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Quella decisione pose fine, almeno sul momento, all’eccitazione provocata dalla teoria di Heinz sugli angeli. La teoria era di Heinz e Roy, a dire il vero, anche se il ruolo cruciale di Roy nel proporla era stato presto oscurato nella coscienza generale dalla prontezza di Heinz nel trarne una brillante metafora. Nessuno a bordo era religioso nel senso antico del termine, ma i lunghi mesi di isolamento sull’astronave avevano generato una vena irrazionale nella mente di alcuni e una vena di annoiata leggerezza nella mente di altri. Di fatto, “angeli” era il termine con cui tutti ormai definivano le ipotetiche creature aliene che impedivano il contatto con la Terra. Persino gli scettici più convinti, come Paco e Huw, usavano quel termine in mancanza di uno migliore.

In ogni caso, non vi sarebbe stato alcun tentativo immediato da parte di Noelle di contattare telepaticamente le supposte incorporee creature di origini extraterrestri che presumibilmente si aggiravano nelle loro vicinanze del non-spazio o dello spazio reale. Come fece notare il comandante, l’arrivo ormai prossimo della Wotan nel settore del pianeta B rappresentava un evento più importante, almeno in quel momento.

Il comandante si chiese che cosa avrebbe detto il suo maestro zen del veto da lui posto su qualsiasi tentativo di contattare gli angeli in quel periodo. Immaginava la disapprovazione del suo maestro ogniqualvolta agiva in modo apertamente manipolativo o egoista: bene, in quel caso aveva agito sia in modo manipolativo che in modo egoista, anche se sperava di essere l’unico a bordo ad averlo compreso con chiarezza.

Le sue motivazioni per rimandare l’accertamento della verità sull’esistenza o meno dei cosiddetti angeli erano più che legittime: l’arrivo nei pressi del pianeta B costituiva un’ottima ragione per non disperdere le loro energie. Ma dietro di esse si nascondeva tutt’altro motivo: la paura, la preoccupazione per il membro più delicato dell’equipaggio. A differenza degli altri, lui aveva notato il timore sul volto di Noelle, aveva avvertito il flebile tremolio della sua voce. Supponendo che queste creature esistessero sul serio e che lei riuscisse in qualche modo a contattarle, come facevano a sapere che non rappresentassero in qualche modo un pericolo per Noelle? Il comandante rivisse nella propria mente gli antichi miti greci delle donne che avevano voluto unirsi a questo o quel dio solo per essere incenerite dalla loro potenza. Prima di lanciarsi in una simile avventura, dovevano considerare attentamente i possibili risvolti dell’unione mentale tra Noelle e una di quelle presunte creature dello spazio.

Quindi, il desiderio di proteggere Noelle costituiva la vera ragione della sua insistenza nel rimandare il progetto. E, dato che per qualche oscuro motivo si sentiva riluttante a svelare agli altri le sue paure, aveva scelto di nasconderle dietro una ragione plausibile ma pur sempre secondaria. Quello, si disse, era un atto puramente manipolativo.

L’egoismo, invece, si nascondeva ancora più sotto. Che cosa sarebbe accaduto se Noelle avesse provato a contattare quelle creature e vi fosse riuscita, convincendole a riaprire il canale di comunicazione con la Terra? Che ne sarebbe stato dell’accordo faticosamente raggiunto che gli consentiva di partecipare alle esplorazioni planetarie in cambio della permanenza al suo posto di comandante? Probabilmente, molti dei membri dell’equipaggio avevano votato a favore di una modifica del regolamento solo perché erano genuinamente convinti dell’impossibilità di ripristinare il ponte telepatico con la Terra e, di conseguenza, non si sentivano più in dovere di rispettare gli articoli meno convenienti del regolamento. Ma se il contatto fosse stato ripristinato…

Pertanto, gli “angeli” andavano momentaneamente dimenticati per tre buone ragioni: una più che appropriata, l’altra puramente di riguardo e l’ultima semplicemente egoistica.

Ecco dunque che il comandante giunse da solo alla risposta: il suo maestro zen avrebbe tralasciato le prime due ragioni, concentrandosi sulla terza e chiedendogli se, in assenza di quella, le prime due avrebbero acquisito tanta forza nella sua mente. E lui non avrebbe saputo rispondere. Perché non esistevano delle risposte valide per le domande del suo maestro. Lui non condannava mai: lasciava a te stesso la facoltà di condannarti o di assolverti. Anche se non si lasciava certo prendere in giro.

Solo nella sua cabina, il comandante chiuse gli occhi, e la formidabile figura del suo maestro gli comparve vivida in mente: era un uomo piccolo e solido, pelle e ossa ma forte oltre ogni limite, senza età, infaticabile. Probabilmente aveva quasi cent’anni, ma nessuno si sarebbe stupito nello scoprire che aveva due o tre volte quell’età o anche se fosse venuto al mondo nei giorni più lontani del Pleistocene. Sembrava indistruttibile. E aveva un volto indimenticabile: fronte ampia, capelli neri folti e ondulati, occhi scuri e penetranti, naso fermo e prominente, bocca quasi priva di labbra. Nessuno conosceva il suo vero nome. Era semplicemente il Maestro. Era stato lui a fondare il monastero? Di nuovo, nessuno lo sapeva. Coloro che vi vivevano non indulgevano in ricerche storiche. Vi vivevano e basta, loro con il Maestro. Al di là di quello, il resto aveva ben poca importanza.

Il comandante lo rispettava oltre ogni limite. Poco prima dell’alba, quando si alzava e si recava sulla spiaggia gelida per il primo dei rituali della disciplina giornaliera, vi trovava sempre il Maestro, già inginocchiato sul bagnasciuga e con le mani unite immerse nell’acqua. Non lo faceva per mortificare la carne, e neppure per commettere un peccato di orgoglio, dimostrando quanta sofferenza riusciva a infliggere a se stesso, ma piuttosto per mettere a fuoco la sua concentrazione, per schiarirsi la mente prima delle incombenze giornaliere. Tutti gli esercizi di Lofoten erano così. Andavano eseguiti per cercare l’elevazione spirituale, non per convincere se stessi o gli altri della propria santità. Lì non si parlava mai di santità: il monastero, in quell’epoca di realizzazioni materiali, seguiva un orientamento marcatamente secolare.

Il comandante rivisse per un attimo i giorni di Lofoten. La frastagliata catena di nude isole rocciose si ergeva come la colonna vertebrale di un immenso dinosauro sommerso nel mare norvegese, di fronte alla tormentata costa di nordovest. Un panorama brullo, battuto tutto l’anno dal vento. Lo scuro, tempestoso Vestfjord li separava dalla terraferma, mentre sullo sfondo si innalzavano i gelidi picchi innevati della catena montuosa centrale, un muro di granito corrugato. Gli sparsi prati erbosi; gli umidi cespugli di mirtillo; l’ampio e minaccioso orizzonte atlantico che curvava verso ovest. Quelle, una volta, erano isole di pescatori, ma i grandi banchi di merluzzi argentei si erano estinti da lungo tempo, e così la gente aveva abbandonato i piccoli villaggi della costa un tempo ricchi di atmosfera e tradizioni. La maggior parte delle isole era deserta ormai, tranne quella su cui sorgeva il monastero, un’ordinata linea di edifici in pietra a poche centinaia di metri dal mare.

