvi la seconda casa dell’uomo.
— Va bene — disse Huw. — Abbiamo fatto abbastanza. Adesso possiamo anche andarcene.
— Sono assolutamente d’accordo.
I due tornarono alla navetta. Marcus, naturalmente, era là dove l’avevano lasciato, legato alla poltrona antiaccelerazione. Trovarlo da qualche altra parte avrebbe costituito davvero un grosso shock, e tuttavia Huw non poté fare a meno di sussultare vedendone il cadavere seduto accanto alla sua poltrona. Anche Giovanna distolse gli occhi da Marcus, quando entrò.
— Allora? — chiese lei mentre Huw inseriva il piano di volo. Andiamo a esplorare un terzo continente?
— No — fu la replica. — Quando è troppo è troppo.
— Allora pensa che non vi sia alcuna speranza, Huw? — chiese il comandante. — Pensa che non ci abitueremo mai a quella strana radiazione psichica?
Huw allargò le mani dalle grandi dita, studiandone per un attimo le punte prima di alzare lo sguardo verso il comandante. Erano passati due giorni dal loro ritorno, e lui e Giovanna avevano appena terminato la quarantena prescritta per le missioni a terra. Nel frattempo erano stati sottoposti a ogni genere di esami tesi ad accertare che non portassero a bordo microorganismi alieni potenzialmente pericolosi.
— Come faccio a dire se ci abitueremo o no? — replicò. — Magari tra cinque o seicento anni i nostri pronipoti arriveranno addirittura ad amarla. Può darsi che si abituino a tal punto da avere perennemente il voltastomaco da non riuscire più a farne a meno. Ma personalmente ne dubito molto.
— Mi è difficile capire come possa un pianeta generare effetti psichici così potenti che…
— Anche per noi è difficile accettarlo, vecchio mio. Tuttavia l’ho avvertita, ed era reale, e non ricordava nulla di quanto abbia potuto provare in vita mia. Una forza, un’energia che prendeva la mente, come una specie di immane amplificatore di tensione che mandava in corto circuito il sistema nervoso. Credo sia per questo che non abbiamo trovato alcun animale superiore laggiù. Non sto cercando di spiegare cosa sia: sto semplicemente dicendo che c’è, che esiste, e che mi fa accapponare la pelle solo a ripensarci. Ha quasi mandato me al manicomio. Ha quasi mandato Giovanna al manicomio. E Marcus lo ha mandato all’altro mondo, dopo avergli fatto perdere la testa al punto da mettersi a correre come un pazzo tra le rocce di un pianeta sconosciuto. Certo, esiste sempre la possibilità che ci si riesca a convivere, un giorno: la specie umana è adattabile, lo sappiamo tutti. Ma davvero vogliamo imparare a conviverci? E che sorta di prezzo dovremmo pagare per imparare a farlo, eh, comandante?
Il comandante studiò l’espressione e la voce di Huw con grande attenzione e fu grato di avere a bordo qualcuno come lui per quel genere di missioni. Huw era l’uomo più stabile che avesse mai conosciuto, il più coraggioso, anche se personalmente riteneva che il rumoroso, petulante Paco potesse rivelarsi altrettanto forte. Huw era tornato profondamente scosso dalla missione sul pianeta A: nessun dubbio in proposito. E non solo per la morte di Marcus, una disgrazia che comunque sembrava averlo segnato: il problema riguardava il pianeta in sé. Quindi, quel pianeta doveva risultare inabitabile.
Peccato, pensò il comandante. Era una cosa piuttosto spiacevole che quel pianeta non servisse ai loro scopi. Voleva che la spedizione avesse trovato velocemente un posto in cui insediarsi, perché il lungo confino a bordo della Wotan stava già creando dei problemi psicologici all’equipaggio. Si rammaricava anche di non poter scendere sulla superficie di quel pianeta per esplorarlo di persona, giusto per vedere se l’effetto che faceva corrispondeva a quanto descritto da Huw. In ogni caso, visto il rapporto stilato dai due esploratori ufficiali, non restava altro che dimenticarsi del pianeta A e lasciare al più presto quel sistema.
Non disse nulla di tutto ciò a Huw, comunque. Fu il gallese, ancora in attesa di una risposta alla sua domanda, a rompere infine il silenzio. — In ogni caso non è un granché come pianeta. Troppo secco. Una metà è arida, e l’altra lo è ancora di più. Dovremmo fare i salti mortali per avere dei raccolti appena decenti, e non ho visto alcun tipo di animale locale che…
— D’accordo, Huw. Per me la faccenda è chiusa. Non è il pianeta giusto per fondarvi una colonia.
Il volto teso di Huw mostrò un aperto sollievo, come se il gallese temesse segretamente che il comandante si fosse intestardito su uno sbarco in grande stile per provare, nonostante tutto, a colonizzare quel pianeta. — Certo che no — disse. — Sono contento di sentirla concordare con me su questo punto.
Poi i due uomini si alzarono. Avevano la stessa statura. Il comandante era forse leggermente più alto, ma Huw era grosso il doppio e pesava circa quaranta chili in più. Mosse un passo avanti, cinse il comandante con un abbraccio da orso e gli mormorò nell’orecchio: — Là sotto ho passato i momenti peggiori della mia vita, vecchio mio. Volevo che lei lo sapesse.
— L’ho immaginato — replicò il comandante. — Andiamo, adesso: dobbiamo celebrare il servizio funebre per Marcus.
Il comandante non era certo ansioso di fare ciò che si accingeva a fare. Mai si sarebbe aspettato che una cosa del genere facesse parte delle sue responsabilità verso l’equipaggio, e non aveva praticamente idea di che cosa dire. Tuttavia, il servizio funebre andava celebrato.
L’equipaggio della Wotan aveva reagito con stupore e sconforto alla morte di Marcus. Non era certo uno dei membri più in vista della ristretta società formatasi a bordo: troppo tranquillo, timido, generalmente poco comunicativo. Non aveva mai fatto parte del contingente di giocatori di Go, e neppure aveva mai cercato di stabilire un rapporto duraturo con qualcuna delle donne a bordo. Le poche, saltuarie relazioni sentimentali intrattenute riguardavano, per quanto ne sapeva il comandante, Celeste, Imogen, Natasha e forse qualcuna in più; tuttavia preferiva restare almeno in apparenza nel piccolo gruppo di dieci, dodici persone che evitavano con cura di stabilire delle relazioni più approfondite e durature.
No, Marcus non costituiva affatto un pilastro della vita di bordo; era piuttosto il semplice fatto della sua morte, una morte quantomai insensata, ad aver colpito tutti così profondamente. Erano partiti in cinquanta, e ora si ritrovavano in quarantanove. La loro prima missione fuori dagli angusti limiti dell’astronave portava un lutto, non una gioia. Forse era questa la ferita peggiore. Inoltre, veniva a crearsi una sorta di inatteso sbilanciamento. Al momento di dare il via alla nascita dei bambini, le coppie teoricamente disponibili sarebbero state ventiquattro e non più venticinque. Certo, in questo stadio del viaggio, nessuno poteva ancora dire se davvero la gente intendeva comportarsi secondo i parametri anticamente in voga sulla Terra: si trattava di tradizioni riservate agli anziani, non più praticate alla loro età, e nessuno vedeva il motivo di ripristinarle integralmente su qualche lontano pianeta tra le stelle. Ma ormai qualche variazione alle antiche tradizioni si imponeva, al momento opportuno, perché tutti idealmente dovevano giocare un ruolo attivo per popolare la Nuova Terra e a quel punto qualcuno restava fuori: una donna era destinata a restare sola. Chi? Questo eventualmente poteva costituire un problema in futuro, ma il vero problema era l’impatto della realtà sull’intima convizione di invulnerabilità in cui tutti loro galleggiavano là dentro, in quella macchina capace di attraversare lo spazio a velocità impensabili. Un’illusione, certo, un’illusione miserevolmente infrantasi non appena tre di loro erano emersi da quell’arca.
Fu Julia a suggerire al comandante l’idea di celebrare un rito funebre. Una catarsi generale, un atto pubblico di riparazione, ecco ciò che ci voleva. La morte di Marcus aveva colpito tutti, ma alcuni più di altri sembravano letteralmente devastati: Elizabeth, Althea, Jean-Claude e qualcun altro dovettero ricorrere alle cure di Leon. La scienza curava i corpi alla perfezione in quei tempi, ma poteva decisamente meno sulla mente. L’unica cosa che Leon poteva fare per i più depressi era somministrare loro dei farmaci psicoattivi; il resto toccava ai volontari. Edmund, Alberto, Maria e Noori fornirono un aiuto prezioso, e il comandante vide addirittura Noelle superare la sua tradizionale riservatezza per consolare nelle terme una distrutta Elizabeth, carezzandole teneramente i capelli mentre la donna, apparentemente così forte, si lasciava andare in singhiozzi disperati. Pertanto, una pubblica presa di coscienza del loro generale sconforto non poteva fare che bene, secondo Julia, e il comandante alla fine concordò.
Tutti si riunirono nel solito corridoio del livello abitato, e come al solito il comandante appoggiò la schiena alla paratia prima di cominciare a parlare.
Inizialmente trovò difficile mettere a fuoco le parole appropriate. Cosa non certo dovuta alla tradizionale paura del palcoscenico, anche perché lui era l’ultimo a preoccuparsi di una cosa del genere, ma piuttosto a un senso di inadeguatezza, a una fondamentale incapacità di comprendere la morte. La sua natura poco passionale era forse la meno idonea, là dentro, per svolgere quel compito. Ma lui era il comandante, addirittura eletto una seconda volta per acclamazione, e quindi era lui a dover parlare.
— Amici miei — cominciò, mentre ogni esitazione lo abbandonava — tutti noi siamo rimasti terribilmente colpiti dalla morte di Marcus, e tutti noi sentiamo ora di doverci liberare del peso che abbiamo dentro con la più antica delle pratiche umane: la preghiera. Ma a chi rivolgere le nostre suppliche? Dove prendere la forza per farlo? Noi siamo una specie che si è convinta di non avere più bisogno di Dio. Siamo orgogliosi, ne sono certo, di aver sconfitto ogni superstizione, di vivere interamente nel regno tangibile della materia, di ciò che si può spiegare e misurare. E tuttavia, vedete anche voi che davanti alla morte il nostro atteggiamento di cercare al di là del corpo, di rivolgerci… di rivolgerci…
Tutti lo guardavano intensamente. Forse si chiedevano dove voleva arrivare, si disse.
— Marcus è morto, e non vi sono parole che possano riportarlo in vita. Nemmeno la preghiera può farlo, anche ammettendo che esistano degli dèi e che ci stiano ascoltando. Se esistono degli dèi, allora è stato per loro volontà che Marcus ci ha lasciato, e noi non possiamo far altro che inchinarci a un potere più grande del nostro. Se invece continuiamo a pensare che gli dèi non esistono…
Per un attimo si fermò, guardando ora uno, ora l’altro in cerca di qualche segno di agitazione, di malcelata irritazione. Da Heinz a Paco, da Huw a Elizabeth, da Noelle a Celeste, da Zena a Roy… No, tutti ascoltavano. Le sue parole catturavano completamente la loro attenzione.
— Molto tempo fa — riprese — sarebbe stato più facile accettare una disgrazia come questa. Avremmo attribuito ogni cosa alla volontà divina, o alla volontà di un particolare dio, accettando come inevitabile la morte di Marcus in un luogo alieno e ostile. E poi avremmo ripreso il nostro lavoro, forti della convinzione che la volontà divina fosse un fenomeno così misterioso e imperscrutabile da non richiedere alcuna spiegazione, tranne quella estremamente semplice che attribuisce ogni evento ai voleri del fato. Così andava nei secoli scorsi: era più semplice, più vicino alla natura. Ma noi uomini moderni abbiamo deciso di non accettare più il fato nelle nostre vite. Ecco dunque che ci si pone il costante problema di cercare delle spiegazioni, o di vivere completamente privi di spiegazioni. Siamo obbligati a una scelta, come sempre: è l’antico destino dell’uomo.
