Emerse dall’ascensore e si confrontò con il caos attentamente ordinato che imperava nel ponte sottostante. Una moltitudine di corridoi serpeggianti ingombri di merci si divideva alle sue spalle. Imboccò il terzo a partire da sinistra e si avviò con passo deciso, abbassandosi di quando in quando per evitare i numerosi condotti che attraversavano da parte a parte il soffitto del corridoio.
Nella mente del comandante l’astronave appariva a volte come un affusolato, lucente, aggraziato proiettile d’argento lanciato attraverso l’universo a una velocità che a quel punto superava il milione di chilometri al secondo. Tuttavia, lui sapeva che ciò non era affatto vero. In effetti, l’astronave non assomigliava neanche lontanamente a un proiettile d’argento. Nessuna forza newtoniana di azione e di reazione lo richiedeva, ma neppure poteva vantare la minima raffinatezza nelle forme. Il suo profilo era squadrato, basso e goffamente asimmetrico, un enorme container metallico persino più sbilenco e sgraziato delle solite navi spaziali, con un’elaborata sovrastruttura a ragnatela da cui si dipanavano sensori e antenne, telescopi e radioscopi e altre escrescenze che avrebbero dato a chiunque l’impressione di essere state sistemate a casaccio.
E tuttavia, proprio a causa dell’incredibile velocità della Wotan e della linearità del suo moto, visto che l’astronave li stava trasportando senza alcun attrito attraverso l’ampio e vuoto mantello del non-spazio a una velocità quattro volte maggiore della velocità della luce e sempre in aumento, il comandante insisteva a visualizzarla in quel modo, affusolata, aggraziata, argentea. Gli sembrava giusto in un senso che trascendeva il mero senso letterale. Sapeva com’era in realtà, ma non riusciva a scrollarsi dalla mente quell’immagine gloriosa, nonostante conoscesse a memoria la vera forma dell’astronave che comandava. Ecco dunque che i suoi quotidiani pellegrinaggi attraverso l’interno labirintico dell’astronave stridevano fortemente con la meravigliosa immagine mentale con cui se la raffigurava.
Gli intricati livelli inferiori della Wotan erano particolarmente difficili da attraversare. I congestionati corridoi, pieni di semicupole, tubazioni, dispositivi di riciclaggio e quant’altro serviva per il funzionamento a lungo termine dell’astronave curvavano e si incrociavano ogni pochi metri con la brusca, folle intricatezza di un gioco a percorso. Ma il comandante ormai li conosceva e, in ogni caso, era un uomo dalla straordinaria capacità di orientamento. Avanzava con passo calmo e ponderalo. Il suo portamento rifletteva l’intenso fuoco ascetico che tanto forte brillava in lui. Gli ostacoli e la penombra di quei corridoi non potevano metterlo in difficoltà poiché per lui erano solo degli impedimenti.
Con passo leggero, si aprì la strada attraverso un fitto e vibrante intrico di tubi opachi e superò una serie di basse, gonfie semicupole. Erano le semicupole dei magazzini principali. In camere blindate sotto quel livello si trovavano i macchinari indispensabili alla riuscita della loro missione: dispositivi medici, congelatori, bolle raccogli-dati, placche di addomesticamento dei possibili animali locali, archi scavatori, sonde per il campionamento del suolo, kit di sostituzione genetica, telai computerizzati per indumenti a matrice, convertitori di idrocarburi, noduli climatici ed equipaggiamento per la terraformazione dei pianeti abitabili, robot e computer, replicatori molecolari, sagome, pannelli e componenti per macchine pesanti e ancora tutto ciò che sarebbe servito per rendere abitabile il loro nuovo mondo. Ancora più sotto si trovava la banca degli embrioni, diecimila ovuli già fecondati custoditi in capsule a congelamento rapido, più sperma e ovuli non fecondati in quantità sufficiente a mantenere la necessaria differenziazione genetica a mano a mano che sulla nuova colonia fosse cresciuta la popolazione.
In quel punto il corridoio si biforcava, allargandosi bruscamente. Lui proseguì a sinistra, per poi aprire dopo poco la porta del laboratorio di Hesper. Un lampo di luce colorata lo accolse, blu, verde e rosso incandescente. Le stelle pulsavano e brillavano con un eccesso quasi divertente. Lo schermo di Hesper era posto idealmente al centro dell’universo, nel punto verso cui tutto fluiva. Da ogni angolo del firmamento giungevano fiumi di dati, catturati e in qualche modo riconvertiti in forma visiva. Ma solo Hesper era in grado di capire il risultato; neppure a lui, al comandante dell’astronave, era consentito penetrare quella meraviglia della tecnica.
L’aria in quel locale era calda e puzzava di chiuso, densa e umida come l’aria della giungla. Hesper adorava il caldo e regolava l’umidità sempre al massimo. Era un uomo di colore, piccolo e con labbra sottili sempre tirate, con un naso sorprendentemente a becco che tradiva la sua provenienza, una piccola isola di fronte alla costa occidentale dell’India. Il sole doveva brillarvi molto forte; il comandante guardò la sua pelle bianchissima pensando che se mai avesse messo piede in quel luogo si sarebbe coperto di ustioni in un solo minuto. Era così il luogo dove Hesper stava portando tutti loro, un pianeta con un sole tanto feroce?
— Salve, comandante, guardi qui: quattro nuovi prospetti — disse subito Hesper.
Così dicendo pensò bene di indicarli sullo schermo. — Qui, qui, qui e qui. — Hesper era un eterno ottimista. Per lui la galassia abbondava in modo esagerato di pianeti abitabili.
— Davvero? E con questi a quanti prospetti siamo arrivati? Cinquanta? Cento?
— Sessantuno, per la precisione, in una sfera di diametro pari a centotrenta anni-luce. Sono tutti sistemi conosciuti, con soli plausibili e pianeti che non abbandonano mai la zona di biosfera. Tuttavia, non ho abbastanza dati per consigliare un atterraggio su uno di questi pianeti in particolare.
Il comandante annuì. — Già, naturalmente.
— Ma non ci vorrà molto, comandante, non ci vorrà molto. Glielo garantisco.
Il comandante offrì a Hesper un sorriso di circostanza. Un giorno o l’altro, ne era certo, Hesper avrebbe davvero trovato uno o due pianeti che meritassero un’occhiata da vicino: credere nella loro esistenza era una sorta di atto di fede a bordo della Wotan; tuttavia si capiva chiaramente che tutto quell’entusiasmo era solo ciò che era, semplice entusiasmo. Hesper accettava troppo disinvoltamente qualsiasi ipotesi. Ma non importava: in effetti, il viaggio era appena cominciato. Il comandante non si aspettava di entrare là dentro e di venire subissato di nuove scoperte, almeno non ancora; lui voleva semplicemente dare un’occhiata agli schermi.
Hesper gli aveva spiegato più di una volta il significato dei mulinelli e dei lampi di luce multicolore: erano sequenze di criteri per stabilire l’abitabilità di un pianeta. Dapprima arrivavano i dati astronomici grezzi: la posizione di ciascun sole sulla sequenza principale, poi gli indizi che tradivano la presenza di corpi planetari in posizioni plausibili. Le distanze orbitali medie venivano tracciate in base alla luminosità. Poi una ricerca spettroscopica. Dati sulla presenza di atmosfera, analisi delia composizione chimica: adatta alla vita oppure no? E poi l’analisi della biosfera: condizioni di squilibrio termodinamico, che indicavano la possibile presenza di traspirazione e respirazione, gamma di temperature, anomalie meteorologiche…
Decine e decine di invisibili tentacoli scandagliavano l’incomprensibile vuoto che tutto avvolgeva. Una foresta di recettori, ampiamente in grado di lacerare il tunnel di non-spazio in cui viaggiava l’astronave e di estendersi nella buia realtà che si trovava oltre, raccoglieva continue informazioni, dati molto imprecisi rispetto a quanto si poteva raccogliere nello spazio vero e tuttavia ugualmente utilizzabili. La decodifica dei dati originava quindi le luminose composizioni che riempivano il laboratorio e sulle quali quel piccolo uomo un po’ paffuto stava chino giorno dopo giorno, valutando, scartando, considerando, cercando senza posa il nuovo Eden che rappresentava l’obbiettivo ultimo della spedizione.