La Corrente del Golfo bagnava quelle isole in pieno; il clima era rigido, ma non tanto come ci si poteva aspettare, vista la loro posizione. Dopo Ganimede, Io, Callisto e Titano, le isole di Lofoten sembravano un paradiso. Niente cespugli di mirtillo su Ganimede. Niente prati erbosi. Immergere le mani nude nei mari d’idrocarburi di Titano non portava benefici spirituali, ma solo una morte rapida. E, proprio dopo la sua ultima escursione sulla luna di Saturno, si era ritirato nel monastero, lasciando a Huw la gloria delle loro scoperte. Ritornando da Saturno, aveva sentito il bisogno di… di fuggire la società dei suoi simili. Era davvero così? No, non proprio. Non fuggire, ma piuttosto ritrarsene, vivere in qualche luogo tranquillo dove poter riflettere su ciò che aveva visto e appreso, sull’esistenza di forme di vita elementari in luoghi come Titano e Io, sull’ostinazione della vita davanti alle condizioni più ostili. Cosa significava quell’ostinazione? Che tipo di meccanismo era l’universo e che forze lo facevano muovere? Non che si aspettasse davvero delle risposte a quelle domande, ma non era del tutto sicuro che fossero quelle le domande di cui cercava le risposte. Semplicemente voleva porre ancora e ancora le stesse domande e provare a scoprire qualche collegamento tra loro, anche il più tenue. Lofoten era là ed era disponibile; Lofoten divenne quindi irresistibile. E quindi fu a Lofoten che andò: anche lui era scandinavo, e quindi conosceva quel luogo praticamente da sempre. Andare là era come tornare a casa, solo una casa leggermente diversa. Restò a Lofoten, recandosi ogni mattina all’alba sulla spiaggia fredda e ventosa per bagnarsi le mani nell’oceano artico sino a farle gonfiare dal freddo; e, alla fine, udì nuovamente il richiamo dell’avventura, rappresentata dal viaggio stellare, e comprese che doveva partire.

Il Maestro sapeva della sua decisione ancora prima che lui la prendesse. — Vengo a chiederle il permesso di partire — chiese lui finalmente.

Il Maestro gli rivolse un sorriso freddo e remoto come la luce della più lontana delle galassie e rispose: — Lo so. Per te è giunto il momento di portare l’uomo tra le stelle, non è forse così?


Huw disse:

— Bene. Adesso andremo giù a dare un’occhiata, vero? — E poi ripeté, visto che il comandante continuava a guardarlo in silenzio: — Vero?

La Wotan aveva abbandonato il non-spazio, di nuovo senza il minimo problema. Julia aveva eseguito le appropriate correzioni di rotta, e l’astronave era entrata in orbita a un paio di milioni di chilometri dalla superficie del secondo pianeta di quel sistema senza nome, scaldato da una stella di tipo K. Per tre giorni avevano studiato le caratteristiche di quel pianeta con gli strumenti di bordo. Huw e il comandante stavano esaminando proprio in quel momento un grande globo bianco e grigio che occupava il centro dello schermo. Una coltre di fitte nubi sagomata come un pianeta, con un pianeta che vi si nascondeva sotto.

Ma di che razza di pianeta poteva mai trattarsi?

— Dobbiamo scendere e dare un’occhiata di persona. Che ne dice? — chiese Huw, con tono vagamente disperato. Il comandante attraversava uno dei suoi periodi bui, in quei giorni, e i suoi pensieri erano celati come la superficie del pianeta che compariva sullo schermo.

Ancora una volta le conclusioni di Hesper si dimostrarono incredibilmente precise. Il pianeta B aveva una gravità più o meno simile a quella terrestre, pur con un diametro leggermente maggiore, e l’atmosfera era composta al ventidue per cento di ossigeno, al settanta per cento di idrogeno, al quattro virgola cinque per cento di vapore acqueo, che era molto anche se non insopportabile, e all’uno virgola settantacinque per cento di anidride carbonica. Il resto era composto di metano e vari gas inerti. Questo suggeriva un clima tropicale umido, e in effetti le rilevazioni confermarono che la temperatura media variava al massimo di un paio di gradi da polo a polo. Il pianeta risultava uniformemente caldo, quarantacinque afosi gradi Celsius praticamente ovunque. Un’unica giungla planetaria, miriadi di piante che producevano anidride carbonica a ciclo continuo e che coprivano probabilmente ogni metro quadro di terreno utile. Insomma, il caro vecchio Mesozoico li attendeva probabilmente là sotto.

Non c’era alcuna prova visiva di centri abitati di qualsiasi genere. Nessuna emissione elettromagnetica in nessun punto dello spettro, dai raggi gamma alle più lunghe onde radio. A casa non c’era nessuno, almeno in apparenza. Niente oceani, però, niente laghi e niente fiumi. Un’unica massa solida da polo a polo. Una vera stranezza, vista l’elevata percentuale di vapore acqueo presente nell’atmosfera. Tutta quell’acqua doveva pur condensarsi e precipitare di quando in quando, giusto? Anzi, visto il clima, probabilmente su quel pianeta non faceva altro che piovere. Dove andava a finire quell’enorme quantità d’acqua? Possibile che si limitasse a evaporare per tornare di nuovo nello strato di nubi? Oppure si raccoglieva da qualche parte sotto la superficie?

La sonda sonar rivelò qualcosa di ancora più strano. Quel pianeta era un’unica palla di roccia, praticamente priva di metalli pesanti, e probabilmente di qualsiasi tipo di metallo. La maggior parte era semplice basalto. La sonda indicò anche che la superficie era coperta da un enorme strato di una materia relativamente morbida che avvolgeva l’“intera” superficie, senza una singola apertura in nessun luogo. Materia vegetale, evidentemente. Una giungla planetaria. Bene, dopotutto ciò risultava coerente con i dati raccolti fino a quel momento sul clima e sulla composizione atmosferica. Ma successive rilevazioni mostrarono che quello strato di materia vegetale era spesso due, trecento chilometri. La montagna più alta della Terra misurava meno di nove chilometri! L’idea che quel pianeta fosse coperto da una giungla che affondava le radici a una profondità pari a venti, trenta volte il monte Everest era dura da accettare.

La maggior parte dell’equipaggio della Wotan si stava ancora cullando nel calore delle illusioni collettive sull’abitabilità del pianeta B, illusioni di cui l’equipaggio si era nutrito durante tutto il viaggio attraverso il non-spazio dal sistema solare del pianeta A. Quasi tutti erano convinti di essere in viaggio verso una sorta di paradiso terrestre, un mondo grande e vergine che attendeva solo di essere colonizzato. Quelle illusioni sarebbero senz’altro rimaste fino a quando qualcuno non avesse dimostrato loro il contrario. E, quindi, i pochi che avevano un accesso diretto ai dati delle rilevazioni, e che cominciavano a capire che le cose non sarebbero state così facili, divennero stranamente reticenti, in attesa di scoprire come avrebbero reagito i loro compagni.

Finalmente, il comandante disse a Huw: — Lei crede che quel dannato pianeta sia in qualche modo colonizzabile?

— Come posso saperlo senza aver prima dato un’occhiata?

— Ah, posso già dirlo da qui. Io lo so. Lei lo sa, Huw.