“La morte di Marcus è stata accidentale, e quindi non ha bisogno di spiegazioni. Il rischio ha sempre fatto parte di imprese come la nostra, e nonostante la maggioranza degli uomini abbia scordato cosa significhi esplorare nuove terre, noi, tra tutti, dobbiamo sempre tenerlo in mente. Coraggiosamente, Marcus è venuto con noi qui tra le stelle per aiutarci a trovare una nuova casa per la specie umana. Coraggiosamente, Marcus è sceso su un pianeta sconosciuto con Huw e Giovanna, e là si è imbattuto in uno strano fenomeno, troppo forte perché lui riuscisse a contrastarlo o a controllarlo: ed è stato questo a ucciderlo. Così è andata. In questo caso la spiegazione più semplice è anche la più efficace. L’umanità non è più, generalmente parlando, una specie disposta a rischiare. Ma noi siamo le eccezioni, perché contrariamente ai nostri simili noi abbiamo scelto di vivere di nuovo con la voglia di affrontare il rischio. Marcus è la prima vittima di questa scelta. Lui è morto, e noi piangiamo la sua perdita. Marcus era giovane, e questo gli conferiva un enorme potenziale nel mondo che un giorno costruiremo. Ora non potrà più esprimere questo potenziale. Ma lo piangiamo anche perché è stato privato della gioia di vedere un giorno il successo della nostra missione, e perché era uno di noi. Ecco, credo che lo piangiamo soprattutto perché era uno di noi.
“Ma questa è davvero una buona ragione per piangerlo? Marcus è ancora uno di noi. E lo sarà per sempre. Mentre noi procediamo verso le stelle, verso il pianeta B, verso il pianeta C e, se necessario, verso il pianeta X, e Y, e Z e anche oltre, portiamo Marcus con noi, portiamo con noi la sua memoria: lui è il primo dei nostri martiri, il primo a dare la vita per la grande missione a cui ci siamo votati. Qualcuno di noi doveva esplorare quel pianeta: Marcus si è offerto di farlo. E purtroppo è morto. Stava facendo il suo dovere di membro di questo equipaggio, e questo gli è costato la vita. E a mano a mano che il nostro viaggio continua, amici miei, dobbiamo prepararci all’eventualità che altri di noi seguano il suo destino. Così andrà, se così dovrà andare. Abbiamo deciso volontariamente di correre ogni rischio, di dire addio alla nostra casa, ai nostri amici, alla nostra famiglia per intraprendere questo viaggio verso l’ignoto. Abbiamo lasciato la lunga, comoda e sicura vita che ci attendeva sulla Terra in cambio delle ricompense e dei pericoli di un’avventura mai intrapresa prima d’ora da alcun essere umano. E, a mano a mano che il tempo procede, ci ritroveremo sempre più a vivere una vita scomoda e affatto sicura.
“Ma resta il fatto che Marcus è morto, ed è morto troppo presto. Così sia. Lui vive al di là di ogni dolore adesso, al di là di tutte le incertezze, le mancanze, le sconfitte che caratterizzano la nostra vita. Questo dovrebbe darci conforto. Ma soprattutto dovremmo capire, amici miei, per il nostro stesso bene e per il suo, che questa morte non è avvenuta invano. Noi dobbiamo continuare, continuare per sempre se mai ve ne fosse bisogno, anche passando da una parte all’altra del cosmo per trovare il pianeta che stiamo cercando. E quando lo troveremo, poiché noi lo troveremo, dovremo fare in modo che i nostri figli e i nostri nipoti ricordino per sempre il nome di Marcus, il primo dei nostri martiri, il primo che ha dato la vita per far sì che il loro mondo esistesse. E quando scriveremo la storia di questo viaggio, il nome di Marcus sarà scritto con lettere di fuoco. Così lo renderemo immortale. Così ci renderemo immortali, tutti noi, per coloro che abiteranno in futuro la Nuova Terra. E noi che ci ritroviamo senza dèi a cui rivolgere una preghiera saremo gli dèi del nuovo pianeta, della nuova civiltà che fonderemo. Dèi immortali, tutti noi. Marcus è semplicemente entrato prima di noi in questa sorta di epica immortalità.”
Il comandante si fermò di nuovo, facendo correre lo sguardo di volto in volto. Troppo altisonante?, si chiese. Troppo pomposo?
Tutti lo ascoltavano in assoluto silenzio, però, totalmente immobili e con occhi solo per lui: persino Noelle lo stava fissando con attenta commozione. Era riuscito a catturarli come ai vecchi tempi, i tempi dell’Amleto, i tempi di Edipo. Un grande successo, nulla da dire, un monologo eccezionale. Persino utile, in un certo qual modo.
Bene. “Adesso chiudi mentre sei in vantaggio”, si disse.
Con tono repentinamente più basso per conferire maggior enfasi alle sue parole, il comandante aggiunse: — Una cosa ancora, poi sarete liberi di andare. Questo pomeriggio cominceremo a calcolare la rotta del nostro prossimo balzo nel non-spazio, che ci porterà a ottanta, novanta anni-luce da qui, verso il pianeta B. Hesper non ha mai smesso di studiarlo, e i risultati sono incoraggianti. Tuttavia, alla luce di quanto è successo con il pianeta A, è meglio non farsi facili illusioni. Non possiamo sapere a priori se questa seconda destinazione sarà quella giusta: tutto ciò che possiamo fare è andare a vedere. A questo punto, non dobbiamo avere particolari aspettative, in un senso o nell’altro. Naturalmente, mi auguro che sia il pianeta che stiamo cercando, e so che tutti voi provate la mia stessa speranza. Tuttavia, ricordatevi che oltre al pianeta A e al pianeta B esisterà certamente un pianeta C, e così via. I pianeti con atmosfera a base di ossigeno devono essere migliaia nell’universo, e se necessario li esploreremo tutti, fino a quando non troveremo quello che fa per noi. Grazie a tutti voi per la vostra attenzione. Potete riprendere le vostre occupazioni.
Paco, Hesper, Julia, Sieglinde, Roy e Heinz iniziarono la serie di calcoli che li avrebbe portati verso il pianeta B attraverso il non-spazio. Il comandante, invece, si incontrò con Noelle per cercare di trasmettere alla Terra un dettagliato rapporto sul fallimento della missione esplorativa e sulla morte di Marcus.
Era preoccupato per l’effetto che quella notizia poteva avere sugli abitanti della Terra. L’uomo era ormai assuefatto al successo. Per gli abitanti della Terra quel viaggio era una sorta di fantastica impresa, una fiaba moderna dal finale certamente positivo, nonostante i perfidi intrighi del malvagio di turno. Il fatto che uno dei coraggiosi esploratori fosse morto in uno squallido deserto, perdendo la testa sotto l’influsso di una forza ancora sconosciuta, non corrispondeva certo a quello che si aspettava la gente. La reazione poteva essere fortemente negativa a livello collettivo. L’interesse per la missione poteva spegnersi, la rassegnazione farsi strada.
E tuttavia bisognava pur riferire. Non era giusto cancellare così la verità. La gente sapeva che era in corso l’esplorazione di un pianeta, e quindi doveva conoscerne per forza di cose gli esiti.
— Com’è la qualità della trasmissione oggi? — chiese a Noelle.
— Qualche interferenza, ma nulla di serio.
— Meglio così. Si sente pronta per cominciare?
— Certo. E lei?
Lui sorrise e cominciò a dettare il messaggio che aveva preparato. Ma, lanciando un’occhiata al testo, si accorse che consisteva in una litania dalla tristezza assoluta.
Missione fallita… difficili e inspiegabili zone di interferenze psichiche diffuse ovunque… violente reazioni irrazionali degli esploratori… deplorabile incidente fatale… ritiro immediato dalla superficie del pianeta… abbandono della missione esplorativa…
Tutto vero, certo, ma suonava terribile. Meglio cercare di ammorbidire un po’ improvvisando mentre leggeva, inserendo frasi come “speranzoso primo tentativo” e “la piacevole sorpresa di trovare un pianeta di tipo terrestre in tempi così brevi, nonostante gli inconvenienti”. Poi parlò dell’immediata partenza verso il pianeta B e dell’ottimismo suscitato in tutti loro dalla constatazione che la galassia era ricca di pianeti con massa, atmosfera e temperatura idonee. Vista quella inaspettata abbondanza, concluse, non poteva esservi alcun dubbio sull’imminente scoperta di un pianeta adatto per un insediamento.
Ecco. Fai masticare loro quella roba per un po’.
Noelle si stancò rapidamente mentre trasmetteva quelle parole a Yvonne. La sua tensione divenne palese. Le sue spalle si curvarono, la sua testa iniziò a cadere in avanti e i muscoli del volto presero a tremare lievemente. Quello non sembrava un giorno molto adatto per trasmettere, viste le forti interferenze, nonostante le assicurazioni di Noelle. E tuttavia lei continuò fino all’ultimo, fino a quando non rialzò lo sguardo, sorridendo candidamente, per poi dire con un sospiro di sollievo: — Ecco fatto. Yvonne ha ricevuto tutto.
— Bene. Che cosa ha detto?
— Che le spiace molto per Marcus. Ci augura migliore fortuna sul pianeta B.
Ma Noelle stava dicendo la verità? Per un attimo, il comandante si ritrovò a pensare che l’intera faccenda del ponte telepatico istantaneo tra le due sorelle non fosse altro che una truffa, che Noelle avesse sempre finto di inviare i suoi comunicati sulla Terra e che si fosse sempre inventata le risposte di Yvonne.
No, no, no, no.
Un pensiero davvero idiota. Lo cancellò con rabbia dalla sua mente. Noelle era semplicemente incapace di una simile doppiezza. Era così, anche perché non avrebbe potuto inventare di sana pianta tutte le risposte di Yvonne, i dettagli della vita quotidiana sulla Terra, le vicende politiche e sportive, i messaggi e i saluti dai parenti dei membri dell’equipaggio. Per esempio, il messaggio giunto dal padre del comandante. Faceva il pittore e amava lavorare seguendo gli antichi modelli: angeli, santi, demoni, tutti dipinti con meticoloso realismo. Viveva da qualche parte nell’antico Sudafrica, su un promontorio secco e roccioso, perennemente inondato dalla luce del sole e pieno di piante e manufatti originari di quella regione. Negli ultimi trent’anni si erano incontrati solo due volte. In effetti, non erano mai andati molto d’accordo. E tuttavia suo padre, che ormai aveva più di centotrent’anni, gli aveva sorprendentemente fatto gli auguri di compleanno tramite il ponte telepatico tra Noelle e Yvonne. Nel messaggio parlava dei suoi dipinti, del suo giardino, dei segni che il tempo cominciava a lasciare sulla sua carica vitale. Come poteva inventarsi tutto ciò Noelle? Il comandante si chiese quale ondata di tensione interiore lo avesse condotto a sospettare in quel modo dell’ignara, innocente Noelle. Il fallimento della missione sul pianeta, si disse, la morte di Marcus: era sottoposto a una profonda tensione. Tutti lo erano. Decise di concedersi del riposo extra non appena fossero rientrati nel non-spazio.
Dando per scontato che Noelle si mettesse a letto dopo la trasmissione, come accadeva sempre, il comandante si alzò e fece per uscire. — Aspetti — lo richiamò lei. — Dove sta andando?