Hesper voleva discutere i nuovi prospetti. Il comandante l’ascoltò distrattamente. In quel momento cercava solo il semplice relax che veniva dal guardare gli schermi, quelle configurazioni astratte così colorate e vivaci, i selvaggi mulinelli di colori che ruotano vorticosamente pulsando di luce come comete impazzite. Davvero avevano un significato? Solo Hesper lo sapeva. Lui aveva sviluppato quel sistema di raccolta dati e solo lui poteva, in effetti, decodificare e interpretare i dati misteriosi che i sensori dell’astronave rubavano allo spazio circostante. Al momento opportuno, il comandante avrebbe prestato una totale attenzione ai dati raccolti dal piccolo uomo. Ma quel momento doveva ancora giungere.
Il comandante restò in piedi immobile a guardare, senza porsi domande, come un bambino che prova un innocente piacere contemplando delle strane figure colorate. Si concedeva così pochi piaceri: quello era innocuo e confortante. Le stelle sembravano danzare sullo schermo, classici fandango e vivaci gagliarde. Credette di vedere la luce blu metallica di Vega, quella smeraldo di Deneb e quella dorata di Arturo, ma sapeva che poteva trattarsi benissimo di altre stelle. Il firmamento recepito dai sensori non era quello che tanto spesso contemplava nei freddi cieli della sua Norvegia durante le frequenti notti insonni. Ciò che i sensori di Hesper percepivano non era in effetti neppure il firmamento, ma l’equivalente informatico del cielo depurato dalle distorsioni del non-spazio. Ne risultava una mappa delle sorgenti di energia e delle masse inerti presenti nello spazio vero, una mappa in continua evoluzione a causa della fantastica velocità a cui la Wotan procedeva. Ma non importava che quelle stelle virtuali fossero vere oppure illusorie, non importava che si chiamassero Markab, Procione, Rigel o Betelgeuse, oppure che non si chiamassero affatto: per lui poteva trattarsi anche solo di punti di luce immaginari. Era la loro danza che lo attraeva.
Assaporò lo spettacolo di luci con gratitudine fino a quando i suoi occhi non cominciarono a dolere e la sua mente a stancarsi. Poi ringraziò Hesper con voce grave e uscì.
La cabina di Noelle era pulita, austera e poco arredata. Nessun quadro alle pareti, nessun ologramma di statue classiche negli angoli, nulla per compiacere la vista a parte qualche sottile statuetta di bronzo, una lastra ovale di pietra verde e alcuni oggetti scelti evidentemente per la loro ricca struttura: una striscia di tessuto annodato tesa attraverso una cornice, un guscio di riccio di mare calcificato, una collezione di pietre grezze di arenaria. Tutto però era meticolosamente ordinato. L’aiutava qualcuno a tener pulita la cabina? Noelle muoveva serenamente da una parte all’altra della piccola stanza senza mai rischiare di urtare qualcosa, spostando questo o quell’oggetto di uno o due centimetri, prendendone un altro per soppesarlo e poi rimetterlo nello stesso identico posto di prima: la suprema confidenza dei suoi movimenti affascinava il comandante, pazientemente seduto ad aspettare che lei si fermasse.
Anche la sua bellezza lo affascinava. Noelle era perfettamente curata, con i lunghi capelli neri pettinati accuratamente all’indietro e fissati con uno splendido pettine di avorio istoriato. Aveva una pelle dalle forti tonalità afro-mediterranee, liscia e luminosa, lucente da dentro. Le sue labbra erano piene, il naso sottile e vagamente alla francese. Indossava una soffice veste nera, lunga e fluente e dal bordo argentato. Ed era molto, molto attraente: incontrandola talvolta nelle terme non aveva potuto fare a meno di notare i suoi seni rigidi e tondi, le sue curve, le sue anche. Le sue ossa erano sottili, quasi fragili all’apparenza, incredibilmente femminili. E tuttavia, per quanto ne sapeva, non era legata a nessuno a bordo. Forse perché era cieca? Nessuno pensa in genere a una ragazza o a un ragazzo cieco come a un possibile partner. Ma per quale motivo? Forse perché uno esita ad avere rapporti sessuali con una persona cieca per paura di approfittare di lei. Questo pensiero lo colpì. Approfittare? Se uno pensa a un rapporto sessuale tra due adulti come a un’occasione per trarre un vantaggio immediato, meglio perderlo che trovarlo. Allora, forse la compassione per il suo handicap sbarra la strada ad altre cose: la pietà si fa sentire troppo spesso, e questo uccide il desiderio. Ma anche questa teoria venne presto rifiutata. Troppo disinvolta e poco plausibile. Poteva essere che la gente evitasse i rapporti con lei per la sua presunta capacità di leggere la mente, e quindi i pensieri più profondi? Noelle aveva ripetutamente spiegato di poter entrare solo nella mente di sua sorella gemella. E poi, se uno non ha niente da nascondere, perché dovrebbe preoccuparsi delle capacità telepatiche di Noelle? No, doveva trattarsi di qualcos’altro, qualcosa che comprese solo in quel momento. Noelle possedeva un tale autocontrollo ed era tanto calma, tanto avvolta nella sua cecità e nello sviluppo delle sue capacità, tra cui primeggiava il miracoloso ponte telepatico che la legava alla sorella rimasta sulla Terra, che nessuno osava provare a rompere le cristalline barriere che la difendevano dal mondo esterno. Nessuno la avvicinava perché lei sembrava intoccabile. La sua strana perfezione dell’anima la sequestrava, allontanava gli altri quanto e forse più di quanto accade a una ragazza straordinariamente bella. Non stimolava il desiderio perché non sembrava affatto umana. Lei riluceva. Sembrava una macchina senza difetti, un componente essenziale dell’astronave.
Il comandante ripassò in silenzio il testo del messaggio, il rapporto da trasmettere quotidianamente alla Terra. — Non c’è molto di nuovo da dire — annunciò infine — ma immagino che il rapporto giornaliero vada inviato comunque.
— Sarebbe quasi crudele non inviarlo, visto ciò che rappresentiamo per loro — replicò Noelle.
Non appena lei aprì bocca, la calma attentamente costruita del comandante parve svanire di colpo. Un attimo più tardi si ritrovò spigoloso, belligerante, stranamente fuori equilibrio. Lui stesso si stupì di quella trasformazione. Qualcosa nella voce morbida e gentile della ragazza cieca lo mandava incredibilmente su tutte le furie, o almeno così sembrava. Una tensione repentina e misteriosa si fece largo dentro di lui. Rabbia. Animosità. Non sapeva perché, ma sapeva che non era completamente padrone delle sue parole.
— Ah, ho i miei dubbi al riguardo — replicò con un’acidità che lo stupì. — Non siamo poi così importanti per loro.
Una risposta perversa, e lo sapeva. Quelle parole andavano completamente contro le sue stesse convinzioni.
Lei sobbalzò dalla sorpresa. — Ma certo, ma certo che siamo importanti per loro. Yvonne dice che le fanno registrare il rapporto non appena arriva, per poi ritrasmetterlo a tutte le colonie scientifiche e sui canali del mondo intero, e anche sulla Luna: sapere cosa facciamo è terribilmente importante per loro.
Ma lui non era disposto a concedere nulla. — Facciamo semplicemente parte dello spettacolo, siamo l’ultima curiosità. Ah, gli intrepidi esploratori che si avventurano verso le stelle attraversando le sconosciute profondità del non-spazio a caccia di nuovi mondi… Come fenomeno, possiamo durare addirittura un anno! — ribatté. La sua voce suonava dura e poco familiare, il suo modo di parlare era rude, erratico, con le parole che uscivano a getti irregolari. E, per quanto riguardava quelle parole tanto gelide e ironiche, continuava a masticarle chiedendosi se davvero le aveva pronunciate lui. Prima non aveva mai parlato in quel modo della Terra e dell’interesse che suscitava la missione. Simili pensieri non avevano mai attraversato la sua mente prima. E, tuttavia, si ritrovò a voler avventatamente continuare su quella strada, quasi curioso di vedere dove portava. — Questo è tutto ciò che rappresentiamo per loro, non crede? Una notizia, l’avventura, un temporaneo diversivo.
— Crede veramente a quello che dice? A me sembra così cinico!
Lui si strinse nelle spalle. In qualche modo quell’idea tanto sgradevole aveva preso possesso della sua mente, per quanto quelle parole suonassero ripugnanti anche a lui. L’effetto che stava avendo su Noelle appariva sempre più chiaro, perplessità che si trasformava in delusione, ma sentiva di essersi spinto troppo in là per lasciar cadere l’argomento. — Altri sei mesi e si stancheranno dei nostri rapporti quotidiani. Forse anche prima. Non ci presteranno più attenzione… tra un anno solo gli scienziati si ricorderanno di noi.