Huw ammise con un cenno le ragioni del comandante. — Sì, è un pianeta molto insolito, devo ammetterlo.

— È dannatamente caldo. Niente metalli, niente mari, laghi o fiumi, solo qualche sorta di giungla impenetrabile che lo ricopre per intero.

— Abbiamo viaggiato a lungo per arrivare qui. Vogliamo andarcene così, senza aver dato neppure un’occhiata? Potremmo mandare giù almeno una sonda — fece Huw.

Di nuovo, il comandante cadde in un impenetrabile silenzio.

Huw riprese: — Per la verità non pensavo esattamente a una sonda. Dobbiamo mandar giù qualcuno e controllare la teoria di Giovanna sugli angeli.

— Che teoria?

— Non ricorda? Che gli angeli non gradiscano la nostra espansione nello spazio, e che per dimostrarcelo abbiano creato quelle strane radiazioni psichiche sul pianeta A per poi interrompere completamente il contatto tra Noelle e Yvonne.

Ma sull’argomento angeli il comandante sembrava trincerato dietro un riserbo impenetrabile. — Huw, l’esistenza dei cosiddetti angeli è solo un’ipotesi improbabile, non una certezza.

— Questo è vero, ma inviando un paio di persone sul pianeta B riusciremmo perlomeno a sapere se sarà mai possibile per noi stabilirci su qualche pianeta, senza prima dover affrontare la collera di queste misteriose creature. Se esistono, naturalmente. Sto dicendo che qualcuno di noi dovrebbe scendere là sotto e vedere se si verificano gli stessi strani fenomeni che abbiamo incontrato sul pianeta A.

— Già. Sapevo che avrebbe detto questo, Huw.

— Dobbiamo scendere e provare, non è d’accordo?

Il comandante chiuse gli occhi per un attimo. — E chi proporrebbe per questa missione?

— Lei, naturalmente. Adesso ha acquisito il diritto legale di esplorare nuovi pianeti. E, tuttavia, non mi sembra entusiasta di farlo. Confesso, amico mio, che ancora una volta non la capisco. Dovrebbe fremere dalla voglia di andare, e invece…

— Voglio andare, certo, sempre ammettendo che ne valga la pena. Ma quel pianeta non ci serve, Huw. Non pensa che cercare di esplorarlo sia, come minimo, una perdita di tempo? Comunque, chi altri proporrebbe per la missione?

— Me stesso.

— Logico. Qualcun altro?

— No, nessuno.

— Noi due? Io e lei e basta?

— Esattamente.

— Non era lei a insistere per una squadra di tre persone sul pianeta A? — chiese il comandante.

— Certo, ma sul pianeta A. Se ben ricordo, noi due siamo stati più che sufficienti su Titano, su Ganimede e su Callisto — replicò Huw. — Sono convinto che riusciremo a cavarcela da soli anche in questo caso, e senza problemi. Perché mettere a repentaglio la vita di qualcun altro? Mi ascolti, comandante: domani mandiamo giù una sonda e preleviamo dei campioni. Dopodiché, io e lei scenderemo per vedere se ci accade la stessa cosa che è accaduta a me, Giovanna e Marcus sul pianeta A. Se le cose vanno come devono andare, bene. Non potremo colonizzare quel pianeta, ma possiamo tentare da qualche altra parte. Se invece quello strano fenomeno si ripete vuol dire che siamo circondati da misteriose creature, angeli o demoni che siano, e che dovremo cercare una soluzione diversa. Che ne dice comandante, signore, vecchio mio?

— Dico che ci devo pensare, Huw — fu la secca replica del comandante.


In verità, il comandante voleva scendere sul pianeta B con tutte le sue forze, ed era preda della passione fin da prima che l’astronave emergesse dal non-spazio. Se cercava di contrastare i propri impulsi era solo perché ne temeva l’egoismo e sentiva di esser stato abbastanza egoista in quegli ultimi tempi.

Chiaramente, quel pianeta non poteva essere colonizzato. Il comandante ne era più che certo, anche se la maggior parte dei suoi compagni di viaggio non ne sapeva ancora nulla. C’era qualche remota possibilità di renderlo adatto perché degli uomini ci abitassero, sì, ma il comandante era sicuro anche senza dati di prima mano raccolti sul posto che laggiù la vita sarebbe stata tremendamente difficile, scomoda, impegnativa. Un certo grado di difficoltà poteva essere uno stimolo prezioso allo sviluppo di una società, realizzò, ma c’era un punto oltre il quale lo spirito umano avrebbe ceduto sotto uno sforzo troppo pesante. Quello era quanto sarebbe accaduto laggiù con tutta probabilità, concluse. Meglio dunque cancellare quel mondo senza altri fastidi, e partire alla ricerca di qualche altro pianeta meno ostile.

E tuttavia…

Un pianeta, un pianeta unico e sconosciuto alla sua portata, un pianeta che senza dubbio aveva dato vita a qualche tipo di forma vivente completamente al di fuori dell’esperienza umana.

Lo voleva. Non poteva negarsi quel diritto, accidenti, non dopo la battaglia combattuta per guadagnarsi l’accesso alle missioni esplorative. Alla fine permise all’uso che Huw aveva fatto della variante sulla teoria degli angeli enunciata da Giovanna di influenzare la sua decisione. Avevano bisogno di scoprire se qualche onnipotente forza esterna aveva deciso di impedire loro l’accesso ai mondi dello spazio, e atterrare sul pianeta B poteva gettare un po’ di luce sul problema. Sarebbe servito, comunque. Dimostrare in modo definitivo che si trattava di sciocche superstizioni avrebbe compensato la delusione dell’equipaggio per la notizia dell’inabitabilità del pianeta B. Pertanto autorizzò l’invio di una sonda automatizzata per raccogliere informazioni dettagliate sulle condizioni ambientali là sotto, e fece sapere che una successiva spedizione umana era in fase avanzata di preparazione, se i dati raccolti dalla sonda l’avessero consigliata. Huw, che azionava la sonda a distanza, la mise in orbita a soli mille chilometri dai limiti della fradicia atmosfera, scandagliando agli infrarossi la porzione di superficie direttamente sottostante per capire cosa nascondesse lo spesso strato di nuvole. Le telecamere agli infrarossi erano studiate per penetrare una nebbia decisamente più fitta di quelle nubi, ma tutto ciò che riuscirono a fare fu presentare loro dei nuovi misteri.

— Guardi qui — disse Huw al comandante. — La superficie appare coperta di linee di calore. È come un gigantesco rotolo di spago, quel pianeta. Sembra avvolto da miliardi di cavi di gomma.

— Rampicanti — rispose il comandante. — Almeno, credo.

— Un pianeta completamente coperto di rampicanti? Rampicanti spessi duecento chilometri?

— Dovremmo dare un’occhiata da vicino — propose il comandante.

— Già fatto — replicò Huw, ingrandendo l’immagine di un paio di livelli e inserendo un filtro ultravioletto. — Adesso stiamo guardando proprio sotto la superficie. Le vede anche lei le linee scure che tagliano in verticale le linee rosse soprastanti?

— Gallerie! — esclamò il comandante.

— Già, gallerie. — Huw indicò le registrazioni agli infrarossi. — Li vede questi piccoli oggetti che si muovono dentro le gallerie?