— Alle terme, immagino — replicò sorpreso il comandante. Era un’ispirazione del momento: in effetti non ci aveva pensato.
— Vengo anch’io, se non le spiace. Poi, magari, possiamo andare a fare una partita.
Lui la guardò perplesso. — Non vuole riposare un po’ prima di uscire?
— No. Stavolta no — fu la replica. E in effetti Noelle pareva aver recuperato le energie dopo la stanchezza mostrata poco prima. Non sembrava affatto esausta come sempre dopo il contatto mentale con Yvonne, nonostante il problema delle statiche. Oppure proprio per quello? Ah, non l’avrebbe mai capita.
In ogni caso, un bagno rilassante nelle terme era il benvenuto, e se quel giorno Noelle non voleva dormire erano solamente affari suoi. Con mossa completamente casuale la ragazza si tolse il vestito. La sua innocenza era spaventosa. Possibile che non sì rendesse conto dell’effetto che il suo splendido corpo nudo provocava su un uomo? E poi, loro due così, soli nella cabina… Nell’eterna oscurità in cui viveva, Noelle non si rendeva conto, probabilmente, dell’attrazione che un corpo nudo poteva esercitare sugli altri. O, forse, se ne rendeva conto.
Il comandante attese qualche istante, un breve momento di strana tensione. Cosa avrebbe fatto Noelle? L’avrebbe preso per mano e condotto verso il letto? No, niente di tutto ciò. Lei era “davvero” innocente. Con calma aprì la porta della cabina, invitandolo con un gesto a precederla in corridoio.
Camminarono fino a giungere insieme nel caldo salone delle terme.
Sieglinde, Huw e Imogen si trovavano già là quando i due entrarono. La muscolosa Sieglinde nuotava da sola nella vasca d’acqua tiepida, mentre il carnoso Huw e la piccola e bionda Imogen condividevano la vasca d’acqua calda. Huw e Imogen erano insieme, in quei giorni, almeno quando potevano vedersi: apparentemente, quello era uno dei giorni in cui potevano. Lei galleggiava a pancia in su nella vasca, affatto sommersa, con la testa appoggiata alla spalla di Huw, i capelli biondi mossi dall’acqua e i capezzoli rosa dei suoi piccoli seni che spuntavano irrigiditi dalla superficie. Huw era talmente più grosso di lei da farla sembrare piccola come una bambola.
Huw alzò un sopracciglio quando il comandante e Noelle entrarono, lei nuda, lui no. La nudità in pubblico non rappresentava certo un fenomeno fuori dal normale a bordo, e talvolta la gente passeggiava nelle terme completamente nuda, anche se quella pratica non era poi così diffusa. Il comandante si chiese se Huw stava dando per scontata un’intimità tra lui e Noelle che non esisteva affatto. Quel pensiero lo irritò. Sapeva che a bordo si facevano congetture di tutti i tipi sulle sue abitudini sessuali, e personalmente trovava più divertente che seccante quell’insieme di furtivi pettegolezzi; tuttavia non voleva certo coinvolgere Noelle in quella ragnatela di chiacchiere, in quei sussurri lascivi.
— Possiamo unirci a voi? — domandò il comandante spogliandosi. Quella domanda rappresentava una cortese formalità. Huw rispose con un gesto magniloquente, e il comandante e Noelle entrarono in acqua dal lato opposto a quello in cui si trovavano Huw e Imogen. Il comandante fece per aiutare Noelle a entrare, ma non ve ne fu il minimo bisogno: lei sedette sul bordo della piccola piscina e scivolò in acqua come se potesse vedere ogni cosa. Una volta dentro, Noelle premette la gamba contro l’anca del comandante, ma lui lo ritenne un contatto accidentale dovuto alle ridotte dimensioni della vasca e al suo relativo affollamento, oltre al fatto che il senso dello spazio di Noelle poteva anche non essere così accurato in acqua. Il comandante si spostò quindi di qualche centimetro a sinistra per lasciarle più spazio, ma qualche attimo più tardi, dopo che anche gli altri si erano spostati nella piscina, Noelle lo sfiorò di nuovo. Difficile a quel punto credere che non fosse un contatto deliberato, anzi, che l’intera faccenda non fosse stata accuratamente studiata: la richiesta di venire alle terme con lui, il casuale spogliarello nella sua cabina, la passeggiata senza abiti in corridoio. Ma perché? Noelle era una donna bellissima, certo; era molto attraente e affascinante, anche, nella sua enigmatica, fredda dignità. Tuttavia non aveva mai voluto giocare un ruolo nello schema delle relazioni affettive e sessuali di bordo e, nonostante sembrasse chiaramente offrirsi a lui in quel momento, il comandante trovava difficile crederlo. In effetti, preferiva vederla tenera e ingenua, completamente innocente, una creatura asessuata che aveva scelto di donarsi interamente al profondo legame che la univa a sua sorella, senza cercare altra soddisfazione nella vita. Forse si sentiva frivola in quel momento, ma ciò non significava nutrire propositi apertamente erotici; oppure stava sperimentando un nuovo modo per allentare la tensione dovuta all’insoddisfacente contatto con sua sorella sulla Terra. In un modo o nell’altro, lui non aveva certo intenzione di rispondere in qualche modo ai suoi inviti, che fossero reali o meno.
Come sempre, l’idea di un coinvolgimento sessuale con Noelle gli parve a dir poco esplosiva. Non si sarebbe mai trattato di un rapporto puramente ricreativo come quello che aveva con Julia. Una storia tra lui e Noelle, anzi, rischiava di trascinare entrambi in un’immensa ragnatela di vischiose complicazioni. Lei era di vitale importanza per la missione, come lui, del resto. E il suo dovere di comandante gli imponeva di evitare la dispersione delle loro energie in affari privati infinitamente complessi.
Ciononostante, quella volta il comandante lasciò che la gamba di Noelle si strofinasse contro la sua. Perché? Be’, si disse, sarebbe stato un segno di vera scortesia rifiutare il contatto una seconda volta.
— Il suo discorso su Marcus mi è piaciuto molto — disse Imogen al comandante. — Ne sono stata davvero toccata. Come tutti a bordo, almeno credo.
— Grazie — replicò lui. Certo non era la risposta migliore che poteva dare, ma non gli venne in mente nient’altro.
— Povero Marcus. Era così difficile conoscerlo! — continuò Imogen. Lei e Marcus erano stati insieme per un breve periodo all’inizio del viaggio. Imogen faceva parte dello staff medico; era anche una degli addetti alla manutenzione, specializzata in metallurgia. A bordo della Wotan non era certo l’unica a esercitare due mansioni completamente diverse. — Anche a letto, lo sapevate? — aggiunse. — La nostra prima volta è avvenuta proprio qui alle terme. Eravamo seduti fianco a fianco, proprio come me e Huw adesso. Nessuno di noi due sembrava aver voglia di parlare, poi Marcus si voltò verso di me, mi sorrise, mi sfiorò un polso e accennò con il capo a una delle camere laterali. E così andammo, senza dire una parola. Non parlò neppure durante, e neanche dopo!
Huw sorrideva benigno, come se Imogen stesse parlando di una normale partita di Go con Marcus. D’altro canto, era anche possibile che non vedesse una gran differenza in termini ricreativi tra un amplesso e una partita di Go, tranne il fatto che giocare a Go richiedeva molto più impegno.
Ma Imogen non aveva ancora finito. — E fu così tutto il tempo, l’intera settimana che restammo insieme. Era un bravo ragazzo, davvero, ma non disse mai una parola su se stesso e non mi chiese mai nulla di personale. Caldo ma distante: un uomo davvero misterioso. Mi piaceva però, lo ammiravo, rispettavo la sua intelligenza e la sua serietà. Ero convinta che prima o poi si sarebbe aperto almeno un po’. E poi un giorno eravamo qui insieme e c’era anche Natasha, e lui si voltò verso di lei allo stesso modo in cui la settimana prima si era voltato verso di me… e questa fu la fine tra me e Marcus. Era finita, punto e basta. Ma io ho sempre pensato che Marcus e io avremmo avuto un giorno l’opportunità di conoscerci meglio, anche dopo molti mesi. E adesso anche questa speranza è svanita per sempre.
— Che peccato — commentò Sieglinde dall’altra vasca.
— Un ragazzo davvero in gamba — disse Huw. — Vederlo morire così mi ha lasciato davvero a terra. Che morte assurda!
Il comandante annuì distrattamente. Si trattava di una conversazione necessaria, pensò, uno stadio indispensabile del processo di assuefazione all’assenza di uno di loro, ma ciononostante si sentiva a disagio. E la pressione della coscia nuda di Noelle contro il suo fianco stava cominciando ad avere effetti indesiderati.
— Sulla Terra sono tutti molto tristi per quanto è successo — intervenne Noelle. — Ci ammirano molto, sapete? Seguono tutto ciò che facciamo con il massimo interesse. Per tutta la settimana la gente non ha fatto altro che parlare della spedizione sul pianeta A. Così almeno ha detto mia sorella. E poi, apprendere della morte di Marcus… — Noelle lasciò la frase in sospeso, scuotendo la testa. — Sapete che oggi terranno, ovunque sulla Terra, delle commemorazioni funebri per Marcus?
— Meraviglioso — commentò Imogen. — Certamente servirà a rafforzare il loro spirito. E anche il nostro.
Il comandante guardò Noelle, sorpreso. Quel particolare gli suonava del tutto nuovo. Noelle non gli aveva detto nulla del genere a trasmissione finita. Era ancora in contatto con Yvonne, ricevendo un flusso costante di notizie sulle reazioni alla morte di Marcus? Oppure (come odiava quell’idea, ma non voleva saperne di sparire) si stava semplicemente inventando tutto quanto?
— Non mi aveva detto — disse, con vago tono di rimprovero — delle commemorazioni funebri sulla Terra.
— Oh, sì. Ovunque sulla Terra.
— Siamo noi la loro notizia — disse Sieglinde con un riso sguaiato. — Noi attraversiamo l’immenso universo, noi viviamo, noi troviamo orribili pianeti e moriamo nel tentativo di esplorarli. È questo il grande evento per loro, il solo vero evento. Perché noi li sorprendiamo, e loro non sanno più cosa sia la sorpresa. Sono pecore, ecco la verità. Sono pigri e senza inventiva. Non vogliamo altre morti, naturalmente, ma di quando in quando dovremmo inventarcene una giusto per tener viva la loro attenzione. Per fare in modo che parlino sempre di noi. Anche per ricordare loro che la morte esiste.
Tutti volsero lo sguardo su di lei. Aveva un’espressione ardente e il viso rosso di rabbia. Sieglinde possedeva la capacità di alimentare da sé la propria tensione. E fu allora che sorrise, una sorta di smorfia a dire il vero, e il colorito rosso scomparve com’era venuto.
Cambiando voce, aggiunse: — È terribile ciò che è accaduto a Marcus. Mi fa ancora un effetto sconvolgente. Era un ragazzo così tranquillo, con una tale capacità di apprendere. Niente più perdite, comandante, mi ha capito?
— Vorrei non aver perso neppure Marcus — replicò il comandante.
Seguì un attimo di triste silenzio nelle terme.
— Bene — commentò infine Huw, issando il suo corpo massiccio fuori dalla vasca. Era rosso dal caldo, praticamente mezzo lessato. — Dovremmo muoverci adesso, penso — affermò, tuffando un braccio in acqua e tirando fuori la piccola Imogen come se fosse una bambina, per poi lasciar ciondolare per un attimo le sue gambe a mezz’aria prima di posarla dolcemente sul bordo piastrellato della piscina. Si fecero una doccia gelata, poi si vestirono e se ne andarono.