Di nuovo, lei sembrò colta di sorpresa. Le sue narici si allargarono e si strinsero in apparente allarme. Normalmente il suo volto era il ritratto della serenità, ma non adesso. — Non l’ho mai vista di così cattivo umore, comandante.
— Davvero? Be’, oggi mi sento stranamente cinico.
— Non l’ho mai considerata una persona cinica, neppure una volta. Anzi, tutto in lei suggerisce ben altro che cinismo. Eppure oggi, mentre diceva queste cose… — L’aggettivo giusto faticava a uscire.
— Queste cose orribili?
— Sì.
— Ah, forse sono solo realista. Oggi ci ho pensato un po’ sopra e ho deciso che un po’ di realismo non guasta. Essere realisti equivale a essere cinici?
— Perché fa di tutto per darsi un’etichetta?
— Perché è una parte importante dell’essere realisti.
— Lei non sa cosa sia il realismo, comandante. E adesso comincio a dubitare che lei sappia davvero cosa voglia.
Il contrattacco di Noelle, se di questo si trattava, lo stupì almeno quanto il suo sfogo di prima. Era un’altra donna quella che aveva davanti, agitata, veemente. In soli pochi minuti la conversazione era sfuggita a ogni controllo: troppo carica, troppo intima. Noelle non gli aveva mai parlato così. Lo stesso valeva per lui. Lui le diceva delle cose in cui non credeva; lei rispondeva con argomenti che si spingevano molto oltre i limiti del suo solito splendido distacco. Era come se ci fosse una sorta di maligna elettricità nell’aria, un campo magnetico che distorceva le loro normali personalità, rendendoli entrambi inquieti e aggressivi.
Il comandante provò un attimo di panico. Se disturbava la delicata bilancia psichica di Noelle, sarebbe stata in grado di collegarsi telepaticamente con Yvonne e con la Terra lontana?
E tuttavia non riuscì in alcun modo a trattenersi dal chiedere: — Perché, lei sa cosa voglio?
— Trovare se stesso. Ecco cosa vuole, comandante. Ecco perché si è offerto volontario per questa missione.
Lui scosse bruscamente la testa, un gesto quantomai futile vista l’inutilità del linguaggio del corpo davanti a un cieco. — Oh no, no. Troppo superficiale, Noelle, troppo facile.
— Qualche anno fa lei era un attore famoso. O almeno così si dice. Poi è diventato biologo e ha fatto un’importante scoperta su qualche luna di Giove… o era Saturno? Poi è diventato monaco e si è ritirato a vivere in un’isola deserta da qualche parte. E adesso è comandante della prima astronave interstellare umana. Non c’è continuità, in tutto ciò, che io possa trovare. Chi è lei, comandante? È davvero certo di saperlo?
— Lo so, naturalmente. — Ma non diede troppa enfasi alla sua voce. Le affermazioni di Noelle non avevano senso per lui, perché vedeva con perfetta chiarezza la logica della sua vita variegata. A lui risultava ovvio come una cosa avesse inevitabilmente condotto all’altra. Poteva spiegarsi, cercare di farle capire, ma qualcosa in lui si era indurito. Non aveva la minima voglia di giustificare le sue scelte a Noelle. Tuttavia questo lo lasciava senza argomenti con cui ribattere, e quindi non trovò niente di meglio che ritornarle il guanto della sfida. — E lei? — disse, quasi con rabbia. — Saprebbe rispondere a queste domande?
— Credo proprio di sì.
— Bene, allora risponda. Sentiamo, dopotutto sono domande che ha fatto lei. Mi faccia vedere come si fa. Perché si è offerta volontaria per una missione senza ritorno, Noelle? Cosa sta cercando? Avanti, risponda. Forza!
Lei abbassò lentamente le palpebre su quegli occhi che non vedevano e restò in assoluto silenzio, i muscoli tesi, le braccia sui fianchi con le mani chiuse a pugno, il respiro affannoso e irregolare, la testa che oscillava leggermente qua e là come la testa di un animale ferito che cerca un po’ di sollievo dal dolore.
Anche il comandante restò in silenzio: il momento della rabbia, delle parole incontrollate era finalmente terminato, e ora temeva che quell’episodio potesse provocare danni irreparabili. Sapeva perché Noelle si trovava a bordo, e lei sapeva che lui sapeva. Come poteva non saperlo? Noelle era essenziale alla riuscita della missione; non aveva scelto di partecipare, aveva scelto di proteggerli tutti con un mantello irrinunciabile. Questo aveva comportato il terribile sacrificio della sola cosa preziosa nella sua vita. E lui era stato arrogante anche solo ponendo quella domanda.
Sentiva la gola secca, il cuore battere forte. La sua condotta in quegli ultimi cinque minuti lo stupiva. Era come se fosse stato posseduto: sì, posseduto. Trasformato. Con uno sforzo, cercò di riprendere contatto con quella parte di lui che considerava se stesso. Pochi istanti e vi riuscì, tornando a essere una pallida versione dell’uomo che credeva di essere.
Poteva ancora salvare qualcosa? Questo si chiese, preoccupato.
Calmo quanto più poteva, ruppe quel gelido silenzio. — Tutto questo non ha nulla a che fare con ciò che penso veramente. Spero che mi scuserà per ciò che ho detto.
Noelle restò in silenzio. Lui notò un cenno col capo a malapena percettibile.
— Mi spiace per quanto è successo, Noelle. Le garantisco che farla arrabbiare era l’ultima cosa che volevo.
— Lo so.
— Devo andarmene?
— C’è un rapporto da trasmettere, se non mi sbaglio.
— Pensa di riuscirci adesso?
— Non ne sono certa, ma posso provarci. Aspettiamo solo qualche minuto, va bene?
— Certo. Come vuole.
Lei sembrò riprendersi, in qualche modo. I suoi occhi restarono chiusi, ma lui notò che si muovevano meno rapidamente sotto le palpebre. Rughe illeggibili apparivano e scomparivano sulla sua ampia fronte. Il comandante pensò agli esercizi di meditazione che aveva appreso quando viveva su un’isola, sotto il chiaro cielo artico di Lofoten. Probabilmente Noelle stava facendo qualcosa di simile. Il comandante era deciso a lasciarle tutto il tempo di cui aveva bisogno. Restò seduto ad aspettare, scrutandola.
Finalmente lei aprì gli occhi e lo guardò, o perlomeno guardò verso di lui per chiedere dopo un attimo con voce tornata normale: — Lei come crede che ci vedano sulla Terra? Come normali esseri umani impegnati in una missione insolita o come superuomini partiti per un epico viaggio?
— Non credo sia utile riprendere la nostra discussione, Noelle. Non ci porta da nessuna parte, non è d’accordo?
— Non lo so. Ma comunque vorrei chiarire quest’ultimo punto. Mi dica cosa pensa: come ci vedono sulla Terra?
— Adesso come adesso, direi come superuomini partiti per un epico viaggio.
— Sono d’accordo. Ma tra qualche tempo, secondo lei, torneranno a considerarci delle persone normali, persone come loro?
Lui cercò di capire cosa pensasse veramente al riguardo. Ciò che scoprì lo sorprese, ma nonostante tutto decise di condividerlo con lei anche se riproponeva in altri termini le dure, inaspettate parole che aveva pronunciato prima. — Tra qualche tempo — disse — non saremo più nulla per loro. Ci dimenticheranno. La cosa veramente importante è stato lo sforzo globale necessario per organizzare questa spedizione. Adesso che siamo partiti, l’entusiasmo comincerà per forza a calare. Noi continueremo a vivere le nostre vite ovunque ci troveremo e lo stesso vale per loro, che siano vite piacevoli, spiacevoli o semplicemente scialbe. Noi e loro stiamo percorrendo strade separate, sempre più divergenti a mano a mano che passa il tempo.
— Ne è davvero convinto?
— Sì. temo proprio di sì.
— È molto triste tutto questo. Che finale scialbo prevede per la nostra grande avventura — concluse lei, con un tono che tradiva un’aggraziata punta di ironia. Noelle era tornata calma come al solito: forse poteva mettersi a ridere, ma non rischiava più di cedere alla rabbia. Aveva ripreso il controllo. — Un’ultima cosa: e lei, comandante, come si vede? Come un superuomo o come una persona normale?