Il comandante osservò attonito la superficie blu e verde dello schermo. Punti di luce calda e violacea, con il viola che indicava una temperatura diversa dalla temperatura degli altri elementi superficiali, avanzavano lentamente lungo le linee scure che rappresentavano le gallerie.

— Ma quanto saranno grandi? — chiese.

Huw si strinse nelle spalle. — Dai venti ai cinquanta metri. Oggetti abbastanza grandi, comunque. Molto grandi. Non credo che ci troviamo davanti a una civiltà aliena, ma sono convinto che là sotto vi sia qualcosa…

— Che richiede un esame approfondito.

— Assolutamente.

Huw sorrise. Il comandante no. Si capivano alla perfezione, a volte. Erano irresponsabili, più che temerari. Quel pianeta era inutile. Tuttavia, loro volevano ugualmente penetrarne i segreti: ci sarebbero riusciti, c’era da scommetterci. Dopotutto ne avevano il diritto. Le curiosità andavano soddisfatte. E chi poteva saperlo? Forse avrebbero chiarito alcune cose che andavano assolutamente chiarite prima che la spedizione muovesse verso la sua successiva destinazione.

E così tra l’equipaggio si diffuse la voce che l’invio di una squadra di esplorazione era desiderabile, senza spiegazioni sui motivi che la rendevano tale, e che per motivi di sicurezza sarebbe stata composta da due sole persone, le più esperte dal punto di vista dell’esplorazione planetaria: Huw e il comandante. Huw preparò la navetta con molta celerità, e se qualcuno a bordo dubitava dell’utilità di esporre due insostituibili membri dell’equipaggio ai rischi di uno sbarco, si tenne l’obiezione per sé.

Huw ammiccò platealmente e alzò il pollice, mentre lui e il comandante si assicuravano alle poltrone antiaccelerazione. Da molto tempo, ormai, i due non partivano insieme per una missione esplorativa.

— Bene, vecchio mio, siamo pronti?

— Direi proprio di sì. È lei il comandante a bordo di questa navetta, quindi è lei a prendere le decisioni.

— Giusto — replicò Huw, ponendo la piccola navetta sotto il controllo del sistema di guida della Wotan. Un attimo più tardi la navetta si alzò e abbandonò dolcemente il ponte di decollo dell’astronave. Quando si trovarono a distanza di sicurezza dall’astronave, il computer accese i motori e la navetta iniziò la sua rapida discesa.

La grande massa sgraziata della Wotan, irta di braccia e antenne al punto da assomigliare a un improbabile ragno, rimpicciolì velocemente dietro di loro, mentre la superficie di nubi del pianeta B prese a espandersi con impressionante rapidità.

In pochi attimi si ritrovarono dentro lo strato di nubi. La sonda aveva determinato che si trattava delle care, vecchie nubi di vapore acqueo, insolitamente dense ma assolutamente innocue: nulla di paragonabile alla micidiale miscela di acido solforico che schermava Venere dal sole. La navetta scese ancora e ancora, per trovarsi infine nella madre di tutte le piogge, un vero e proprio diluvio universale di straordinaria intensità. Gocce di enorme spessore, vagamente verdastre, precipitavano a ciclo continuo da quelle enormi, buie cateratte; gocce dense, viscose, fitte al punto da impedire la vista. Ecco dove si trovavano gli oceani di quel pianeta, si dissero i due. Erano in costante movimento attraverso l’atmosfera, precipitando a terra per poi immediatamente evaporare senza mai accumularsi al suolo.

— Accidenti, che razza di posto abbiamo scelto per tornare a lavorare insieme! — esclamò Huw, assumendo il controllo manuale della navetta e rallentando la discesa per cercare un posto decente dove atterrare.

Ormai si trovavano abbastanza vicini al suolo da constatare, anche se attraverso la pioggia battente, la correttezza delle loro ipotesi. L’intera superficie del pianeta, infatti, appariva coperta da un fittissimo intrico di rampicanti giganteschi e apparentemente infiniti, i cui viticci avevano un diametro di almeno dieci metri e forse più, viticci che parevano alberi orizzontali e che si estendevano in ogni direzione senza lasciare neppure un metro quadro di spazio aperto tra loro.

Il sonar mostrò i tunnel sotterranei già rilevati dall’astronave. Si trovavano immediatamente sotto lo strato superiore di vegetazione, a una profondità di circa quaranta metri e si estendevano sia in profondità sia in senso orizzontale; ma mentre la loro estensione orizzontale era indefinita, in senso verticale sembrava non misurassero più di un chilometro. Nuove rilevazioni mostrarono che sotto l’intrico di rampicanti si trovava un’enorme massa spugnosa, spessa centinaia di chilometri, in cui i rampicanti affondavano delle fitte radici. Si trattava probabilmente della sostanza madre, della sottostruttura vivente dell’intero gigantesco organismo: sembrava chiaro che il pianeta B era occupato da un’unica, immensa entità vegetale, costituita dalla massa spugnosa da cui tutto nasceva. Sotto, molto, molto più sotto, si trovava la vera e propria struttura del pianeta, la massa basaltica su cui poggiava la sostanza spugnosa.

Dove atterrare? Non vi erano spazi aperti, nessun altipiano, nessun rilievo.

A quel punto, Huw decise di usare un po’ di propellente per aprire uno varco sufficiente. Alzò il muso della navetta verso l’alto e, con i retrorazzi, bruciò completamente i viticci di un settore ristretto, creando una zona sgombra dove atterrare. I viticci adiacenti non diedero mostra di alcuna reazione. Nulla si contorse, nulla si mosse; nulla diede anche lontanamente l’indicazione che l’assalto di Huw a quel piccolo settore di flora planetaria avesse provocato qualche sorta di risentimento, per non parlare di possibili azioni difensive.

Finalmente, la navetta si posò delicatamente. Huw dovette attendere un po’ prima che la navetta smettesse di oscillare: la zona di atterraggio appena improvvisata era piuttosto accidentata.

— Diamo inizio alle prove — disse Huw al comandante, senza che ve ne fosse realmente bisogno.

I due eseguirono tutti i test extraveicolari previsti, controllando questo e quello, la percentuale di acidità della pioggia, la possibilità di tossine nell’atmosfera, e via di seguito. Non che intendessero esporsi direttamente agli effetti dell’atmosfera: inutile togliersi i caschi, su un pianeta alieno che non poteva certo soddisfare le esigenze dei colonizzatori umani. Ma avevano abbastanza esperienza per sapere che determinate reazioni chimiche tipiche di certi ambienti extraterrestri potevano sortire effetti spiacevoli anche per gli esploratori protetti da tute spaziali. Pertanto era opportuno prendere delle precauzioni.

La pioggia cadeva incessante. Miriadi di colpi sottili percuotevano ogni secondo l’esterno corazzato della navetta.

— A questo punto cominciavo già a sentirmi strano sul pianeta A — disse Huw. — Quella sensazione di terrore mordeva già prima che mettessi piede fuori dalla navetta.

— E adesso?

— Niente. E lei?

— Mi sento assolutamente a posto.

— Bene. Ma vediamo un po’ come va una volta usciti di qui.