— Anch’io devo andarmene — annunciò Sieglinde. — Ho da fare in sala di controllo.
Noelle e il comandante restarono da soli, voltati nella stessa direzione e con le gambe ancora a contatto. L’uscita degli altri tre conferì un vago imbarazzo a tutta la situazione. La tensione erotica nata nel comandante nella cabina di Noelle, quando lei si era sfilata la veste restando completamente nuda davanti a lui, salì improvvisamente alle stelle. Probabilmente non era mai scomparsa. La più vicina delle tre camere laterali distava appena pochi passi: troppo facile raggiungerla, e per di più in una situazione di riservatezza assoluta. Tuttavia il comandante fece il possibile per trattenersi, perché non aveva idea di cosa volesse Noelle. Non aveva neppure idea di cosa volesse lui, a dire il vero. Ancora una volta, quindi, decise di attendere, lasciando a lei la prima mossa.
E, di nuovo, Noelle non gli offrì nulla se non la sua completa innocenza, la solita dolce indifferenza a qualunque risvolto sessuale della situazione.
— Ha ancora voglia di giocare quella famosa partita, comandante?
— Ma certo. Come vuole lei, Noelle.
Per prima cosa tornarono alla cabina di Noelle. Il comandante attese fuori che lei si vestisse. Dopodiché andarono nella sala comune, dove trovarono Paco e Roy intenti a giocare, e anche Sylvia e Heinz. Il comandante preparò la terza scacchiera per sé e Noelle.
Non giocava ormai da diverse settimane. La spedizione sulla superficie del pianeta A lo aveva distratto a sufficienza, in quel periodo. Non gli fu difficile entrare nel gioco, ma per quanto fosse bravo non aveva la minima possibilità. Noelle, che giocava con le pedine nere, lo aggredì subito con una tattica a lui ignota, e i suoi guerrieri dilaganti divorarono le povere pedine bianche con sorprendente facilità, mandando a monte ogni tentativo di contrastarne l’avanzata e creando anelli ellittici di territorio conquistato in tutta la scacchiera. La disfatta fu completa. La partita terminò tanto velocemente che Roy e Heinz, lanciando contemporanee occhiate dalle loro scacchiere, grugnirono entrambi di sorpresa, constatando che era già finita.
“Tutto è stato calcolato, controllato e ricontrollato. E oggi è il giorno della nostra partenza per il pianeta che a questo punto chiamiamo, con fredda e burocratica semplicità, il pianeta B. Ci auguriamo di aver motivo di dargli un nome più colorato e poetico in futuro: speriamo che possa diventare la nostra nuova casa. Sperare non costa nulla. Non nuoce certo alla salute, anzi, probabilmente fa del bene.
“Via via che il momento di balzare nel non-spazio si avvicina, mi ritrovo sempre più attratto dalla grande vetrata del corridoio centrale con la maestosa veduta del sistema solare che ci accingiamo a lasciare. Laggiù, da qualche parte, il maledetto pianeta A sta ruotando con indifferenza sul suo asse senza degnarci della minima attenzione. Per lui siamo come insetti, anzi, meno di insetti: non siamo niente. Nel modo più casuale possibile ha preteso una delle nostre vite, e ora procede con il suo moto attorno a quel sole dorato come ha sempre fatto, ignorando il crollo delle speranze di noi visitatori importuni e malvisti, di noi insetti che abbiamo osato disturbare brevemente la sua desertica solitudine. Presto ce ne andremo. Che follia pensare di trovar casa al primo tentativo: giustamente ci siamo imbattuti in un pianeta arido e senza cuore. La vita di Marcus è stato il prezzo da pagare per apprendere tutto questo!
“Ma, naturalmente, il pianeta in sé non può essere malvagio. Non può esistere in questo universo una cosa come un pianeta malvagio. I pianeti sono entità indifferenti. Semplicemente, quel pianeta non era fatto per noi.
“E ora tocca al pianeta B. Dopo, forse, verrà il pianeta C, e forse un giorno il pianeta Z.
“Mi trovavo davanti alla vetrata e guardavo quel cielo alieno, quello strano, ostile pianeta che ci siamo ostinati a esplorare, il suo sole giallo, i pianeti a lui prossimi che vagano nel cielo nero che ci avviluppa e che avviluppa le miriadi di stelle sullo sfondo, piccoli puntini lucenti che segnano l’immensità dell’universo in cui ancora una volta ci tufferemo; e poi, in una frazione di secondo, la scena è mutata radicalmente, cancellata in un batter di ciglia da un unico, immenso lampo, e di nuovo mi ritrovai a contemplare l’increspato, vorticoso, rilucente grigiore del non-spazio. Avevamo eseguito il balzo con successo. Quanto mi era mancato quell’accecante, nebbioso vuoto! Con che piacere l’ho contemplato nuovamente!
“E, quindi, ci ritroviamo di nuovo al di fuori dello spazio e del tempo per attraversare l’insondabile nulla che divide un luogo dall’altro, e io comincio a capire che in qualche modo sto diventando un cittadino del non-spazio: mi sento felice, si direbbe, solo quando riusciamo a liberarci della trama dello spazio e del tempo per librarci nella pace di quest’altra realtà, di questo vuoto nel vuoto, di questa inesplicabile anomalia, di questo insieme di equazioni matematiche che chiamiamo non-spazio. Qui il viaggio è solo un modo per giungere: perché dunque mi fa tanto piacere ritornare in questa dimensione? Non può darsi che preferisca segretamente non trovar mai un pianeta abitabile e ritrovarmi condannato a vagare per sempre nella galassia, al comando di una ciurma di dannati? Io come l’’olandese volante’? Certo che no. Certo che vorrei trovare nel pianeta B un luogo caldo e amichevole dove potremo stabilirci e vivere felici il resto delle nostre vite.
“Ma certo.
“Per arrivare, mi ha detto Paco, impiegheremo cinque o sei mesi. Massimo otto. È difficile dirlo con certezza al momento della partenza, visto che il viaggio nel non-spazio costituisce un paradosso matematico dall’inizio alla fine. Da cinque a otto mesi, comunque. E una volta arrivati ricominceremo daccapo: prima i rilevamenti a distanza, poi, se sarà il caso, la missione esplorativa a terra. Speriamo solo di avere miglior fortuna, questa volta.
“Il calcolo delle probabilità, però, lascia intendere che il pianeta B non si rivelerà più idoneo del pianeta A. L’uomo ha bisogno di un ambiente troppo raffinato: atmosfera perfetta, acqua in abbondanza, non troppo caldo e non troppo freddo, libero da altre specie intelligenti. Per fortuna, Hesper ha altri assi nella manica, oltre al pianeta B, almeno altri otto, dieci pianeti con forte presenza di ossigeno e clorofilla. E ve ne saranno altri oltre a questi, molte altre promettenti possibilità. La Via Lattea è incredibilmente grande, e noi ci troviamo dopotutto ancora nelle vicinanze della Terra, entro un’immaginaria sfera di soli cento anni-luce di diametro. Saltelliamo come pulci in un piccolo settore a circa trentamila anni-luce dal centro, e a una distanza ancora maggiore dalla periferia opposta della nostra galassia. Quante stelle contiene la Via Lattea? Cento miliardi? Duecento miliardi? Bene: se solo un millesimo di tutte queste stelle possedesse un sistema solare, e solo un sistema solare su mille possedesse un pianeta con atmosfera a base di ossigeno, vi sarebbero comunque tanti di quei pianeti potenzialmente abitabili che per visitarli tutti non basterebbe l’intera nostra vita, e forse neppure quella di tutti i bambini che potrebbero nascere a bordo. Sicuramente uno di questi sarà idoneo ad accoglierci.
“Sicuramente.”
Erano già molto avanti nella nuova traversata, e le fastidiose interferenze nel ponte telepatico ripresero più forti di prima. Le scariche, l’appannamento della qualità del contatto, iniziata verso la fine del quinto mese di viaggio per intensificarsi in determinati momenti e poi sparire senza alcun preavviso, tornarono a farsi sentire con violenza quantomai inaspettata. Alcune volte, Noelle riusciva a malapena a mettersi in contatto con Yvonne.
Nonostante il viaggio procedesse senza problemi, un giorno sereno dopo l’altro, il comandante insisteva comunque per inviare alla Terra il rapporto quotidiano e riceverne in cambio notizie. Riteneva di importanza essenziale il continuo contatto, sia per la gente della Terra, che viveva per procura l’avventura più eccitante di una languida esistenza grazie alle imprese degli uomini e delle donne della Wotan, sia per il suo equipaggio, che traeva un immenso beneficio psicologico dall’apprendere e commentare le notizie del giorno ricevute praticamente in diretta.
Tuttavia, da un certo punto in poi, i problemi di comunicazione si fecero seri, e Noelle dovette impegnarsi con tutte le sue forze per mantenere un contatto sempre più vago con la lontanissima Yvonne. Si impegnava a tal punto che il comandante cominciò a temere per la sua salute. Il suo sforzo era tale da trasmettersi anche a lui.
— Ho un nuovo comunicato da inviare — le disse un giorno il comandante, con tono il più normale possibile. — Se la sente di tentare?
— Certo che sì! — esclamò lei, quasi seccata. Ma poi sorrise e disse: — Si tolga dalla testa l’idea di mettermi a riposo, comandante. Deve pur esistere il modo di eliminare questa interferenza.
— Ne sono certo — si affrettò a rassicurarla, giocherellando nervosamente con i suoi appunti. — Bene, cominciamo. Giorno di navigazione numero…
— Aspetti — disse lei. — Mi dia un altro minuto per prepararmi.
Lui attese. Lei chiuse gli occhi e cominciò a cercare Yvonne. Era conscia come sempre della sua presenza. Anche se nessun dato specifico passava da una mente all’altra, esisteva un perenne stato di contatto a basso livello, esisteva la percezione della vicinanza dell’altra, esisteva una calda consapevolezza propriocettiva identica a quella che tutti noi abbiamo verso la nostra gamba o il nostro braccio. Tuttavia tra quell’impalpabile contatto subliminale e la trasmissione di un vero e proprio testo vi erano diversi passaggi chiave. Yvonne e Noelle erano risonatori biopsichici umani che formavano un ponte di comunicazione a lunga distanza, simile in un certo senso a un ponte radio. Anche per loro esistevano, quindi, delle determinate procedure di sintonizzazione, esattamente come accade tra ogni trasmettitore e ogni ricevitore. Noelle si aprì allo spettro di energia radiante, tutta vibrazioni e impulsi, che doveva portare il messaggio a sua sorella sulla Terra. E, visto che lei faceva da circuito trasmittente, era lei a dover modulare ed emettere degli impulsi abbastanza potenti da essere ricevuti. Velocemente e in modo puramente intuitivo, attivò i suoi centri energetici, uno nella spina dorsale, l’altro nel plesso solare, l’altro ancora appena sopra la fronte; un raggio di pura energia mentale partì allora da lei, percorrendo a inimmaginabile velocità le immense distese dello spazio-tempo.
Ma quel giorno si verificò un effetto strano e fastidioso; monitorando il circuito, Noelle si accorse che il suo segnale si infrangeva su una sorta di schermo che gli impediva di raggiungere Yvonne. Sua sorella era là, sintonizzata e in attesa, e tuttavia qualcosa bloccava il canale e nulla passava più, non una singola sillaba.
— Oggi l’interferenza è più forte che mai — riferì al comandante. — Mi sento come se potessi allungare la mano e “toccare” Yvonne, ma lei non mi riceve e io non ricevo i suoi messaggi!