— Come una via di mezzo, più disposta verso la persona normale… certamente non mi sento un superuomo!
— Su questo le do ragione.
— E lei?
— Oh, io sono una ragazza assolutamente normale, tranne che per due cose: lei sa cosa intendo.
— Una è la sua… — cominciò, avvertendo una misteriosa sensazione di disagio quando provò a definirla apertamente. Ma Noelle si aspettava una conferma. — La sua cecità, naturalmente. L’altra è il ponte telepatico che la unisce a sua sorella.
— Proprio così — disse lei con un sorriso radioso. Segui un lungo attimo di pausa. Poi concluse: — Va bene, adesso basta. Abbiamo un lavoro da fare. Che ne dice di inviare il rapporto?
La velocità con cui aveva ripreso il controllo lo colse in contropiede. — È pronta a cominciare? È riuscita a stabilire il contatto con Yvonne?
— Sì. Sta aspettando.
— Bene, allora cominciamo. — Si sentiva stordito, svuotato. Lei aveva sottilmente vinto l’inesplicabile duello che si era combattuto in quella cabina. Le sue dita tremarono un poco quando aprì gli appunti preparati per l’occasione. Poi, lentamente, cominciò a leggere: — Giorni di viaggio: centodiciassette. Velocità… Posizione apparente…
Noelle dormiva dopo ogni trasmissione. Stabilire il contatto la lasciava esausta. Quella volta aveva cominciato ad appisolarsi già verso la fine del messaggio; uscendo in corridoio, il comandante sapeva che si sarebbe addormentata in pochi istanti. Chiuse la porta e lentamente si avviò, scuro in volto, preoccupato per quella strana tensione scoppiata all’improvviso tra loro a causa di quell’attacco di brutale “realismo” dal quale sembrava misteriosamente guarito non appena lasciata la cabina di Noelle.
Con quale diritto, si chiese, aveva detto che la Terra si sarebbe presto dimenticata di loro e che la loro missione non significava praticamente nulla per la specie umana? Aveva detto un mucchio di idiozie, e per di più sapendolo. La loro spedizione rappresentava una sorta di redenzione per la Terra, l’impresa più emozionante mai tentata negli ultimi due secoli, l’ultima e la migliore speranza di una civiltà sonnolenta sempre più preda della propria placidità. E quindi ciò che loro facevano era importante, terribilmente importante, e lui non aveva alcun motivo per dubitarne. Per preparare il primo viaggio interstellare della storia umana c’era voluto quasi un secolo, e nel corso di quegli anni l’eccitazione del pubblico non era mai calata, anzi aveva stimolato al momento opportuno la volontà dei partecipanti quando l’interminabile addestramento minacciava di farli fuggire uno dopo l’altro. No, l’interesse verso la loro impresa si manteneva più vivo che mai. Quel viaggio, per quanto privo di eventi, ipnotizzava milioni di persone che lo seguivano giorno dopo giorno. Era come una droga per loro, un potente euforizzante che li spingeva a svegliarsi da un sonno letargico lungo almeno un secolo. Perché loro erano viaggiatori anche per gli altri; in futuro, una volta trovata la nuova Terra, sarebbero stati dei coloni anche per gli altri. I vantaggi potevano durare dei secoli. E allora perché si era lasciato andare a quello sfogo di pessimismo gratuito? Nulla sorreggeva la posizione che tanto impulsivamente aveva sostenuto. Fino a quel momento i messaggi dalla Terra, inviati a Noelle tramite Yvonne, vibravano di mille domande: l’intero pianeta pulsava di una travolgente curiosità. Diteci, spiegateci, raccontateci!
Ben sapendo l’importanza dell’impresa a cui partecipava, l’intero equipaggio aveva fatto di tutto per rispondere in modo esauriente. Ma purtroppo c’era così poco da dire, davvero, tranne forse sotto l’aspetto trascendentale dove, in effetti, c’era moltissimo. Ma come esprimerlo a parole?
“Come” esprimerlo?
Il comandante si fermò davanti alla grande vetrata del corridoio principale, una finestra rettangolare lunga una decina di metri che si affacciava direttamente sullo spazio esterno all’astronave. Nessuno dei sofisticati dispositivi analogici di raccolta dati utilizzati da Hesper era in funzione su quella finestra, che mostrava quindi il vero ambiente attraversato dalla Wotan. Eccolo là, il vuoto del vuoto, l’assoluta mancanza di materia del non-spazio denso e permeante, percorso da mille sfumature grigio perla che sembravano premere contro la corazza dell’astronave. Durante il lungo addestramento, i membri della spedizione erano stati preparati all’assoluta mancanza di stimoli esterni del non-spazio: quello in cui viaggiavano era un nulla di lunghezza infinita, una sorta di tunnel privo di materia in cui, probabilmente, non ci sarebbe stato alcun panorama a intrattenerli. Niente nebulose sullo sfondo, niente stelle lucenti, niente meteore vaganti, neppure una coppia di atomi in collisione in grado di accendere una minima scintilla; solo l’eterna uniformità, il grande, vuoto Intermundium che li avrebbe avvolti come un muro di nebbia. Gli istruttori avevano proposto loro diversi metodi per combattere l’angoscia che generava quella nebbia: meditare quanto più possìbile, non aspettarsi nulla dallo spazio esterno, rendere l’astronave il proprio universo. E tuttavia quanto fuorviami si erano rivelati all’atto pratico quei suggerimenti! Il non-spazio non era tanto un muro, quanto una finestra: solo che risultava impossibile a una persona sulla Terra comprendere le grandi rivelazioni che si nascondevano in quella nebbia apparente.
Con la testa che ancora doleva per la discussione con Noelle, il comandante cercò di ristabilire il suo scosso equilibrio, indulgendo nel suo piacere più profondo. Bastava guardare fuori dalla vetrata per vedere il luogo dove l’immanente diventava il trascendente: il comandante contemplò ancora una volta il riverbero delle infinite onde di energia che frustavano la nebbia grigia, là fuori dove il continuum veniva appiattito e curvato dal campo del non-spazio, consentendo all’astronave di attraversare con illusoria facilità le grandi distanze interstellari. Là fuori non vi era né un muro di nebbia, né un tunnel vuoto: l’Intermundium consisteva di una sorprendente profusione di campi di energia interconnessi e legati l’uno all’altro. Musica che era anche luce, luce che era anche musica, mentre gli uomini e le donne a bordo dell’astronave erano particelle senzienti che facevano parte di quell’immenso riverbero che tutto includeva, di quella radiosa nota d’amore che era l’universo. Quando il comandante guardava fuori, in quel campo di luce, gli sembrava chiaro che lui e i suoi compagni di viaggio stavano muovendo verso il centro di tutte le cose, affidando gioiosamente se stessi alla cura di forze cosmiche che oltrepassavano di molto i limiti dell’umana comprensione e dell’umano controllo.
Appoggiò le mani sul cristallo gelido, per poi avvicinarvi il viso.
“Cosa vedo, cosa provo, cosa sento?”
Era un’istantanea rivelazione, ogni volta. La vista di quel vuoto luminoso poteva anche spaventarlo, poiché provava in modo schiacciante e inappellabile che si trovavano fuori dal normale universo, separati da tutto ciò che era familiare e “vero” mentre galleggiavano in quel luogo dove le regole dello spazio e del tempo erano sospese. Tuttavia, il comandante non trovava nulla di spaventoso in tutto ciò. Nessuno dell’equipaggio trovava preoccupante quella situazione. Era quasi, “quasi”, la tanto sospirata comunione con il tutto. Le barriere restavano, ma tuttavia il comandante era ben conscio del senso alterato dello spazio e del tempo, dell’accresciuto senso di possibilità, dell’incontro con la misteriosa entità che viveva negli spazi vuoti tra le parole del cosmo, qualcosa di maestoso e potente; e sapeva che quell’entità era parte di lui, e che lui era parte di quell’entità. Ecco perché ogni volta che guardava fuori dalla vetrata provava l’impulso di aprire il grande portello dell’astronave e lasciarsi cadere nell’eternità. Ma ancora non poteva, no. Non era affatto pronto per l’Intermundium galattico. Le barriere restavano. Il viaggio era appena cominciato. Ogni giorno che passava si avvicinavano alla loro meta, ovunque si trovasse, ma il viaggio era appena cominciato.
Come spiegare tutto ciò agli uomini rimasti sulla Terra? Come renderlo comprensibile?