L’uscita dalla navetta fu preceduta da una piccola commedia. Il comandante, dopo aver ripetuto che considerava Huw alla guida della spedizione, indicò con un cenno il portello, lasciando intendere che spettava a Huw porre per primo il piede su quel pianeta. Ma Huw, che aveva già posto piede su un pianeta extrasolare, si dichiarò più che felice di lasciare l’onore al comandante e mosse un passo indietro indicando a sua volta il portello. Naturalmente c’era la possibilità che il primo a uscire subisse gli inaspettati effetti di una sorpresa poco piacevole, ma entrambi gli uomini si affrettarono a chiarire che solo il rispetto nutrito per l’altro li muoveva, non certo il timore di sorprese. La cortesia, in quel caso, era la sola ragione.

— Insisto — disse infine il comandante con una vena di irritazione. — Scenda, Huw.

— Va bene. Se proprio insiste…

Huw oltrepassò il portello e scese con molta prudenza la scaletta per porre infine piede sulla superficie bruciacchiata e ancora leggermente sfrigolante della zona di atterraggio. Il terreno era vagamente elastico, e il piede vi affondava per qualche centimetro. Con sollievo, non avvertì alcun effetto psicologico particolare.

— Tutto bene, per ora — annunciò.

Il comandante lo raggiunse, e insieme si avviarono verso il margine della radura. Poi, dopo un attimo di esitazione, i due presero ad arrampicarsi su uno degli enormi viticci.

Era una cosa davvero poco invitante. Grosse foglie mezzo marce nere bluastre, senza gambo e butterate di grosse pustole piene d’aria, crescevano a intervalli irregolari direttamente dal tronco. Dai loro lati penzolavano dei filamenti carnosi rosso cupo, simili a viscere animali. Nei tratti lasciati libri dalle foglie, i viticci presentavano un tessuto sgradevolmente appiccicoso.

— Allora? — domandò Huw,

— Un po’ colloso, non trova?

— Voglio dire, come va con la sua mente?

— Funziona ancora alla perfezione, grazie. E la sua?

— A questo punto, sul pianeta A ero pronto a urlare. E in effetti urlavo, se ben ricordo. Ma le cose qui stanno andando in modo diverso. Bene, tanti saluti alla teoria di Giovanna. Meglio così.

— Che schifo di posto, vero? — commentò il comandante.

— Proprio ripugnante. È il primo in graduatoria, in questo senso. Vogliamo andare avanti ancora un po’, vecchio mio?

Sembrava di nuotare sott’acqua. In base ai loro calcoli era circa mezzogiorno, ora in cui una calda stella di media grandezza si trovava a picco proprio su di loro, a poche decine di milioni di chilometri di distanza, e tuttavia i due si muovevano in una luce fioca come quella del tramonto. Alzando gli occhi al cielo, videro un unico punto leggermente più luminoso nello spesso manto di nuvole che copriva tutto: là dietro si trovava il sole, nessun dubbio al riguardo. La pioggia battente in densi rovesci pareva lavar via anche le loro energie. Probabilmente su quel pianeta pioveva da milioni e milioni di anni: l’acqua colpiva le superfici rugose degli enormi viticci e scivolava senza mai fermarsi negli stretti spazi tra di essi. Una percentuale minima si infiltrava per centinaia di chilometri, fino ad accumularsi in sacche incredibilmente oscure prese tra la piatta superficie del nucleo roccioso e la parte inferiore dello strato spugnoso; ma la maggior parte cadeva a terra per evaporare istantaneamente e riformare il soffocante strato di nuvole. Infatti, tutt’intorno a loro grandi ammassi di vapore salivano caparbiamente verso il cielo, nonostante il continuo bombardamento verticale di quelle gocce enormi.

I viticci formavano una coltre davvero impenetrabile. A volte correvano affiancati per molti metri come enormi cavi elettrici; altri si sovrapponevano e si attorcigliavano soffocandosi a vicenda, fino a sparire sotto una coltre di nuovi viticci. Tra di essi non rimanevano trenta centimetri di spazio libero. Avevano una corteccia verde violacea, robusta di aspetto e tuttavia spugnosa, che cedeva un poco sotto i piedi dei due esploratori. Vi crescevano non solo foglie, ma anche strane masse fungoidi, disposte una vicina all’altra in gruppi estremamente sparsi, e un putridume viscido e grigiastro che doveva essere l’equivalente locale dei licheni. A mano a mano che si addentravano nell’intrico vegetale, divenne difficile evitare quel parassita, saprofita o simbiota, qualunque fosse la definizione più appropriata: la sua consistenza ricordava in qualche modo quella della panna ed era incredibilmente scivoloso. Tra le escrescenze di quella flora disgustosa spuntavano numerosi corpi ovoidali dal colore verde e l’aspetto liscio, posti tra le cortecce dei viticci a circa quattro, cinque metri uno dall’altro come una schiera di occhi spalancati: sembravano svolgere una funzione importante per i viticci. Forse si trattava di organi supplementari che contribuivano con le foglie al completamento del processo fotosintetico in quella torbida e umida atmosfera.

Tutto lì appariva marcio, decadente, in decomposizione: quel pianeta sarebbe stato una perfetta colonia penale, nel passato, quando si cercava di limitare il crimine efferato con punizioni altrettanto crudeli. Non sembrava servire ad altro, però.

— Che ne dice? — chiese Huw. — Abbiamo visto abbastanza?

Il comandante rispose indicando un punto proprio davanti a lui. Osservando attentamente, Huw vide una sorta di apertura circolare nella coltre di viticci, come l’apertura di una caverna. Era l’ingresso di uno dei tunnel rilevati con la strumentazione infrarossa, o almeno così sembrava. — Diamo un’occhiata da vicino? — disse il comandante.

— Ah. Mi sta dicendo che vuole andare là dentro, per caso?

— Già. Voglio vedere là dentro — fece il comandante in tono pacato.

— Be’, accidenti, perché no? — fu la replica davvero poco entusiasta di Huw. — Dopotutto siamo qui anche per questo.

Il comandante fece strada verso il tunnel, senza fermarsi a discutere su chi dovesse andare per primo. La galleria era bassa e ampia, larga forse una decina di metri, ma in alcuni punti poco più alta di loro. Scendeva dolcemente verso il basso attraverso la massa di viticci, tagliati quasi casualmente uno dopo l’altro. Le sue pareti, formate dalla sostanza che componeva i viticci, apparivano umide e rosa. Pareva di trovarsi in un gigantesco intestino. Una vaga luminescenza rischiarava la strada: proveniva dalle pareti, un debole, malsano chiarore che rompeva l’inquietante oscurità ma non risultava molto utile per illuminare eventuali ostacoli. Huw e il comandante accesero le lampade dei loro caschi e si addentrarono per qualche metro, poi per qualche metro ancora.

A un certo punto Huw disse: — Mi chiedo chi può aver scavato questo…

— Zitto! — esclamò il comandante, indicando nuovamente avanti a sé. — Guardi!

Avanzò ancora per una ventina di metri e illuminò tutto il tunnel con la lampada. Una barriera di qualche sorta bloccava la strada. Avvicinandosi, i due si accorsero che la barriera si muoveva lentamente in avanti: si trattava di una creatura impacciata, piatta e allungata, che non solo si muoveva come un verme lungo il tunnel, ma lo stava evidentemente creando, o perlomeno espandendo, divorando i tronchi dei viticci che le sbarravano la strada.