Con un fremito di rabbia e stupore, Noelle alterò la frequenza della trasmissione, avvertendo al contempo la corrispondente correzione da parte di Yvonne, Ma, di nuovo, il contatto venne impedito. Il blocco sembrava insormontabile. Il suo segnale partiva regolarmente, ma veniva assorbito… da cosa? Come poteva accadere una cosa del genere?
Con uno sforzo rabbioso, Noelle cercò di dare al segnale il massimo dell’energia. Si concentrò il più possibile sul centro energetico di base, quello nella spina dorsale, eccitandone le energie e utilizzandole per portare il centro energetico successivo alla massima frequenza vibrazionale. Da lì prese tutta l’energia di cui aveva bisogno per portare il centro energetico trasmittente, sopra la fronte, alla maggior capacità armonica che poteva sviluppare. Noelle vagò disperata su e giù per le bande energetiche mentali. Inutilmente. Inutilmente. Tremante, lottò fino all’orlo del collasso. Pallida come un cadavere, con evidenti difficoltà di respirazione, crollò sulla sua sedia, e prima di svenire sussurrò al comandante: — Yvonne è là. Lotta con me per superare il blocco. La sento, ma non riesco a trasmetterle neppure una parola!
Si trovavano a cento, duecento o forse più anni-luce dalla Terra, e l’unico mezzo con cui potevano comunicare in tempo reale era bloccato. Il comandante si ritrovò inaspettatamente a fronteggiare un’ondata di gelido terrore. Non potevano riferire più nulla al loro pianeta madre e non potevano ricevere nulla. Non avrebbe poi dovuto importare così tanto, ma importava. Importava terribilmente, in qualche modo. La loro astronave, così autonoma e autosufficiente, non era diventata altro che un guscio di noce perso in una tempesta. L’oscurità li circondava da ogni parte. Ormai i viaggiatori delle stelle non potevano far altro che continuare ciecamente la loro corsa verso l’ignoto, sempre più soli.
Il comandante sedeva in silenzio nella sala di controllo, pensando. Aveva tradito Noelle, fuggendo da lei nel momento del più disperato bisogno, lasciandosi travolgere dall’immensità del suo sconforto, perché la perdita di Noelle, lo sapeva, era immensamente più grande della loro. Tutt’intorno a lui brillavano le spie, le luci dei quadranti. Ma nulla di tutto ciò aveva più senso, ormai. Tanta era la sua confusione che si sentiva stordito dall’improvvisa e profonda disperazione che dominava in lui.
E pensare che qualche mese prima aveva accolto con tanta baldanza l’idea di abbandonare ogni legame con la Terra; bene, adesso che il legame era reciso, tremava e piangeva come un bambino. Non si riconosceva più, non sapeva chi fosse l’uomo titubante e pauroso che era diventato. Nulla era come prima. Le regole non valevano più. Nessun essere umano si era mai spinto tanto lontano da casa e il tenue, invisibile legame tra le due sorelle costituiva il motivo della loro esistenza. Solo adesso lo capiva. Ora il legame era caduto, e con esso il motivo della loro esistenza. L’universo era immenso, e la loro astronave cosi piccola! Uscì in corridoio, fermandosi come sempre davanti alla grande vetrata. La nebbia dell’Intermundium piena di vorticosi movimenti, il grigiore verso cui si sentiva tanto attratto e che tanto gli aveva rivelato sembrava ormai deriderlo con la sua insopportabile immensità. Lo derideva e lo seduceva allo stesso tempo. “Entra in me” mormorò “entra e rendimi parte di te, avvolgi la mia mente nelle tue spire.”
Da dietro di lui venne il rumore di passi leggeri. Noelle. Una mano sfiorò delicatamente le sue spalle ingobbite. — Va tutto bene — sussurrò la sua calda voce femminile. — Non dobbiamo farci prendere dal panico. Non dobbiamo farne una tragedia. — Peccato solo che lo fosse, una tragedia. La sua tragedia, soprattutto, quella di Noelle. E di Yvonne. Lui si stupì di ricevere conforto da lei, quando in quel momento doveva essere lui, semmai, a confortarla. Noelle e Yvonne avevano trascorso le loro vite nella più profonda delle unioni, un’unione fondamentalmente incomprensibile a chiunque, un’unione persa per sempre, ormai. Che coraggio dimostrava, si disse. Che forza d’animo davanti al suo grande disastro.
Ma quella sciagura colpiva tutti loro, tutti fino all’ultimo. Erano tagliati fuori, persi per sempre in un nebbioso silenzio. Qualunque successo avessero ottenuto in futuro, sempreché riuscissero a ottenerlo, non sarebbe mai stato condiviso con i loro simili rimasti sulla Terra. O perlomeno non in tempo reale, non per uno o due secoli, il tempo necessario alle onde radio, o a qualsiasi mezzo si muovesse alla velocità della luce, per raggiungere la Terra. Nessuno dei quarantanove membri dell’equipaggio sarebbe stato ancora vivo per allora, mentre il messaggio di ritorno sarebbe stato ricevuto dai loro nipoti.
Dalla sala comune, più avanti lungo il corridoio, giunsero le voci stonate di un coro improvvisato. Voci allegre: Elliot, Chang, Leon e gli altri. Nessuno sapeva ancora nulla.
Presto, presto, dei cieli la carretta
lontano lontano il paradiso ci aspetta!
Il comandante non si era ancora girato. Qualcosa che poteva essere un sospiro, o forse un vago singhiozzo, sfuggì a Noelle, immobile dietro di lui. Solo allora si voltò, avvolgendola nelle sue braccia e stringendola a sé. Lei tremava. Lui cercò di confortarla, quando appena un attimo prima era lei che lo stava confortando. — Sì, sì, sì — mormorò il comandante. Sempre con il braccio attorno alle sue spalle, la fece voltare in modo che guardassero entrambi fuori dalla vetrata. Come se Noelle potesse vedere. Il non-spazio danzava vaporoso a dieci centimetri dal suo volto, appena oltre la spessa lastra di cristallo. Quel luminoso grigiore, quel profondo, infinito pozzo di nulla, quel grande Intermundium adesso lo spaventava. Gli parve quasi di avvertire un fortissimo vento soffiare contro la lastra, premere per entrare nell’astronave, il khamsin, il libeccio, il simum, lo scirocco, un vento soffocante, un vento velenoso nato nelle profondità del grigio nulla, tutti venti tetri, secchi che spazzavano la Terra portando fuoco e follia, venti caldi e venti freddi, il mistral, la tramontana. No, si disse. No. Si sforzò di non temere quel vento. Cercò di convincersi che era un vento di gioia, un vento dolce e fresco, un vento di vita. Perché pensava che vi fosse qualcosa da temere nel regno oltre la vetrata? Fino a quel giorno si era soffermato a contemplare le volute di grigio nulla con grande piacere: che fascino esercitava su di lui, che estatica attrazione. Ed era ancora così. Noelle fremeva, appoggiata al comandante come se vedesse ciò che vedeva lui, e lui cominciò a sentirsi calmo, cominciò a ritrovare la bellezza del regno del non-spazio. Che tristezza, pensò allora, non poterla più descrivere a nessuno, se non a se stessi!
Una strana pace scese inaspettatamente su di luì. Aveva trovato nuovamente la calma profonda che solo nel suo periodo monastico era riuscito a raggiungere. Tutto sarebbe andato per il meglio, mormorava una voce dentro di lui. Nessun serio inconveniente verrà da quanto accaduto. Anzi, ne verrà del bene. Perché il bene amava celarsi anche nelle situazioni più oscure.
Noelle giocava ossessivamente a Go, battendo tutti. Viveva praticamente nella sala comune sedici ore al giorno. Qualche volta si misurava contemporaneamente con due avversari, una cosa incredibile considerando che doveva memorizzare lo sviluppo di schemi complessi su due scacchiere, sconfiggendoli entrambi. Due giorni dopo aver definitivamente perso il contatto verbale con sua sorella Yvonne, si misurò contemporaneamente con Roy e Heinz, sconfiggendo prima uno e poi l’altro davanti a un attonito pubblico di quindici, venti persone. Era vivace e di buon umore, almeno in apparenza. Tutti, ormai, sapevano della perdita del contatto con la Terra, e tutti constatavano con quanta cura Noelle celasse il suo dolore per l’accaduto. Lo esprimeva, sospettavano gli altri, solo tramite la sua passione maniacale per Go. Il comandante era uno dei suoi avversari preferiti, soprattutto adesso che poteva dedicare alla scacchiera il tempo dedicato, fino a pochi giorni prima, alla raccolta dei dati da inviare quotidianamente sulla Terra e alla stesura dei relativi comunicati. Il comandante pensava di aver chiuso con Go anni prima: nulla di più errato. Anche lui giocava ormai ossessivamente, costruendo mura e le inespugnabili fortezze conosciute come “occhi”. Trovava rassicurante e soddisfacente il ritmico battere delle pedine bianche e nere. Ma Noelle vinceva ogni partita che giocava contro di lui. Unica tra tutti, lei copriva l’intera scacchiera di occhi.
L’avvicinamento al pianeta B servì parecchio a distrarre i viaggiatori dai problemi creati dall’interruzione del contatto con la Terra. Le aspettative cominciarono rapidamente a salire. Improvvisamente, si diffuse un certo ottimismo tra i membri dell’equipaggio riguardo le possibilità di quel pianeta. L’assenza dei rassicuranti messaggi da casa trovava, insomma, una contropartita nella speranza, chissà quanto fondata, di scoprire un meraviglioso pianeta pronto per loro, alla fine del lungo viaggio.
Hesper lavorava molto per raffinare le tecniche di correlazione, e di quando in quando forniva loro una pletora di dati a elevata affidabilità, almeno secondo lui, sul pianeta verso cui si dirigevano. Si trattava del secondo di un sistema di cinque pianeti in orbita attorno a una stella di tipo K di medie dimensioni. Che una stella con quel tipo di spettro potesse fornire abbastanza calore da sostenere la vita fu oggetto di qualche discussione a bordo. Ma Hesper assicurò a tutti che la stella di quel sistema era un tipo K di luminosità superiore alla media, e che il pianeta B era abbastanza vicino da ricevere tutto il calore necessario, forse anche troppo per un clima ideale.
Come faceva Hesper a sapere tutto ciò? Nessuno riusciva a immaginarselo. Era uno dei rari misteri che movimentavano la vita di bordo. Non poteva osservare direttamente il sistema verso cui puntavano, non dal non-spazio. Tutti sapevano che si limitava a giocare con un grappolo di criptici dati analogici riferiti alla realtà, un insieme di equivalenti decodificato con metodi che nessun altro comprendeva. Tuttavia, le sue conclusioni sul pianeta A si erano dimostrate pienamente corrette, perlomeno per quanto riguardava le dimensioni, la temperatura media, la composizione atmosferica e gli altri punti salienti che lo riguardavano. Hesper, in verità, non aveva previsto un piccolo dettaglio sul pianeta A che lo rendeva decisamente inadatto a un insediamento umano, ma si trattava di un particolare che non poteva essere rilevato dagli strumenti, ma solo al momento dell’atterraggio di una missione con equipaggio umano.