Non con le parole. Mai con le parole.
“Che partano a loro volta, allora, e vedano con i loro occhi!”
Sorrise. Con un tremito emise un vago suono di stupore e delizia. Tutti i suoi dubbi scomparvero all’improvviso com’erano venuti. La nave spaziale continuava la sua traversata in quell’immensa notte insolita. La fiducia montò in lui come un’alta onda di marea. Il risultato di quel viaggio poteva solo essere il successo, sotto qualunque forma.
E finalmente abbandonò la grande vetrata, assorto, estatico.
Di tutti i membri dell’equipaggio, Noelle fu la prima a essere scelta. Sempre che nel suo caso si possa davvero parlare di scelta, poiché fin dal primo istante lei e sua sorella gemella avevano fatto parte del progetto e quello era stato concepito contando sulla loro totale disponibilità. Senza di loro, senza il loro sorprendente contatto telepatico, la spedizione sarebbe partita comunque, ma con finalità totalmente diverse. E forse, alla fine, non sarebbe partita affatto. Perché l’esistenza di Noelle e Yvonne era uno dei prerequisiti necessari per l’intera impresa. Loro due furono il perno di ogni cosa, e il loro consenso divenne una semplice formalità. Una volta stabilito che doveva essere Noelle a imbarcarsi, e non Yvonne, il suo test di idoneità si rivelò una farsa.
Degli altri effettivi volontari, Heinz fu il primo a guadagnarsi l’approvazione formale della commissione, Paco il secondo, Sylvia la terza, poi arrivarono Bruce, Huw, Chang e Julia. Il comandante, per contro, fu uno degli ultimi a passare gli esami di idoneità. A livello formale, l’ultima fu proprio Noelle, ma lei faceva parte del progetto quanto l’astronave stessa, e tutto sommato per ragioni molto simili.
Per ognuno di loro tranne che per Noelle le procedure per l’idoneità furono le stesse; semplici, crudeli, umilianti e bugiarde. Generalmente parlando, i membri dell’equipaggio vennero scelti prima ancora di chiedere loro un assenso formale. Il mondo era diventato un posto molto piccolo. Le capacità di ognuno erano conosciute. Nessuno era più particolarmente famoso, ma nessuno, d’altra parte, era più totalmente anonimo.
Tuttavia si decise ugualmente di seguire certe formalità. Il processo di selezione a priori poteva comportare qualche errore, e nessuno voleva imbarcare la persona sbagliata. E quindi vennero convocati millecento candidati per i cinquanta posti disponibili a bordo della Wotan. I candidati giunsero da ogni parte del mondo, un campione attentamente studiato che rappresentava tutte le popolazioni della Terra. Molte delle antiche nazioni, un tempo tanto divise e rumorosamente piene di sé, godevano ancora di una formale, tenue esistenza, più come romantiche entità che come stati sovrani, ma tuttavia il concetto esisteva ancora e quindi sembrò opportuno rendere il dovuto omaggio alla quasi realtà della loro quasi esistenza. Pertanto ognuno degli antichi stati sovrani o dei frammenti significativi in cui si erano divisi venne invitato a candidare alcuni dei suoi cittadini più rappresentativi. Ecco dunque che il lungo elenco dei candidati arrivò a comprendere la maggior parte, o forse tutti (chi poteva più dirlo? Le distinzioni si erano fatte tanto sottili!) i gruppi etnici, politici, religiosi ancora attivi nella piccola e tranquilla civiltà moderna, nata dalle turbolente ceneri della società industriale e post-industriale. Nello schema cosmico delle cose non contava più nulla il fatto che uno si considerasse un finlandese e un altro un turco, un tedesco o un inglese, un cinese o uno svedese, e neppure risultavano più applicabili le vecchie distinzioni razziali che tanti guai avevano portato al mondo intero, per non parlare delle distinzioni teologiche. Nulla di tutto questo contava più nel mondo del futuro. Tuttavia alcuni amavano ancora proclamare agli altri le loro origini o le loro convinzioni: “Io sono gallese”, oppure “Io seguo la chiesa cattolica romana”, e ancora “Nelle mie vene scorre il sangue dell’aristocrazia normanna”, e via dicendo. Le ragioni erano le stesse di sempre: convinzioni filosofiche, sentimentali, estetiche, attribuzione di qualche importanza alle proprie origini, gusto per l’anacronismo o per la rissosità… La gente li considerava bizzarri ed eccentrici, ma dava loro una certa importanza. La società umana aveva percorso molta strada, certo, ma le antiche vestigia delle grandi istituzioni del passato e le solenni distinzioni tra le antiche civiltà spuntavano ancora dappertutto, come ossa di grandi dinosauri slavate dal sole estivo. Avevano cessato di rappresentare dei “problemi”, questo sì, ma non accennavano a scomparire. E probabilmente non sarebbero mai scomparse. E quindi la lista dei candidati per la Wotan era quanto di più complicato ed eterogeneo si potesse concepire. Anche il gruppo finale lo sarebbe stato, per il semplice motivo che le formalità andavano seguite fino in fondo.
Gli esaminatori furono cinque, tutte personalità illustri, imparziali, e sedettero attorno a un grande tavolo all’ultimo piano del più alto grattacielo di Zurigo. Le grandi vetrate di questo grattacielo erano in grado, su richiesta, di offrire un panorama che spaziava fino in Francia. I candidati sedevano a questo tavolo e i cinque esaminatori chiedevano loro cose che già sapevano, ponendo domande sulle capacità tecniche, sullo stato di salute, sul lavoro, gli hobby, la stabilità psicologica e i motivi per cui il candidato desiderava dire addio per sempre al pianeta Terra. Si rendeva conto il candidato che avrebbe dovuto trascorrere un periodo indefinito (uno, cinque, dieci, cento anni) in uno spazio chiuso con altre quarantanove persone? La gente rispondeva, parlava, spiegava, e solo pochi si rendevano conto che i cinque esaminatori non ascoltavano affatto. Dopo quella prima raffica di domande arrivava la richiesta di elencare i propri difetti. Quelli che esitavano si vedevano proporre un elenco veritiero dei loro difetti più intimi, un elenco dannatamente lungo a volte, per poi essere spronati a commentare i cinque difetti peggiori. Complessivamente l’esame durava non più di venti, trenta minuti. Dopodiché al candidato veniva detto, senza mezzi termini, che purtroppo era stato rifiutato. Tutti dovettero udire le stesse parole, pronunciate con calma, pacatamente e senza segno di rimorso: — Lei non è idoneo alla missione. Siamo spiacenti per i disagi che le abbiamo procurato. — Era quello il vero esame: studiare le reazioni di ognuno davanti a un netto rifiuto. Tutto il resto era solo fumo negli occhi.
Quelli che passavano erano quelli che avevano rifiutato il rifiuto, ognuno a modo suo. L’arroganza, purché sana e motivata, fruttava molti punti. Il futuro comandante della spedizione aveva reagito dicendo: — State scherzando, naturalmente. Sono l’uomo che cercate, lo capirebbe chiunque. E non mi piacciono queste manovre da quattro soldi!
Heinz, svizzero e figlio di uno degli esaminatori, aveva reagito allo stesso modo, aggiungendo che il mondo non poteva permettersi di rifiutare un candidato ottimale e per quel motivo, ne era certo, la commissione avrebbe riconsiderato la sua posizione. Heinz aveva dato un notevole contributo alla progettazione della Wotan, e pochi conoscevano a fondo come lui la prima astronave interstellare umana. Pensavano davvero di poter lasciare a terra l’unico progettista presentatosi come candidato?
Huw, che in effetti si definiva con orgoglio “un gallese”, fu un altro a reagire affermando con calma e compostezza che la commissione stava commettendo un grosso errore. La sua squadra aveva progettato gli apparecchi che dovevano servire a esplorare i nuovi mondi: volevano negargli il diritto di vederli all’opera? E chi avrebbe modificato gli apparecchi se le condizioni ambientali di pianeti sconosciuti si fossero rivelate diverse dal previsto? No, lui doveva salirci per forza a bordo della Wotan.
E così via.