— Magnifico — mormorò Huw. — Pensa un po’, alla fine abbiamo trovato un vero e proprio extraterrestre. E di che bellezza si tratta!

Purtroppo non c’era modo di scoprire quanto fosse lungo il verme. La parte anteriore si perdeva nell’oscurità, molto avanti a loro. Tuttavia poterono constatare che il suo corpo era largo circa una decina di metri e alto al massimo due. Aveva carni traslucide, soffici di aspetto e di un rosa più intenso delle pareti del tunnel, quasi viola. Pori grandi quanto un pugno, neri e pelosi, si aprivano sui fianchi della creatura ogni cinquanta centimetri circa, continuando fin dove riuscivano a vedere. Da quegli orifizi usciva un rivolo continuo di bava biancastra, che scorreva lungo la curvatura del corpo per raccogliersi al suolo in grosse pozze. Una sorta di escremento, nessun dubbio in proposito. Il verme non era altro che una macchina organica nata per mangiare, priva di qualsiasi tipo di intelligenza, implacabile. Si apriva la strada masticando attraverso i viticci, e trasformava ciò che mangiava in un flusso continuo di bava.

E in effetti i due poterono udire il suono di mandibole venire dall’altro lato della creatura: un suono soffocato e un suono crudo tipico della masticazione, entrambi a cadenze estremamente regolari: una macchina organica nata per mangiare, proprio così.

I due uomini si avvicinarono lentamente, prestando attenzione a non calpestare i depositi di bava disseminati dal verme ai lati del tunnel. Una volta avvicinatisi tanto da risultare quasi imprudenti, divenne loro possibile percepire strane strutture tipo cisti vagamente luminescenti, sode e arrotondate e grandi quanto la testa di un uomo, distribuite con apparente casualità nelle carni della creatura a una profondità di trenta, quaranta centimetri. Quelle cisti erano facili da vedere a distanza ravvicinata perché emanavano una soffice luce giallastra, come un fuoco di braci dorate che bruciasse all’interno del verme, illuminandone le carni rosa trasparenti.

— Organi interni? — chiese Huw incuriosito. — Elementi del suo sistema nervoso?

— Non credo — replicò il comandante. — Credo invece che appartengano a quello.

E di nuovo indicò col dito un punto nell’oscurità, richiamando con urgenza l’attenzione di Huw, per poi orientare la lampada del casco davanti a loro a circa venti metri di distanza.

Un’altra creatura era apparsa nel buio, una creatura molto più piccola del verme. Avanzò un poco su una serie di zampe da insetto, poi si aggrappò al verme. Era grande più o meno come un grosso cane e con le forme vagamente da insetto, con una decina di zampe sottili e un corpo allungato composto di parecchi segmenti. I due riuscirono a distinguere una sorta di becco acuminato dall’aspetto inquietante e un paio di grossi occhi dorati e fosforescenti simili a grandi gioielli, che si puntarono su di loro in una lunga occhiata quando la lampada del comandante illuminò la creatura. Ma dopo forse un minuto, l’insetto smise di guardarli e tornò al suo lavoro.

Il suo lavoro consisteva nello scavare un grosso buco nelle carni del verme per poi deporvi un uovo.

Nel frattempo, l’uovo attendeva fissato al ventre della madre. Si trattava di una sfera sfaccettata blu violacea e relativamente grande. L’insetto procedette con metodica fretta. Dopo essersi praticamente alzato in piedi, si sostenne con le zampe al terreno e al verme, si piegò in avanti con un angolo acuto e prese ad affondare ritmicamente il becco nella carne fino a quando la testa e il torace non scomparvero nel grosso corpo del verme. A quel punto, lo scopo dei suoi movimenti divenne molto esplicito: la metà visibile dell’insetto dondolava furiosamente, mentre la testa muoveva senza dubbio in tutte le direzioni per allargare sufficientemente la lacerazione. Nonostante la carne morbida e vulnerabile del povero verme, il procedimento continuò per molti, sgradevoli minuti.

Finalmente l’insetto ritirò la testa. Sembrava soddisfatto del suo lavoro. Di nuovo si soffermò a guardare i due spettatori umani, poi salì sul verme eseguendo una strana danza impettita che dopo qualche istante si rivelò essere non una danza, ma il modo in cui l’insetto deponeva il grosso uovo fissato sotto di sé. Portò laboriosamente l’uovo in avanti, spostandolo da una coppia di zampe all’altra fino a tenerlo con la penultima coppia di zampe, poi si piegò fino a coprire il nido appena preparato, ancorandosi con il grosso becco nelle carni del verme, e quindi inserì le zampe che tenevano l’uovo dentro il nido, spingendo per bene l’uovo sino in fondo per esser certo che non cadesse.

Questo fu tutto. La creatura scese dal verme, lanciò un’ultima occhiata a Huw e al comandante e tornò rapidamente nell’oscurità da cui era venuta.

Il verme non aveva reagito in alcun modo visibile all’intera operazione. I suoni soffocati e la masticazione erano continuati con lo stesso ritmo di prima.

— La carne del verme si chiuderà attorno all’uovo, immagino — disse il comandante. — Si formerà una ciste, e l’uovo vi resterà fino alla schiusa, dando al contempo quella splendida luce gialla. Poi nascerà un insetto molto simile a sua madre che troverà cibo a volontà fino a quando non si aprirà la via verso il mondo esterno. E il verme non si accorgerà mai di nulla.

— Splendido. Davvero splendido — commentò Huw.

Il comandante avanzò di una decina di metri per dare un’occhiata più da vicino all’apertura in cui l’insetto aveva deposto l’uovo. Huw non lo accompagnò. Per vedere bene, si accorse il comandante, era necessario arrampicarsi sul dorso del verme. I suoi stivali affondarono di diversi centimetri nella carne tenera mentre si arrampicava, ma di nuovo il verme non diede mostra della minima reazione. Il comandante raggiunse la lacerazione e ne rimosse i bordi per osservare meglio.

— Attento! — gridò Huw. — La madre sta tornando indietro!

Il comandante alzò lo sguardo. In effetti, l’insetto era ricomparso, come se l’uovo avesse emesso qualche sorta di allarme in grado di richiamarla dalle profondità del tunnel. Alla luce della lampada del suo casco il comandante vide l’insetto avanzare con sorprendente rapidità, aprendo e serrando le mandibole, agitando le zampe anteriori, gli occhi rilucenti di rabbia e spruzzi di ciò che sembrava veleno emergere da una serie di sfiati posti lungo il torace.

Con tutta la velocità del caso, il comandante saltò giù dal verme e fuggì verso Huw, ma l’insetto alieno non sembrava disposto a mollare: a quel punto parve chiaro sia a lui sia a Huw che l’insetto intendeva raggiungerlo e farlo a pezzi con quelle tremende mandibole, e sembrava davvero in grado di riuscirci.

Entrambi gli uomini erano armati di pistole a energia, a semplice scopo precauzionale. Il comandante si voltò, estrasse la pistola e fece fuoco un paio di volte quasi senza mirare.

L’insetto cadde in un’esplosione di fuoco giallastro.