Ciò che Hesper affermava riguardo al pianeta B suonava ancora più incoraggiante dei rapporti preliminari sul suo infelice predecessore. Il pianeta B, diceva Hesper, era un pianeta di medie dimensioni, con un diametro superiore a quello della Terra di circa il quindici per cento. Tuttavia doveva esser composto di materiali più leggeri perché la massa, e quindi anche l’attrazione gravitazionale, non si discostava molto da quella terrestre. Sicuramente possedeva un’atmosfera, e qui le proiezioni suscitavano entusiasmo: si trattava della cara, vecchia miscela di ossigeno, azoto e anidride carbonica, presenti nelle percentuali preferite dai polmoni umani. Unico neo, sembrava esservi un po’ troppa anidride carbonica. Un po’ tanta, per essere precisi, tanta al punto da creare un sensibile effetto serra, dando probabilmente origine a un clima decisamente caldo e umido, simile a quello della Terra del Mesozoico. Tuttavia il Mesozoico era un’epoca decisamente amica delia vita, un’epoca ricca di flora e di fauna. “Non preoccupatevi, quindi” amava ripetere Hesper. “Pensate in termini tropicali” aggiungeva, e da buon figlio dei soleggiati tropici tradiva un fremito di felicità e anticipazione. Tutto sarebbe andato per il meglio. Stavano per atterrare su un pianeta tipo Hawaii oppure tipo Madagascar. Caldo, caldo, caldo e un sacco di umidità come sinonimo di natura rigogliosa, un brillante ma piovoso paradiso, un dolce Eden lussureggiante.
Bene, forse era così. Alcuni dei più vecchi membri dell’equipaggio ricordarono che il Mesozoico era l’epoca dei dinosauri, e nessuno trovò particolarmente allettante l’idea di fondare una colonia su un pianeta popolato da grandi rettili. Ma l’analogia, in effetti, non aveva senso. L’evoluzione non seguiva certo lo stesso percorso su pianeti diversi. L’effetto serra con elevata umidità e temperatura tropicale da polo a polo aveva dato vita sulla Terra a grandi, feroci animali, ma lo stesso effetto sul pianeta B poteva essersi limitato a creare delle enormi meduse felicemente a spasso in azzurri oceani da sogno.
Già, gli oceani. Su quel punto era nato un piccolo mistero. L’abracadabra analogico a lunga distanza di Hesper non aveva scoperto, almeno fino a quel momento, alcun oceano sul pianeta B. La cosa, in effetti, non sembrava granché sensata, considerando l’apparente prevalenza di molecole d’acqua nell’atmosfera e le temperature medie così elevate, che logicamente dovevano generare un sacco di pioggia. Invece, la superficie del surrogato virtuale del pianeta B realizzato da Hesper appariva identica e uniforme, priva di differenze termiche o morfologiche. Possibile che si trattasse di un pianeta interamente coperto d’acqua? Oppure la superficie era un’unica, immensa foresta punteggiata di laghi e fiumi troppo piccoli per essere individuati dai sensori? Tra le due ipotesi c’era chi propendeva per l’una e chi per l’altra, ma chiaramente la soluzione del mistero doveva attendere la loro uscita dal non-spazio e la prima ricognizione ottica.
E poi, si dava per scontato che, una volta esaurite le ricognizioni preliminari da un’orbita bassa, si sarebbe provveduto a inviare prima un sonda, naturalmente se il pianeta fosse risultato potenzialmente abitabile, e quindi una spedizione umana, una nuova squadra di esplorazione. Tutti però ritenevano che le cose sarebbero andate davvero per il meglio, che il pianeta sarebbe risultato non solo abitabile ma ideale, e quindi che una squadra di esplorazione fosse già nei progetti del comandante. Il che sollevò un argomento già discusso in precedenza, ossia la composizione della squadra che sarebbe scesa sul pianeta per confermarne la bellezza e l’idoneità alla vita umana. E dato che anche quella volta l’incarico del comandante scadeva giusto qualche tempo prima dell’arrivo nel sistema del pianeta B, le discussioni nella sala comune a quel proposito si sprecarono.
Passarono altri mesi, e l’arrivo era previsto di lì a poco. Intanto c’era da risolvere il problema dell’elezione del nuovo comandante. Naturalmente, il comandante in carica non voleva saperne di farsi rieleggere per il terzo anno. Anzi, dichiarava apertamente di voler fare parte della squadra di esplorazione.
Il problema venne affrontato con calma e pacatezza dalla decina di persone che più si interessava a quelle faccende.
— Lui è essenziale, indispensabile — dichiarò Heinz. — Non esiste alternativa plausibile per quell’incarico. Guardiamo in faccia la realtà: deve farsi rieleggere.
— Bene — ribatté Paco. — Diglielo tu.
— È chiaro che non vi sono alternative — intervenne Elizabeth. — Mi spiace per lui, ma dovrà essere rieletto.
— Insomma, vi siete messi d’accordo tra di voi. La sua rielezione è di nuovo scontata, vero? — chiese Julia.
Heinz le lanciò un’occhiata rapida. — Non ti piace? Bene, allora perché non ti candidi ancora?
— Mi candiderei se servisse a qualcosa, e lo sapete. Ma purtroppo ha ragione lei, Heinz: al momento della votazione non raggiungerei il quorum. La gente rieleggerebbe lui.
— E lui sarà rieletto — concluse Heinz. — Proprio come l’anno scorso.
— Ma esploderà, rifiuterà con tutte le sue forze! — esclamò Huw.
— E se lo mettessimo davanti al “fatto compiuto”? — azzardò Sylvia. — Gli diciamo che è stato rieletto per acclamazione e ci appelliamo al suo senso del dovere.
— Il suo senso del dovere — rispose Huw — è interamente rivolto all’esplorazione del pianeta B. Non ha firmato per fare il comandante a vita. L’incarico doveva ruotare di anno in anno, in teoria. E quindi perché dovrebbe accettarlo se gli impedisce di fare ciò per cui si è imbarcato in questo viaggio?
Tutti tacquero per un attimo. L’argomento era più che valido; tuttavia, ognuno concordava sul fatto che non vi era nessun altro a bordo in grado di mietere lo stesso consenso. Il comandante si era affermato nella mente di tutti come il loro comandante e basta, anche per sempre. Sostituirlo con qualcun altro avrebbe avuto il vago sapore di un ammutinamento. E chi potevano scegliere, comunque? Roy, Giovanna, Julia, Huw, Leon? Coloro che erano sufficientemente maturi per ricoprire l’incarico non volevano saperne, oppure si sentivano inadatti ad assumersene la responsabilità.
Alla fine decisero di sondare l’umore dell’intero equipaggio e di presentare i risultati al comandante. Farlo non fu difficile, e il risultato fu quello che tutti si aspettavano: la sua rielezione era unanime. Huw, Heinz, Julia e Leon formarono la delegazione che si assunse l’onere di portare quel risultato al comandante. All’ultimo momento Noelle, che sedeva nella sala comune durante la discussione, chiese di essere inclusa nella delegazione.
— No — disse seccamente il comandante quando apprese i risultati del sondaggio. — Lasciate perdere. Non sprecate il vostro tempo perché non ci penso neppure. Tra poco lascerò questo posto, grazie a Dio, e voi dovrete cercare qualcuno in grado di sostituirmi.
— Ma l’intenzione di voto era unanime… — balbettò Leon.
— E allora? Perché dovrebbe interessarmi? — ribatté il comandante, alzando insolitamente la voce. — Forse qualcuno mi ha consultato? Forse qualcuno si è preso la briga di venirmi a chiedere se, per caso, intendevo candidarmi? Bene, vi comunico adesso, e ufficialmente, che non sono un candidato. L’anno scorso ho accettato di essere rieletto con la massima riluttanza solo per il bene comune, ma sia chiaro che la mia disponibilità ha un limite. Mi sono spiegato?
Certo che si era spiegato. Anzi, a dire il vero la cosa era chiara fin dall’inizio. Ma loro non potevano accettare il suo rifiuto perché l’astronave doveva avere un comandante e all’orizzonte non si profilava alcuna soddisfacente alternativa alla rielezione. Gli opposero quella situazione, e lui ripeté quanto era determinato a lasciare la sua carica non appena scaduto il termine, e per un attimo tutti parlarono nello stesso momento. La discussione stava generando un sacco di calore, ma ben poca luce.
Nel momento di silenzio che seguì con prevedibilità quasi cosmica, la voce tranquilla di Noelle risuonò per la prima volta. — È per quella regola che impedisce al comandante di prender parte agli atterraggi che rifiuta di restare al suo posto, vero?
— Già. Proprio così.
— E questa sarebbe la sola ragione? Nient’altro?
Lui ci pensò sopra per un attimo. — No, in effetti, non vedo altre ragioni.
— E allora perché non cambiamo questa regola?
Tutti restarono di sasso per la semplicità della sua idea, persino il comandante. Ma Leon aveva qualcosa da dire. — Quella regola non è solo un’arbitraria seccatura. Esplorare un pianeta sconosciuto è una cosa pericolosa, e non vogliamo certo mettere a repentaglio la vita del comandante con avventure di qualsiasi sorta.
— D’altro canto — ribatté Julia — si direbbe che siamo destinati a restare senza comandante se consentiamo a quello in carica di correre questi rischi. Mi spiega allora…
— Inoltre — la interruppe Leon con voce implacabile — tutti noi abbiamo accettato senza discutere i termini del regolamento. Pertanto, non abbiamo alcun diritto di modificarli senza autorizzazione e senza contattare la Terra.
A quel punto fu Noelle a intromettersi. — Non c’è modo di contattare la Terra — disse, — Il contatto è caduto, lo sappiamo tutti.
— Anche così — ribatté Leon — abbiamo il dovere di mantenere e applicare…
— Che dovere? Verso chi? — scattò Heinz, e poi fu la volta di Huw con la sua voce tuonante: — Ascoltate! Ascoltate! Ma perché nessuno vuole ascoltarmi?
La discussione degenerò di nuovo in totale confusione, fino a quando il comandante non riportò il silenzio battendo ostinatamente la mano su una delle paratie.
— Qui abbiamo il seme di un compromesso, credo — disse quindi con voce fredda da “non prendetemi in giro”. — Accetterò il comando per il terzo anno se modificheremo il regolamento in modo che mi sia permesso, a mia sola discrezione, di partecipare a tutte le esplorazioni planetarie che dovessero essere decise durante il mio incarico.
— Ma non è possibile! — strillò Leon. — I responsabili della missione non accetteranno mai.
— I responsabili della missione sono sulla Terra, che dista quasi cento anni-luce — gli ricordò Heinz. — E, inoltre, non c’è più speranza di contattarli. Non è così, Noelle? Il contatto con sua sorella è caduto e non c’è più alcuna speranza di ripristinarlo, vero?
— Sì, il contatto è caduto — ripeté Noelle con un filo di voce. — Quanto alla speranza di ripristinarlo, preferirei non esprimermi.
— Comunque — tagliò corto Heinz — è fuor di dubbio che siamo soli quassù — dichiarò, assaporando il trionfo. — Spiacente, Leon, ma non possiamo permettere che le ipotetiche reazioni della Terra mandino a monte un accordo che può funzionare anche in futuro. E, in ogni caso, dobbiamo cominciare a prendere delle decisioni autonome alla luce di situazioni che sulla Terra non possono neppure cominciare a capire.
Tacitato Leon, Heinz si rivolse al comandante. — Lo ripeta ancora, comandante, tanto per essere certi di aver capito bene: la regola che vieta al comandante di partecipare alle esplorazioni planetarie è l’unica ragione per cui lei rifiuta la rielezione, giusto?
— Sì.
— E lei non avrebbe nulla in contrario a restare in carica se cambiassimo immediatamente questa regola in modo da consentirle di partecipare all’esplorazione del pianeta B.
— Esattamente.
Heinz si rivolse agli altri. — Come vedete è prendere o lasciare, amici. Se vogliamo rieleggere il comandante dobbiamo modificare il regolamento, oppure dovremo cercarci un altro comandante. Viste le circostanze e considerando il fatto che i voleri dei cervelloni sulla Terra sono non solo sconosciuti e impossibili da conoscere, ma anche irrilevanti, propongo di convocare subito tutto l’equipaggio e di sottoporre a votazione la modifica del regolamento.