La maggior parte delle donne che si erano candidate cercò invece di aggiungere al proprio sconcerto un tocco di afflizione e dispiacere, in parte per se stesse ma soprattutto (e quella fu un’altra dimostrazione di arroganza costruttiva, anche se non perfettamente celata) per la missione in sé. Sylvia si vantò di conoscere la microchirurgia tectogenica meglio di chiunque altro al mondo. Senza le sue abilità, come potevano le future generazioni di nuovi coloni adattare alle loro necessità le condizioni ambientali di pianeti sconosciuti? Anche Giovanna fece notare che sarebbe stato un peccato privare la spedizione delle sue conoscenze di chimica metabolica, e in effetti c’era qualcosa di magico nella sua capacità di porre in relazione le strutture molecolari con le necessità nutrizionali. Invece Sieglinde, che aveva fornito un prezioso contributo nell’elaborazione di alcuni teoremi fondamentali per il calcolo delle leggi del viaggio nel non-spazio, si limitò a commentare che lei apparteneva a quella missione e quindi non poteva accettare alcun rifiuto.
Ciò che la commissione cercava, e che già sapeva di trovare in tutti coloro che erano stati scelti ancor prima che l’esame formale cominciasse, era l’espressione di un giustificabile senso di autostima temperato da una buona dose di filosofico realismo. Chiunque avesse perso il controllo, urlato, pianto, pregato, minacciato sarebbe stato inevitabilmente rifiutato. Ma nessuno lo fece, nessuno dei cinquanta prescelti.
Alla fine dell’intero processo, fu la volta di Noelle di presentarsi davanti agli esaminatori. Anche con lei si ripeté la solita commedia. La fecero parlare per un po’ per poi concludere con il solito verdetto: — Siamo spiacenti, ma lei non è adatta a un’impresa di questo tipo. — Noelle restò seduta per un attimo in silenzio, come per cercare di comprendere le strane parole appena udite, poi disse con il suo solito tono di voce flebile e pacato: — Forse preferite che vada mia sorella. — Era la risposta perfetta, o almeno così le dissero. Sua sorella, aggiunsero, aveva risposto esattamente la stessa cosa.
— Insomma, allora non volete mandare nessuna di noi due? — domandò Noelle vagamente confusa.
— Era solo per provare la sua reazione, signorina.
— Ah — disse lei. — Capisco. — E rise, rise come una sciocca, come faceva sempre quando usava quel verbo in particolare, mentre gli esaminatori, pur non sicuri del perché ridesse, ridevano con lei.
Alla fine dell’esame, Noelle chiese loro come avevano fatto a decidere quale sorella dovesse restare e quale dovesse partire.
— Abbiamo lanciato una moneta — fu la risposta.
Lei non riuscì mai a scoprire se fosse la verità.
Noelle dormiva un sonno pieno di sogni agitati. Si trovava a bordo di una nave, un antico tre alberi che lottava per non farsi travolgere da un gelido mare. Lei lo vedeva, lo vedeva! Il sartiame riluceva di grossi ghiaccioli, che di quando in quand.o si staccavano per il forte vento, schiantandosi sul ponte con suoni cristallini. Anche il ponte era coperto da una sottile crosta di ghiaccio, e attraversarlo costituiva un’impresa insidiosa. Grandi iceberg erosi dal vento fluttuavano maestosi nelle acque grigie, innalzandosi per superare le onde e ricadendo con un tonfo. Cozzare contro una di quelle montagne di ghiaccio significava la morte certa. Fino a quel momento erano stati fortunati, ma ormai qualcosa di molto più sottile minacciava l’esistenza di quanti si trovavano a bordo. Il mare stava gelando. Sembrava quasi coagularsi, diventare più vischioso, gonfiarsi lentamente. Grandi lastroni lucenti cavalcavano le onde, mentre nuovo ghiaccio si formava, frantumandosi subito dopo con un costante crepitio. I lastroni sembravano in guerra, intenti a distruggersi, a erodersi, a sminuzzarsi. Ma da quel marasma emergeva nuovo ghiaccio, più solido, più spesso e uniforme, chiaramente destinato a formare un unico, immenso pack gelato. E, una volta compiuta l’opera, per la nave non vi sarebbe stato più scampo. Quello era solo l’inizio, ma la nave aveva già sensibilmente rallentato. Le vele garrivano inutilmente, tendendo le corde oltremisura. Il vento traeva lugubri note dal sartiame gelato. Lo scafo gemeva come un vecchio malato per la presa sempre più forte del ghiaccio. Il fasciame stava cedendo. La fine era vicina. Nessuno poteva far nulla per loro. Sarebbero morti tutti, tutti! Noelle emerse dalla sua cabina e salì sul ponte, dove strinse forte la balaustra, ondeggiò, pregò e si chiese quando il vento gelido avrebbe stracciato la tela irrigidita delle vele. Nessuno poteva salvarli. Ma… sì, sì! Una luce comparve all’orizzonte. Yvonne, Yvonne! Sua sorella arrivò fluttuando a mezz’aria come una dea nel cielo nero pieno di stelle. Da lei si irradiava una luce calda e dorata. Il suo sorriso aveva il potere di sciogliere il ghiaccio. E subito questi allentò la morsa. L’aria si fece più calda. Le vele si gonfiarono al vento. La nave era libera, libera di proseguire la sua rotta verso i tropici, verso le terre delle perle e delle spezie.
— Secondo alcuni, il mondo finirà nel fuoco — disse Elizabeth. Nella sala comune, i discorsi di coloro che attendevano il loro turno di Go volgevano decisamente al catastrofico. — Secondo altri, la fine verrà col ghiaccio.
— Stai citando qualcuno? — volle sapere Huw.
— Come puoi dubitarne? — s’intromise Heinz con ironia. — Tutti sanno che Elizabeth adora citare qualcuno.
Elizabeth, una splendida donna dai capelli biondi e dalle gambe lunghe e affusolate era, tra le altre cose, la cronista e la poetessa ufficiale della spedizione. Oltre agli incarichi ufficiali, molti a bordo avevano un incarico speciale concepito più che altro per favorire lo scorrere del tempo. D’altro canto, possedere molteplici capacità era la norma. Ma l’interesse principale di Elizabeth era la poesia. — Secondo me sta citando Shakespeare — concluse Heinz.
— Oh no, troppo indietro! — intervenne Giovanna, alzando gli occhi dalla scacchiera. — Questi versi non hanno più di due, tre secoli al massimo. Era un americano?
— Era Frost — replicò Elizabeth. — Robert Frost.
— Cos’è, una marca di gelati? — domandò una voce anonima.
— No, è il nome di un poeta — ribatté qualcuno.
— Da ciò che provai del desiderio — riprese Elizabeth, stavolta recitando apertamente — io sto con coloro che credono alle fiamme.
Il comandante entrò nella sala comune proprio in quel momento. — E lei, comandante, che ne pensa? — domandò Paco con il suo solito tono, libero quanto ironico. — Come andrà a finire l’umana avventura? Supernova? Superoceani? Supercaldo o superfreddo? Peste bubbonica? Siccità? Vulcani? Forza, dia il suo contributo.
— “Fimbulwinter” — replicò prontamente il comandante. — “Ragnarok” — Le due barbariche parole, ormai dimenticate, gli uscirono all’improvviso come dotate di volontà propria. I venti settentrionali della sua infanzia soffiarono per un istante nella sua mente con tutta la loro terribile forza, portando con loro l’immagine di un paesaggio boreale scintillante di brina nonostante la scarsa luce invernale.
— Il crepuscolo degli dei, certo — disse Elizabeth, rivolgendo al comandante uno smagliante sorriso di fulgido amore che lui, perso in ricordi polari, ignorò del tutto.
Molti occhi si puntarono su di lui. I suoi compagni di viaggio volevano saperne di più. Il comandante disse, sforzandosi al massimo per tradurre in parole gli ancestrali ricordi: — E venne il giorno in cui il sole si fece nero. Non più luce, non più calore, tre volte inverno senza il tepore dell’estate: questo è il “Fimbulwinter”, il grande inverno che preannuncia la fine del mondo. E ovunque nell’oscurità si accende la battaglia, e per avidità il fratello uccide il fratello, mentre il padre giace con la figlia e il fratello giace con la sorella: l’effimero regno di Gomorra.
Elizabeth annuì. Anche lei conosceva questi antichi poemi scaldici. Tra sé e sé, dondolando ritmicamente avanti e indietro, mormorò: — L’era dell’ascia, l’era della spada, quando gli scudi saranno squarciati. L’era del vento, l’era del lupo, quando il mondo è prossimo alla fine.