— Accidenti, ci è andato vicino! — disse Huw raggiungendolo. — Nulla fa infuriare di più un insetto alieno che vedere le sue uova in pericolo. Non lo sapeva?

— Non erano in pericolo — mormorò il comandante.

— Già. Ma l’insetto non lo sapeva.

— No. No, lei non poteva saperlo — ripeté il comandante, muovendo lentamente con lo stivale i resti dell’insetto. Appariva vagamente sotto shock per l’accaduto. — Non ho mai ucciso nulla prima d’ora — disse. — Una zanzara, certo, forse un ragno. Nulla di questo tipo.

— Non aveva scelta, comandante — cercò di confortarlo Huw. — Ancora cinque metri e l’avrebbe semplicemente fatta a pezzi.

Il comandante replicò con un cenno di assenso.

— Be’, comunque era davvero aggressivo — commentò Huw.

— Aggressivo? Forse era una forma di vita intelligente! — scattò il comandante. — E comunque era una forma di vita complessa. Apparteneva a questo posto, accidenti. Noi no! — esclamò con voce spessa per la rabbia e il disgusto.

Si soffermò accanto ai resti dell’insetto ancora qualche istante, poi si voltò e si diresse con decisione verso l’uscita del tunnel.

Huw lo seguì. I due uomini attesero qualche tempo fuori dal tunnel, in silenzio, guardando la pioggia viscosa che cadeva senza mai fermarsi un attimo.

— Non vuole raccogliere un paio di quelle uova per studiarle sull’astronave? — chiese Huw rompendo il silenzio, nel tenlativo di stimolarlo un po’ con un argomento di sicuro interesse.

Il comandante non rispose subito.

— No — disse infine. — Lasciamole dove sono.

— Ma l’eterna ricerca della scienza, amico mio, ci impone di…

— Al diavolo l’eterna ricerca della scienza, almeno stavolta — ribatté bruscamente il comandante. All’improvviso si era manifestata una nota esplosiva nella sua voce, una nota di rabbia a malapena sotto controllo. — Non ne voglio parlare più, Huw. Torniamo all’astronave.

Tutto quel calore, quella furia a malapena controllata erano assolutamente insoliti per lui. Sorpreso, Huw gli lanciò uno sguardo vagamente allarmato. Poi, per cercare di allentare la tensione, emise un lungo, paradossale respiro di sollievo. — Allora ce ne andiamo per sempre da questo lurido posto? Siano ringraziati gli dèi! Credevo che saremmo dovuti restare qui per sempre, amico mio.


Zed Hesper, naturalmente, aveva pronto un allettante pianeta C, e molti altri mondi oltre a quello. La galassia era zeppa di pianeti, affermavano gli strumenti di Hesper, e lui non vedeva l’ora di partire verso il successivo.

Tuttavia restava il fatto che le prime due esplorazioni planetarie avevano sortito degli esiti tutt’altro che positivi, anzi, erano state piuttosto degli insuccessi. Uno dei pianeti emetteva radiazioni psichiche strane e sconosciute, e l’altro era popolato da mostri ripugnanti. In conseguenza alla più recente missione esplorativa, una strana e tetra frustrazione cominciò a manifestarsi per la prima volta a bordo della Wotan. La perdita del contatto con la Terra, che implicava l’assenza dei quotidiani, ameni bollettini da casa, che ricordavano a tutti che una volta avevano avuto una casa oltre a quell’errante astronave, assunse quindi un’importanza che prima non aveva. E, d’altro canto, tutti avevano visto Huw e Giovanna tornare a bordo dal pianeta A con una vittima e scossi fino al midollo, poi Huw e il comandante tornare a bordo ugualmente scossi dal pianeta B e quindi il pessimismo aveva cominciato a farsi strada. Gli effetti della micidiale aggressione dell’insetto alieno erano ancora perfettamente visibili soprattutto sul comandante: lo shock risultava evidente ancora diversi giorni dopo, e sembrava dover cambiare per sempre quell’uomo un tempo così padrone di sé.

Insomma, la caduta delle aspettative nutrite da tutto l’equipaggio sul pianeta B stava reclamando un prezzo terribile non solo ai due uomini che ne avevano conosciuto gli orrori, ma a tutti loro.

Molti degli uomini e delle donne della Wotan si ritrovavano ora davanti alla prospettiva di dover trascorrere gran parte della loro vita, se non tutta, vagando per la galassia. Non era certo quello il loro scopo quando avevano deciso di lasciare le comodità della Terra per lanciarsi in quella che veniva definita la più grande impresa dell’uomo. Soprattutto quelli più facilmente preda di facili illusioni non accettavano che fosse tanto difficile trovare un pianeta adatto all’uomo. La grandiosità dell’impresa in cui si erano volontariamente gettati cominciò quindi a opprimerli. Molti avevano paura ormai, e altri temevano di aver semplicemente gettato via le proprie vite.

Il comandante lottava con tutte le sue forze per scacciare quel timore dalla sua mente in modo da trovarsi nella situazione migliore per scacciarlo anche dalle menti degli altri. Ma le immagini e i suoni del pianeta B lo tormentavano giorno e notte, coprendolo con la nera melassa della malinconia. Un intero pianeta così disperatamente tetro: bastava e avanzava per spingerlo a negare l’esistenza dello stesso Creatore, dando per scontato che vi avesse mai creduto. Che scopo divino poteva mai servire un pianeta su cui pioveva incessantemente, coperto di titanici rampicanti che impedivano al suolo stesso di respirare e abitato da colossali vermi privi di cervello che mangiavano i viticci e da diabolici insetti parassiti che si cibavano di quei vermi? Senza dubbio era un ottimo pianeta per i vermi, per gli insetti con gli occhi come gemme e per i rampicanti, ma una tale obiettività era oltre la sua portata, in quel periodo. Si sentiva come se avesse compiuto una breve escursione in un girone dimenticato dell’inferno dantesco.

Avrebbe voluto parlare con il suo maestro del pianeta B, se solo avesse potuto. Bramava le ermetiche frasi con cui quell’uomo saggio avrebbe scacciato l’ansia e la depressione che provava in quel momento.

Ma il suo maestro risultava ormai irraggiungibile. E quindi, nel giro di alcuni giorni, con tutta la necessaria lentezza, il comandante riuscì a superare la fase più critica senza l’aiuto di nessuno. Non vi era altra scelta sulla strada da prendere.

Alcuni dei membri più maturi dell’equipaggio, tra cui Hesper, Paco, Julia, Huw e persino Sieglinde, erano riusciti a mantenere intatto il proprio ottimismo sull’esito finale della missione, nonostante il disastroso risultato dello sbarco sul pianeta B. — Il fallimento della seconda missione esplorativa non conta più di tanto — continuava a ripetere Julia. — Ciò che conta è che abbiamo trovato due pianeti teoricamente abitabili in così poco tempo.

— Giusto. Hai ragione — affermava quindi Huw con la sua voce profonda. Huw sapeva che, a quel punto, ogni voce ottimista assumeva una particolare importanza: nei momenti più bui bisognava dare mostra di spirito indomito e volontà ferrea, e lui era più che disposto a mettere la sua forza d’animo al servizio della missione, nonostante ciò che aveva visto e provato sul pianeta A e l’esperienza differente ma altrettanto deprimente vissuta sul pianeta B. Perché c’era un prezzo da pagare, e lui accettava come sempre di pagarlo.