— Giusto — approvarono Huw e Julia nello stesso momento.
Leon sospirò ma non disse nulla.
E, quindi, l’accordo fu finalmente trovato. I delegati uscirono, e quel giorno stesso la modifica al regolamento venne sottoposta al voto dell’assemblea. Leon fu la sola voce contraria. Il comandante accettò l’esito della votazione con moderata felicità. Nonostante tutto, modificare il regolamento lo metteva a disagio quanto Leon. C’era qualcosa di vagamente nichilistico nell’agire così, una sorta di negligente, caotica volontà che offendeva il suo innato senso dell’ordine. Dopotutto tutti loro avevano promesso solennemente di governare la vita di bordo secondo i termini del regolamento, ma ecco che alla prima occasione importante procedevano a modificarne uno alle spalle della Terra, senza neppure sognarsi, tanto per dire, di aspettare qualche tempo per vedere se il contatto veniva ripristinato.
Tuttavia Heinz aveva ragione. Con il ponte telepatico ormai interrotto, nonostante Noelle provasse ogni giorno a contattare Yvonne, la Terra aveva cessato di rappresentare un fattore significativo nei loro calcoli, anzi, aveva del tutto cessato di rappresentare un fattore. E, vista la situazione, spettava a loro e soltanto a loro giudicare se un articolo del regolamento era diventato inapplicabile ed era quindi da modificare. Inoltre, lo stesso articolo parlava di una rotazione annuale della carica di comandante, e questo era stato ignorato deliberatamente da tutti senza suscitare alcun tipo di protesta, tranne quella del comandante. Logico, dunque, che a un certo punto si dovesse compensare, liberando il comandante dall’obbligo di restare a bordo fino all’ultimo.
Presto un altro pianeta sarebbe apparso all’orizzonte, come diceva Huw, e il comandante non aveva alcuna intenzione di restare indietro quando fosse giunto il momento di esplorarlo. Quello era l’essenziale. Non sarebbe più rimasto indietro.
“Ecco dunque che ha inizio il mio terzo mandato di comandante. A questo punto, credo di dovermi abituare a mantenere la carica per sempre, perlomeno finché resteremo a bordo.
“L’elezione è stata una cosa sporca, naturalmente, un compromesso fatto di vergognosi scambi. Ma la cosa, infine, è andata in porto: loro hanno il loro quid, io ho il mio quo ed ecco fatto. Ormai sono abituato a essere eletto comandante. Una cosa alquanto ironica, considerando con quanta cura ho sempre evitato di assumermi le mie responsabilità verso gli altri, arrivando anche al punto di bruciare più di una promettente carriera. Tuttavia, ciò che ho fatto in passato non può e non deve interferire con il senso di responsabilità che adesso la situazione mi impone.
“L’astronave ha bisogno di un comandante. Sembra che non vi sia nessuno indicato quanto me per farlo. Io, però, ho bisogno di tornare alla mia passata occupazione: esplorare nuovi mondi, studiarne le forme di vita. La Terra invece ha bisogno…
“Già. La Terra ha bisogno di noi. Non devo mai scordarmelo.
“Povera vecchia Terra! Tutto l’antico squallore se n’è andato, il dolore non esiste praticamente più, e tuttavia c’è ancora qualcosa che non va. La fame e la malattia sono vinte. La vita dura mediamente più di un secolo, in pratica un’eternità dal punto di vista umano. La guerra è qualcosa che leggiamo nei libri di storia, qualcosa di remoto e antropologico, una strana, obsoleta pratica dei nostri antenati, paragonabile al cannibalismo e alla follia omicida. E, tuttavia, qualcosa di sbagliato continua a restare. Penso a tutto ciò che conosco della storia umana, e in effetti la conosco bene: le pestilenze, i massacri, la tortura fine a se stessa, le grandi e piccole viltà, l’intero catalogo dei peccati che Sofocle, Shakespeare e Strindberg misero a fuoco con tanta precisione. E mi chiedo perché l’uomo moderno non provi una grande gioia per ciò che è riuscito a fare. Ne posso dedurre solo che siamo una specie infelice, mai soddisfatta da alcun risultato, neppure da una vita che potrebbe essere lunga, luminosa e felice. A noi manca sempre qualcosa, anche nella perfezione. Ed è la consapevolezza di questa nostra mancanza a spingerci avanti, sempre più avanti in cerca di nuovi obiettivi.
“Il che rappresenta, probabilmente, la causa scatenante di ogni guerra e di ogni massacro, quell’istinto vivo persino nei nostri preistorici antenati che imponeva di mettere a posto le cose in qualche modo, qualunque modo, anche il più cruento. I nostri metodi sono diventati senza dubbio più umani e più efficienti a mano a mano che crescevamo, che costruivamo la nostra civiltà, ma quell’istinto, quella fame, si fa ancora sentire. E ora ci spinge tra le stelle per vagare tra mondi completamente sconosciuti.
“Forse sto semplicemente proiettando sull’intera specie umana i miei bisogni, i miei appetiti e le mie consapevolezze sulle nostre carenze? La maggior parte di coloro che sono rimasti sulla Terra si considera felice e realizzata in quest’epoca di meraviglie moderne, magari provando pietà per la manciata di romantici avventurieri che ha accettato di far rivivere l’antico spirito di avventura, partendo alla cieca per questo viaggio tra le stelle?
“Non lo credo. Non ’voglio’ crederlo. E noi andremo avanti, noi cinquanta, fino a trovare ciò che stiamo cercando. (Noi quarantanove, dovrei dire ora, ma la vecchia frase è radicata troppo in profondità.) E quando lo avremo trovato, cosa di cui sono assolutamente certo, vorrei poter pensare che almeno per un momento noi vivremo in pace con noi stessi.
“Vorrei che fossimo ancora in contatto con la Terra.
“Mi preoccupo per Noelle. Sembra stare bene, in effetti, nonostante la mancanza del contatto con sua sorella che l’ha nutrita e che l’ha sostenuta per tutta la vita. Sarà vero? Sarà così?”
La caduta del ponte telepatico che li univa alla Terra era stata l’oggetto di molte discussioni, naturalmente.
Nessuno sapeva ancora se si trattava di una perdita di contatto definitiva e irreversibile oppure no. Certo, durante l’incontro tra il comandante e la delegazione che gli portava i risultati del sondaggio preelettorale Noelle aveva detto che non c’era modo di ripristinare il contatto con Yvonne; ma, come la stessa Noelle aveva ammesso privatamente con il comandante il giorno dopo, lo aveva detto soprattutto per sostenere gli argomenti di Heinz a favore della modifica del regolamento. In realtà, neppure Noelle sapeva se in futuro sarebbe stato possibile ripristinare il contatto, e si sentiva in colpa per aver dato a tutti l’idea che ciò non fosse possibile. — L’ho detto perché volevo che l’equipaggio raggiungesse un accordo con lei — confessò, ma solo al comandante. — In mancanza di un contatto con la Terra, non dobbiamo spiegare a nessuno perché abbiamo ritenuto opportuno modificare il regolamento. Tuttavia, è sempre possibile che un giorno riesca a mettermi nuovamente in contatto con Yvonne. È già successo che il contatto s’indebolisse per poi tornare nuovamente forte…
Diceva di avvertire ancora la presenza di Yvonne da qualche parte nella sua mente. Tuttavia, da giorni ormai non riusciva a percepire i messaggi che senza dubbio Yvonne le mandava e sospettava, pur senza averne la certezza, che anche a Yvonne non arrivassero i testi dei messaggi che lei le inviava. Ogni giorno compiva nuovi sforzi per ristabilire il ponte telepatico, ma senza risultato, fino a quel momento. Di fatto erano tagliati fuori dalla Terra, e se le cose continuavano così sarebbero rimasti isolati per sempre.
Nessuno, peraltro, credeva che il problema nascesse da una cosa tanto ovvia come la distanza. Noelle era stata molto chiara in proposito: se dopo sedici anni-luce gli impulsi telepatici giungevano alla ricevente ancora nitidi e in tempo reale, non vi era motivo perché la stessa cosa non dovesse accadere anche a cento anni-luce, che in termini di impulsi telepatici significavano pochi secondi in più di viaggio. Perlomeno, avrebbe prima dovuto avvertire qualche segnale di attenuazione, ma nulla di simile si era verificato, solo scariche statiche penetrate improvvisamente nel segnale e via via sempre più potenti fino ad annullarlo completamente.
— È qualche tipo di energia — suggerì Roy — che è penetrata nel non-spazio e ha bloccato il collegamento.
Energia? Che tipo di energia?
La vecchia idea di Noelle sulla natura di quell’energia, originata secondo lei da una sorta di effetto “macchie solari”, vale a dire irradiazioni prodotte da questa o quella stella gigante nelle cui vicinanze si erano spinti nel corso del loro viaggio, saltò fuori di nuovo solo per essere definitivamente scartata. Non poteva esservi, spiegarono Roy e Sylvia, alcuna interfaccia energetica naturale tra lo spazio normale e il non-spazio, nessuna opportunità di intrusione elettromagnetica. Quello era stato ampiamente dimostrato già molto tempo prima del lancio della prima astronave con equipaggio umano. Gli strumenti di ricerca di Hesper erano sì in grado di raccogliere delle informazioni di tipo non elettromagnetico dal continuum dello spazio normale, informazioni che potevano essere tradotte in dati comprensibili solo per quel continuum. Ma nessuna cosa materiale appartenente allo spazio normale poteva penetrare nel non-spazio. Il tunnel di non-spazio era un muro impermeabile che li separava dal continuum dei fenomeni fisici. In un certo senso, si trovavano fuori dall’universo e teoricamente potevano anche passare attraverso il nucleo di una stella nel corso del loro viaggio senza subire alcun tipo di conseguenza. Nulla che avesse una massa o una carica poteva superare la barriera tra l’universo dei fenomeni fisici e il bozzolo di nulla che i meccanismi dell’astronave tessevano attorno a loro: neppure un fotone, neanche un inafferrabile neutrino.
Tuttavia sembrava proprio che qualcosa vi riuscisse, creando tra l’altro dei notevoli problemi. Molte speculazioni eccitarono i componenti dell’equipaggio. La sola cosa che sembrava poter attraversare la barriera, osservò Roy, era il pensiero, Il pensiero era forse l’unica forma di energia intangibile, non misurabile e senza limiti. Il facile e istantaneo contatto tra Noelle e Yvonne, durato purtroppo solo cinque mesi, lo dimostrava oltre ogni dubbio.
— Perché non supporre — cominciò Roy, e subito parve chiaro dal suo tono esitante che stava per lanciare una folle ipotesi, una sorta di peloso gedankenexperiment - che l’interferenza tra Noelle e Yvonne sia causata da creature dotate di forti poteri telepatici che vivono nello spazio tra le stelle?
— Creature che vivono tra le stelle? — ripeté Paco tra il divertito e il meravigliato. Chiaramente, pensava che Roy si fosse lanciato in qualcosa di folle, ma nutriva troppo rispetto per il grande intelletto del matematico e quindi decise di ascoltarlo sino alla fine prima di lanciarsi nelle sue solite battute.
— Sì, tra le stelle — continuò Roy. — O dentro le stelle, oppure attorno alle stelle. Chi può dirlo? Supponiamo che ognuna di queste creature sia in grado di emettere impulsi telepatici proprio come Noelle, solo che i loro impulsi sono infinitamente più potenti. Queste trasmissioni si irradiano verso l’esterno e, vista la loro potenza, sembra logico che coprano un’area sferica con diametro pari a molti anni-luce. Ora, a mano a mano che la Wotan procede, entra ed esce da queste zone sferiche, a questo punto basterebbe che le emanazioni abbiano il potere di superare la barriera del non-spazio, proprio come gli impulsi di Noelle e Yvonne, ed ecco spiegate le interferenze, a volte più forti, altre più deboli, a seconda della distanza dal punto di emissione.