— Sì — disse il comandante, rabbrividendo per le travolgenti, antiche immagini che turbinavano nella sua mente. — Un grande lupo farà a pezzi il sole, e un altro lupo farà a pezzi la luna. Le stelle spariranno dai cieli. Gli alberi verranno sradicati, le montagne cadranno e tutti i vincoli e le catene verranno recisi. Il mare valicherà i suoi confini e il serpente di Midgard muoverà per strisciare sulla terra e vomitare il suo veleno nell’aria e nell’acqua, mentre il lupo Fenris spezzerà le sue catene e avanzerà con la grande bocca aperta, la mascella inferiore verso la Terra e la mascella superiore verso il cielo. Nulla nel mondo sarà più libero dalla paura. Perché questo è il giorno in cui anche gli dèi incontreranno il loro destino.
Il comandante cadde in silenzio, visualizzando nella sua mente l’ultima, titanica battaglia: Thor che uccideva il serpente, rimanendo però vittima del suo veleno; il grande lupo Fenris che divorava lo stesso Odino, trovando però la morte per mano di Vidar; il demoniaco Surtr, che cavalcava fuori dai confini del Muspelheim spargendo fuoco sulla Terra sino a farla bruciare tutta… ma il comandante decise di non aggiungere nulla. Per i suoi gusti, aveva occupato il centro della scena già fin troppo a lungo. Per giunta, una sorta di artica malinconia stava cominciando a prendere il suo spirito. Il fuoco, le tenebre, i lupi feroci e affamati che scorrazzavano sulla Terra in fiamme. La Terra dei suoi antenati Vichinghi, tanto lontana ormai, sospesa nel buio della notte e in perenne rotazione sul suo asse in qualche punto dello spazio dietro di loro: un puntino, un granello di sabbia. Nulla, e al contempo tutto.
Dopo qualche istante fu Elizabeth a riprendere il racconto.
— Furia di fumo e di fuoco, fiamme ribollenti. Il calore è tanto alto che sfiora i cieli stessi — disse, ma nonostante la sua mente fosse un affollato deposito di racconti e poesie, si accorse di non ricordare più la fine della storia.
— E dopo? — domandò Paco, muovendo entrambe le braccia per poi allargarle in modo plateale. Paco era un uomo di grande forza morale e personale, muscoloso e tarchiato, e qualsiasi gesto compisse finiva col rivelarsi molto più vigoroso di quanto lui non intendesse. — È finito? Il mondo brucia, tutti muoiono e basta? In quest’opera il sipario cala così, all’improvviso? Non posso crederci.
— Poi viene il momento della redenzione — spiegò il comandante con voce distante. — La rinascita. Il nuovo mondo che nasce dalle ceneri del vecchio.
Non ne era certo, in effetti. Molti dettagli delle storie che gli raccontava sua nonna si erano dissolti dopo tanti anni. Tuttavia doveva essere così. Ogni mito prevedeva la rinascita, senza riguardo per il luogo di provenienza. Il mondo veniva distrutto in modo che potesse rinascere fresco e puro. Altrimenti quelle storie non avrebbero avuto senso. E il crepuscolo degli dèi non poteva terminare con una notte senza fine e senza scopo. In quel caso, la vita nel suo complesso sarebbe stata ridotta all’esperienza di un singolo individuo: ognuno di noi è nato a suo tempo e ora vive, bene oppure no a seconda delle circostanze, per poi morire. Arrivederci e grazie, per noi finisce qui. Così non era, invece, poiché quello era il ciclo del singolo individuo: nuove vite avevano continuamente inizio a mano a mano che la nostra procedeva, nell’eterno ciclo della rinascita e del ritorno. Noi moriamo, certo, ma il mondo che ci circonda continua a vivere poiché alla morte fa sempre seguito nuova vita. E così andava per gli stessi pianeti. Prima o poi dovevano morire, ma nuovi mondi nascevano dalle spente ceneri dei vecchi, e quindi tutto continuava, vita senza fine, sempre una nuova alba oltre la notte che subentrava al giorno. La vera fine non poteva esistere. Non poteva.
— Sapete — disse Heinz con voce gentile. Heinz parlava sempre con voce gentile. — Per noi la Terra è già distrutta. Davvero. Perché noi non la rivedremo mai più. E quindi sta già diventando una specie di mito. In un certo qual modo era un mondo morente quando l’abbiamo lasciato, non è forse vero? E per quanto ci riguarda adesso è morto, e noi siamo la rinascita. Noi, gli ovuli e lo sperma che abbiamo nei congelatori.
— Se — replicò Paco. — Non scordiamoci il grande “se”.
Heinz rise. — Non c’è alcun grande “se”. L’universo è pieno di mondi abitabili, e noi li troveremo. Uno su un milione è tutto ciò di cui abbiamo bisogno.
In effetti Heinz, aveva ragione. Tutti concordavano. Il pianeta che avevano lasciato era essenzialmente morto, almeno per quanto riguardava gli esseri umani, nonostante qualche centinaio di milioni di persone continuasse a viverci. Aveva superato con successo le convulsioni del ventesimo e del ventunesimo secolo, la miriade di acute crisi demografiche, nazionalistiche e ambientali, per giungere infine in un’epoca tanto statica e spenta da risultare a malapena distinguibile dalla morte intellettuale. Perché lo sviluppo si era completamente arrestato, mentre la voglia di miglioramento aveva cessato di fare da motore alle attività umane. La Terra di quell’epoca era la dimora di gente sana, conservatrice, ricca e altamente civilizzata, che viveva una vita facile in una società garantita sostenuta da macchine intelligenti di ogni tipo. Tutti i problemi dell’essere umano erano stati risolti; tutti tranne uno, il più grave: il fatto che le soluzioni fossero diventate dei problemi. E così le linee di tendenza puntavano inevitabilmente verso il basso, verso la decadenza, l’estinzione. Nessuno poteva aspettarselo, in effetti. Nessuno scienziato, nessun politico aveva previsto che la fine del caos, della lotta per la vita portasse con sé anche la fine della società umana. Tuttavia stava accadendo. L’ultimo sussulto di vitalità erano loro, era la Wotan che avanzava a gonfie vele nelle immensità dello spazio, allontanandosi sempre più da casa a ogni battito del cuore.
Incredibile ironia, certo. Un vero e proprio scherzo cosmico. La società umana finalmente libera dalle guerre, dai conflitti di ogni tipo, dalle disuguaglianze, dalle malattie e dalle privazioni precipitava verso la sua fine in una spirale apparentemente irreversibile. Intanto i suoi componenti tenevano feste decadenti e annoiati cocktail-party in cui si parlava dell’inevitabile fine della società umana in cinque, seicento anni, un concetto che a nessuno importava di mettere in discussione, e quelle chiacchiere spingevano la maggior parte della gente a fermarsi e a pensare alle vicende del destino ultimo per… be’, non più di dieci, quindici minuti.
L’esplosiva crescita della popolazione registrata nei primi secoli dell’era industriale si era arrestata a tal punto che quasi nessun bambino nasceva più. Nonostante la gente vivesse più di cent’anni, almeno nella maggior parte dei casi, non vi era regione al mondo in cui la popolazione non fosse in rapido declino. D’altro canto, la nascita di un bambino era diventata un evento tanto insolito da cogliere le istituzioni impreparate in molti casi. Il ricambio generazionale era fermo. Le città erano diventate degli immensi, anonimi agglomerati di villette con piscina abitate da eserciti di pensionati senza bambini.
Tutti, naturalmente, si rendevano conto del problema, ma nessuno sembrava in grado di fare qualcosa. La calma, matura, comoda, emotivamente stabile popolazione di quell’epoca nutriva ben poco interesse per i figli, e solo gli esperimenti finanziati dalla collettività garantivano quel minimo di ricambio necessario, grazie a intere colonie di bambini concepiti in provetta e cresciuti ben lontano dal mondo degli adulti.
Ciò che la razza umana stava facendo, anche se nessuno osava proclamarlo apertamente, era spianale consapevolmente la strada alla propria estinzione. La maggior parte della gente lo sapeva, e lo trovava molto triste… ciononostante, chi si sarebbe mai sognalo di fare qualcosa semplicemente mettendo al mondo un figlio?