Tuttavia l’atmosfera a bordo aveva assunto i toni della paura. Ciò era dovuto soprattutto a coloro che avevano scelto, per qualsiasi motivo, di riporre molte delle loro speranze sul pianeta B. Elizabeth faceva parte di quel gruppo, con Imogen e Sylvia e con alcuni uomini: Roy, Jean-Claude, Elliot, Chang. Rimasero distrutti dallo spettacolare fallimento della seconda missione esplorativa. Per loro restava aperta solo la strada che portava alle partite di Go, a cui dedicarono praticamente tutto il proprio tempo.

Pochi giorni dopo il gruppo dei più delusi cominciò a chiedere apertamente la fine della missione e il ritorno sulla Terra.

— Non fate gli idioti! — li affrontò subito Paco. — Non riesco neppure a immaginare di tornare indietro strisciando.

— Forse lei non ci riesce — replicò Elliot. — Ma noi ci riusciamo benissimo.

Elliot era uno specialista in pianificazione urbana: lui avrebbe progettato la città che gli astronauti della Wotan speravano un giorno di fondare su un pianeta extraterrestre. Ma, dopo il fiasco sul pianeta B, si era convinto che non avrebbe mai trovato modo di mettere in pratica la sua specializzazione, perché l’impresa in cui si erano lanciati si stava dimostrando folle e senza speranza. Anche la morte di Marcus lo aveva colpito profondamente, come pure l’interruzione dei contatti con la Terra.

Paco replicò: — Se proprio vuole tornare indietro, Elliot, perché non ci prova? Forse Huw sarà disposto a lasciarle una delle navette. Può provare a raggiungere la Terra con quella, lei e chiunque altro voglia andare. Secondo i miei calcoli ci vorranno trecento anni, ma un piccolo sacrificio non dovrebbe costarle più di tanto se davvero ha nostalgia di casa.

— Smettila, Paco! — s’intromise Elizabeth.

Paco si voltò verso di lei. — Tu sei un’altra che ha nostalgia di casa, vero? Bene, torna indietro con lui, allora. Se volete posso calcolarvi la rotta — disse. Il trio Paco, Heinz ed Elizabeth si era sciolto qualche settimana prima. Heinz dormiva in modo irregolare con Jean-Claude e con Leila, mentre Paco si stava gettando a capofitto in una relazione con Giovanna anche se, di quando in quando, si vedeva di nascosto con Elizabeth. — Forza, vattene! Mi dai fastidio! — esclamò Paco, afferrando Elizabeth per un gomito e spingendola malamente contro Elliot. — Ecco fatto. Auguri!

Elliot si infuriò al punto di spingere via Elizabeth, avanzando minacciosamente verso Paco. Ma Heinz si frappose tra i due, poi prese tra le braccia la piangente Elizabeth e disse a Paco: — Puoi tentare di calmarti un po’?

— Mi dà fastidio quel loro parlare di abbandonare tutto e di tornare sulla Terra. È un atteggiamento assolutamente insano.

— È proprio certo che lo sia? — intervenne a quel punto Roy, alzando lo sguardo dalla partita di Go che stava giocando con Noelle. Roy era un altro che aveva fatto sapere a tutti di averne abbastanza di viaggiare nel non-spazio.

— Ma certo! Siamo partiti con uno scopo ben preciso, e lo perseguiremo. Julia ha perfettamente ragione: uno o due pianeti non adatti non significano niente. La nostra ricerca è solo all’inizio! E poi, credete forse di riuscire a convincere il comandante a tornare indietro? Vi sembra un uomo che sia mai tornato indietro una sola volta nella sua vita?

— Il comandante non deve necessariamente restare in carica per sempre — ribatté Elliot vagamente astioso. — L’incarico doveva durare solo un anno, e lui è stato eletto per ben tre volte. Possiamo sostituirlo quando vogliamo.

— Con qualcuno che vuol tornare indietro — concluse Paco. — Qualcuno che vuol mandare a monte la missione. Non è forse vero?

— Se la vuol mettere così…

A quel punto fu Huw a intervenire, parlando dall’angolo in cui stava giocando una partita soporifera con Chang. — Il comandante non si dimetterà mai per lasciare il posto a qualcuno che vuol tornare indietro. Certo lui non voleva restare in carica per tutto questo tempo, ma piuttosto di mandare a monte la missione resterà in carica per sempre.

— Non ho detto che gli chiederemo di dimettersi, ma che lo faremo dimettere — ribatté Elliot.

— Sta dicendo che volete ammutinarvi? — domandò Huw, sbalordito. — È questo che sta dicendo?

— Sto solo dicendo che vogliamo un nuovo comandante — replicò Elliot. — Ecco ciò che sto dicendo. Un nuovo comandante e una rotta che ci porti verso casa!

— Volete ammutinarvi — ripeté Huw, quasi incapace di credere alle sue orecchie. — Volete rovesciare il comandante legittimo e mettere al suo posto un vostro uomo, tradendo lo spirito della missione, calpestando il regolamento…

— Bah, sta solo dicendo un mucchio di idiozie! — esclamò Paco. — Sta parlando come un pazzo. Gli ci vuole un sedativo. Leon? Dov’è Leon?

Leon stava giocando a Go con Sylvia. Udendo il suo nome, alzò lo sguardo, sbuffando. — Leon, Elliot ha perso completamente la testa. È pazzo e pericoloso. Non può dargli un sedativo?

— Paco, per favore — disse a quel punto Noelle, parlando piano.

Aveva ascoltato ogni cosa in silenzio, apparentemente concentrata sul gioco che rappresentava ormai da molti mesi tutto il suo universo. Come accadeva spesso, la calma con cui parlava sortì l’effetto di attirare l’attenzione generale. Tutti guardarono verso di lei.

— Per favore — ripeté. — Non dobbiamo litigare tra noi in questo modo. La missione deve continuare. Lei sa che continuerà, Elliot. “Deve” continuare. E quindi perché parla in questo modo?

— Perché molti di noi la pensano così, Noelle — replicò Elliot, con un tono vagamente titubante. Con Noelle nessuno voleva discutere con il dubbio di avere torto, perché a lei si attribuiva un’innata, incontrovertibile saggezza. C’era anche il timore di coinvolgerla in un confronto troppo duro, lei che sembrava così fragile. — Abbiamo perso anche il contatto con la Terra — continuò Elliot. — E allora viene da chiedersi: la nostra missione a questo punto ha ancora uno scopo?

— L’unico nostro scopo è trovare un pianeta da colonizzare — replicò calma Noelle. — E il contatto con la Terra non è affatto perduto.

Nella stanza risuonò un generale urlo soffocato di sorpresa.

— Non abbiamo perso il contatto con la Terra? — chiesero diverse voci tutte insieme.

Noelle sorrise. — Non per sempre, ne sono certa. L’interferenza è solo un fenomeno temporaneo dovuto a queste creature, questi angeli di cui parlava Heinz. — Tutti la stavano guardando. — Ho intenzione di provare a contattarli — continuò. — Ho dato la mia parola e intendo farlo. Cercherò di contattarli e chiederò loro di lasciarmi parlare ancora con mia sorella. Se ci riesco, e se loro me lo consentiranno, non saremo più soli quassù.

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