Paco era pronto ormai a subissare Roy di possibili obiezioni, ma Heinz fu più rapido di lui e cominciò a parlare estendendo l’ipotesi di Roy in un’altra area del possibile,
— E se queste creature ipotizzate da Roy non vivessero tra le stelle, ma nel non-spazio stesso? Vivono proprio qui nel nostro tunnel, diciamo, e noi, avanzando, entriamo e usciamo dai loro domini.
— Il tunnel di non-spazio dev’essere totalmente privo di materia — osservò acidamente Sieglinde — con la sola eccezione dell’astronave che vi si muove all’interno. Altrimenti un corpo che si muove a velocità maggiore della luce, come noi, potrebbe generare delle risonanze distruttive, poiché in termini fisici convenzionali la nostra massa è infinita, e un corpo con massa infinita non lascia spazio per nient’altro in quell’universo.
— In effetti è vero — rispose Heinz, imperturbabile come sempre. — Naturalmente se parliamo di creature materiali. Ma io non ricordo di averlo fatto. Ciò che ho in mente sono delle creature incorporee grandi come degli asteroidi, o forse come dei pianeti, ma del tutto prive di massa e di materia, composte solo di pensiero. Grandi convergenze di pura energia mentale che si muovono liberamente nel piano del non-spazio. Può trattarsi di creature native del non-spazio. In ogni caso, non sono composte da qualcosa che ricordi anche solo lontanamente la materia. La loro natura ci è completamente sconosciuta e vivono nel piano dell’esistenza che noi chiamiamo non-spazio, come gli angeli degli antichi dipinti vivevano in paradiso.
— “Angeli”! — esclamò Paco sul punto di scoppiare a ridere.
— Angeli! Sì! — urlò invece Elizabeth come se fosse ispirata, battendo forte le mani in una sorta di rapimento fantastico.
— Naturalmente è solo una metafora — si affrettò a chiarire Heinz, lanciando un’occhiata vagamente preoccupata verso Elizabeth. — Tuttavia, supponiamo che esistano, qualunque cosa siano, e che siano creature gigantesche e totalmente aliene. Il ponte telepatico tra Noelle e Yvonne viene disturbato, o interrotto, quando passiamo dentro di loro, oppure quando ci inoltriamo nella loro sfera di trasmissione biopsichica.
— Trasmissione biopsichica! — ripeté Paco, ironizzando.
— Sì, trasmissione biopsichica. Questa causa un’interferenza accidentale… Ma forse è deliberata, forse assorbono coscientemente gli impulsi mentali delle due gemelle, magari per studiarci, oppure per nutrirsene…
— Ora in un canto, ora in una fiamma senza forma, spesso gli angeli ci influenzano, venerati siano! — recitò Elizabeth.
— Cosa? — fece Huw, sorpreso come sempre dalle sue uscite.
— Sta di nuovo recitando — gli spiegò Heinz. — Shakespeare, immagino.
— John Donne, mio caro — corresse Elizabeth. — Ma perché credete sempre che sia Shakespeare?
— Shakespeare è l’unico poeta di cui Heinz abbia sentito parlare.
— Udite o angeli, figli della luce — riprese Elizabeth. — Troni, Dominazioni, Principati, Virtù e Poteri, udite il mio decreto, che irrevocato rimarrà.
— Ora, “questo” sì che è Shakespeare! — disse Heinz.
— Milton — svelò Elizabeth con amabile sorriso. Heinz rispose facendo spallucce. — Shakespeare scrive: “Angeli e ministri di clemenza, difendeteci!”. Oppure: “Buona notte, o mio principe, e che schiere di angeli cantino il tuo riposo!”.
Elizabeth possedeva un repertorio inesauribile. Era in grado di andare avanti così per ore, recitando ora un verso, ora l’altro di tutti gli antichi poemi che parlavano di angeli; e certamente aveva intenzione di farlo, ma l’uscita inaspettatamente poetica di Heinz aveva eccitato la fantasia di tutti i presenti, e nessuno ascoltava più la recita di Elizabeth perché tutti erano ansiosi di contribuire in proprio. Paco, naturalmente, voleva seppellire l’intera idea sotto una montagna di osservazioni ironiche, mentre lo stolido Huw aveva qualche difficoltà ad afferrare il concetto di esseri incorporei: neppure a parlarne di afferrare l’idea di angeli. Heinz, da parte sua, continuava a ripetere che si trattava semplicemente di un paragone figurato, non certo di un’ipotesi seria. Ciononostante, tutti trovarono l’idea estremamente eccitante, anche se poco plausibile, e i pochi che nutrivano delle serie riserve sull’intero concetto vennero sommersi dal generale entusiasmo e non riuscirono a parlare. In ogni caso, a detta di tutti, il termine “angeli” calzava a pennello alle creature appena ipotizzate da Heinz o a qualsiasi tipo di creatura in grado di interrompere il contatto tra Noelle e Yvonne.
Quasi tutti furono affascinati dall’idea e vollero guarnire l’ipotesi con spunti individuali, speculando sulla natura benefica o maligna dei cosiddetti angeli, sulla loro mortalità o immortalità, sul grado della loro intelligenza e così via. A un certo punto, Giovanna suggerì che potevano essere loro i responsabili dei sinistri effetti che lei stessa, Huw e Marcus avevano provato sul pianeta A. Perché no? Forse la diffusione della specie umana nel cosmo disturbava queste creature, che quindi avevano deciso di adottare delle misure per impedirla. Ma Huw, pratico come sempre, replicò che prima di lanciarsi in ipotesi del genere conveniva attendere e vedere se gli stessi disturbi si verificavano anche sul pianeta B.
Dove vivessero queste creature dello spazio fu anche oggetto di serrate discussioni, ma nessuno giunse a una conclusione soddisfacente. Alla fine, tutti furono d’accordo nel sottolineare la scarsa importanza della questione: che vivessero nel non-spazio, come suggerito da Heinz, o in qualche settore del cosmo come propugnato da Roy, l’effetto su di loro era identico. E il gruppo trovò un definitivo consenso sulla natura delle interferenze che bloccavano il contatto tra Noelle e Yvonne: si trattava quasi certamente di interferenze volontarie, originate da entità aliene nella cui sfera di influenza si trovava la Wotan. Il concetto, o meglio la sua generale accettazione, sollevò stupore e preoccupazione in tutti loro, anche in Huw, e persino nell’ironico e concreto Paco, per quanto si sforzasse di negarlo.
Il comandante, assente durante la prima parte della discussione, entrò in quel momento nella sala comune e rimase immobile e perplesso sulla soglia, mentre attorno a lui fioccavano le discussioni su angeli e trasmissioni biopsichiche.
— Angeli? — chiese tranquillamente dopo un po’. — E dove?
Gli altri cercarono di spiegare, parlando due o tre alla volta. Solo Heinz osservava tutti in silenzio, con aria sufficiente e braccia conserte. Aveva superato l’iniziale irritazione verso l’eccitazione causata dalla sua metafora, e ora gradiva molto l’idea di aver acceso nei suoi compagni l’interesse verso una questione così eterea. Lo scaltro, materialista Heinz che postulava l’esistenza di angeli nel condotto di non-spazio! Non parlava davvero sul serio, almeno riguardo l’esistenza degli angeli; così parve al comandante. Ma per quanto assurda potesse sembrare, la sua teoria meritava di esser presa sul serio almeno in parte? Il comandante, una volta udite le varie ipotesi e compreso a grandi linee ciò che gli altri cercavano di spiegargli, sembrò pensare di sì. — Angeli — ripeté con aria seria e pensierosa. — Perché rifiutare l’idea a priori? Si tratta di una definizione buona come qualunque altra, che merita senza dubbio un approfondimento.
Tutti, ma proprio tutti, si voltarono verso di lui, guardandolo fisso. Fra l’equipaggio si era fatto un gran parlare, in passato, dei suoi trascorsi monastici, persino mistici. Quel periodo trascorso tra i monaci zen nel loro tempio del circolo polare artico, quello strano intervallo della sua vita tra il periodo di esplorazioni sulle lune di Giove e di Saturno e il suo arruolamento sulla Wotan; non aveva mai parlato con nessuno a bordo di quel periodo, e d’altro canto sarebbe stato difficile per loro, scienziati e ingegneri, comprendere come mai aveva abbandonato una carriera scientifica più che promettente per ritirarsi in un luogo totalmente fuori dal mondo, un monastero zen. Ora il mistero rappresentato dalla vita del comandante tornava prepotentemente nelle loro menti, e tutti ricordarono che prima di essere scienziato e monaco era stato attore… e prima ancora? Ma tutti concordavano su un fatto: era l’unico a bordo in grado di fare il comandante, una persona seria, uno che spaziava con la mente in mille direzioni diverse… a differenza di Paco, per esempio, o di Heinz, o di Sieglinde. Se lui, il vero filosofo del gruppo, pensava che l’ipotesi degli angeli andava approfondita, allora poteva esservi davvero sotto qualcosa di serio.
Che fare a quel punto? Se davvero si trovavano davanti a delle creature aliene di natura e potenza straordinaria, dovevano cercare di contattarle in qualche modo? E come?
Innelda suggerì di usare gli strumenti di Hesper per cercare di determinare la loro posizione. Roy propose una campagna di ricerca totale tramite sistemi radio convenzionali, una ricerca che secondo lui doveva cominciare da quando fossero emersi dal condotto di non-spazio per esplorare il pianeta B. Huw, che cercava sportivamente di entrare nello spirito di una discussione poco congegnale al suo spirito pragmatico, avanzò l’idea di trasmettere dei messaggi radio a intervalli regolari anche nel non-spazio, poiché se questi angeli si trovavano là dentro con loro dovevano avere quasi certamente la capacità di intercettare anche le onde radio, non solo quelle telepatiche.
E fu a quel punto che Heinz parlò di nuovo, lanciando finalmente l’idea giusta. — A parer mio, c’è un’altra cosa che potremmo tentare. Senza preoccuparci di dove vivono, si direbbe che le loro onde energetiche, la manifestazione dei loro pensieri, possa penetrare come noi nel tunnel di non-spazio. Infatti, il ponte telepatico tra Noelle e Yvonne subisce pesantemente la loro interferenza. Bene. Perché non proviamo a raggiungerli nello stesso modo, con trasmissioni mentali? Noelle può tentare di contattarli direttamente. Potrebbe chiedere loro chi sono, dove vivono, perché hanno interrotto il nostro contatto con la Terra.
— Giusto! — esclamò qualcuno. Era Elliot, a cui fece eco Maria, e poi Jean-Claude. — Ma certo! Noelle è l’unica che può riuscirvi. Noelle! Noelle!
Tutti guardarono Noelle.
Lei arrossì violentemente e parve addirittura spaventata, ma un attimo più tardi recuperò il suo piacevole, imperturbabile distacco. Sorridendo, disse piano: — Non ho mai cercato prima d’ora di parlare con gli angeli, lo sapete bene. Se è questo che sono. Ma se davvero volete che provi…
— Sì — disse immediatamente il comandante, ma lo disse con il tono di voce che usava generalmente per un no. — Sì, dicevo, l’idea va considerata. Ma adesso non è il momento giusto. Stiamo per arrivare nel settore dove si trova il sistema solare del pianeta B, e quindi, per prima cosa, ci dedicheremo a esplorarlo. Poi, eventualmente, cercheremo di metterci in contatto con gli angeli.