La Wotan rappresentò una risposta a quel problema. Tutto cominciò con la nascita di un movimento, il primo vero movimento di opinione in circa due secoli, che chiedeva di unire le risorse per ricreare la società umana su qualche lontano pianeta. Diverse decine di persone tra le più vive ed energiche della Terra, uomini e donne dai venti ai quarant’anni, sarebbero partite a bordo di un’astronave interstellare per fondare una colonia umana in un lontano sistema planetario. La speranza era che, grazie alle sfide di un nuovo ambiente primitivo e incontaminato, i coloni e i loro figli nati tra le stelle potessero catturare nuovamente quell’energia e quella voglia di lare che un tempo venivano definite le migliori caratteristiche della specie umana. E, una volta ritrovato il gusto dell’avventura, lo spirito pionieristico e quant’altro, i coloni o i loro figli e nipoti potessero tornare sulla Terra e trasmettere la loro voglia di vivere ai suoi stanchi abitanti.
Un progetto, una speranza. Nulla più.
Tradurre l’idea in realtà richiese molto lavoro, ma per fortuna c’era ancora abbastanza gente desiderosa di lanciarsi nell’impresa. L’astronave fu progettata, costruita e provata. Gli imprevisti si susseguirono uno dopo l’altro, mentre l’equipaggio veniva cercato ai quattro angoli del pianeta. E, alla fine, venne trovato. Il viaggio poteva cominciare, e presto cominciò. Un mondo abitabile andava localizzato. I perfezionatissimi strumenti di ricerca lavoravano a ciclo continuo, anche in quel momento.
E, una volta trovato il pianeta adatto, l’astronave sarebbe atterrata, fondando una piccola colonia che doveva sopravvivere e ampliarsi nonostante le difficoltà e le incognite del nuovo ambiente.
Già. Quello era il grande “se”.
— Aveva promesso di insegnarmi a giocare! — esclamò Noelle mettendo il broncio. Si trovavano di nuovo nella sala comune della Wotan, uno dei due centri della vita sociale di bordo: l’altro erano le terme. In quel momento si stavano giocando quattro partile con i soliti giocatori: Elliot e Sylvia, Roy e Paco, David e Heinz, Michael e Bruce.
Il comandante restò affascinato dall’improvviso broncio di Noelle, una cosa molto infantile, molto umana e graziosa. In quegli ultimi giorni, loro due avevano superato quell’attimo di tensione che tanto inaspettatamente aveva infiammato entrambi, riprendendo a lavorare in perfetta sintonia. Lui preparava i messaggi da trasmettere e lei li inviava a sua sorella sulla Terra, e presto dall’altro capo della linea mentale giungeva la replica: in genere si trattava delle solite cose, le notizie più interessanti, la politica, lo sport, le presunte novità delle arti e delle scienze, i saluti per questo o quel membro dell’equipaggio, gli auguri. Tutto molto leggero, amabile, vuoto, più o meno ciò che tutti si aspettavano dai benevoli, posati abitanti della Terra. E così sarebbe andata, pensò il comandante, fino a quando avrebbe funzionato il contatto mentale tra Noelle e Yvonne. Ma esisteva il rischio che un giorno le due gemelle non riuscissero più a trovarsi. In tal caso, il contatto in tempo reale tra la Terra e la Wotan sarebbe cessato per sempre. Inutile comunque preoccuparsene in quel momento, si disse; e in effetti era inutile preoccuparsene del tutto.
— Mi insegni a giocare, comandante — insistette lei. — Davvero voglio saper giocare come gli altri. So che posso imparare. Abbia fiducia in me.
— E va bene — si arrese il comandante. Dopotutto giocare a Go poteva essere positivo per lei, aiutarla a passare il tempo, distrarla e rilassarla. Noelle viveva una vita tanto rinchiusa, molto più della loro: si aggirava tutto il giorno in totale tranquillità per i soliti tre, quattro posti dell’astronave, del tutto priva di relazioni intime tranne quella con sua sorella Yvonne, distante sedici anni-luce e sempre più lontana a ogni momento che passava. Qualche distrazione non poteva farle che bene.
E quindi mosse verso i tavoli. Noelle sussultò per un attimo quando la mano del comandante le sfiorò il braccio, poi si rilassò e lasciò che lui la conducesse attraverso la stanza.
— Ecco, questa è una scacchiera di Go — spiegò il comandante, prendendole la mano per poi premerla dolcemente sulla scacchiera e portarla dapprima verso l’alto, poi verso i lati in modo da darle un’idea delle dimensioni e delle fattezze della tavola. — Ci sono diciannove linee orizzontali e diciannove linee verticali. Le pedine vengono giocate sulle intersezioni delle linee, non sui quadrati che formano le linee — chiarì, facendole percorrere le linee con il polpastrello dell’indice per farle capire lo schema di intersezione. Le linee erano stampate con uno spesso strato di inchiostro verde, ed evidentemente lei poteva distinguerne il leggero rilievo sulla tavola lucida. Infatti dopo qualche istante lui le lasciò la mano e lei continuò senza difficoltà a percorrere la trama delle linee.
— Sulla tavola ci sono nove punti, chiamati stelle — riprese lui dopo qualche istante. — Servono per orientarsi. — E di nuovo le prese l’indice per farle toccare ognuno dei nove punti. Anche quelli erano in leggero rilievo rispetto alla scacchiera solo per lo strato sottile di inchiostro verde, tuttavia era evidente che Noelle riusciva a trovarli come se fossero stati molto più sporgenti. Tutti i suoi sensi erano eccezionalmente acuti per compensare quello che le mancava. — Le linee verticali vengono numerate in questo senso, da uno a diciannove, e le linee orizzontali in quest’altro usando le lettere dell’alfabeto, dalla A alla T perché la I non viene utilizzata. In questo modo abbiamo delle coordinate per definire la posizione sulla scacchiera. Per esempio, questo è B10, questo D18, questo J4… riesce a seguirmi? — Posò l’indice di Noelle su ognuna delle posizioni appena nominate. Lei rispose con un cenno e un sorriso. Ciononostante il comandante non poté evitare di sentirsi vagamente ridicolo. Come poteva Noelle pretendere di memorizzare l’intera scacchiera? Era un’impresa impossibile. Ma Noelle continuò imperturbata a spostare la mano lungo i bordi della scacchiera, mormorando: — A, B, C, D…
Gli altri smisero di giocare. Tutti i presenti avevano occhi solo per loro. Lui le portò la mano verso le pedine, quelle nere di pietra levigata e quelle bianche simili a conchiglie. Poi le insegnò il modo più classico di posizionare le pedine, prendendole cioè tra due dita per poi posarle seccamente sull’intersezione prescelta. La mano di Noelle era lunga e affusolata, con la pelle estremamente liscia e fresca: fragile di aspetto, ma ferma e senza un tremito. — I giocatori più forti usano le pedine bianche. Il nero muove per primo. I giocatori sistemano le pedine a turno, una per volta, sulle intersezioni libere. Una volta piazzate, le pedine non si possono muovere, e quando vengono mangiate si tolgono dalla scacchiera.
— Capisco. E qual è l’obbiettivo del gioco?
— Controllare l’area più grande possibile con il minor numero di pedine. Si possono costruire dei muri, oppure si può circondare qualche pedina dell’avversario mentre questi cerca di circondare le tue. Il punteggio si calcola contando il numero di intersezioni vuote dentro la tua area, più il numero di pedine avversarie mangiate.
Lei ascoltava ogni cosa senza mai distogliere gli occhi da lui con intensa, esagerata attenzione, ancora più toccante in quanto pareva del tutto sprecata. Metodicamente il comandante le spiegò i fondamenti del gioco: la sistemazione delle pedine, la presa del territorio, la cattura delle pedine avversarie. Per farle capire meglio si aiutava con situazioni simulate, definendo ad alta voce la posizione delle pedine che sistemava. — Il nero tiene le intersezioni P12, Q12, R12, S12, T12. Mi segue? — Noelle rispose con un cenno di assenso. — Altre pedine nere sono su P11, P10, P9, Q8, R8, S8, T8. Ci siamo? — Un altro cenno di assenso. — I bianchi invece sono su… — In qualche modo lei era in grado di visualizzare la scacchiera; ripeteva gli schemi dopo di lui e poneva domande che rivelavano quanto velocemente afferrasse il gioco.
Lui si chiese perché fosse così sorpreso. Aveva sentito di ciechi che giocavano a scacchi, e anche molto bene: chiaramente erano in grado di memorizzare la scacchiera e di aggiornare la situazione a ogni mossa. Noelle doveva possedere lo stesso tipo di memoria ipertrofica. Tuttavia Go era ben diverso dagli scacchi. In una partita di scacchi il primo a muovere aveva a disposizione venticinque possibilità di apertura. Go invece presentava già all’inizio ben trecentosessantuno mosse possibili. Probabilmente una partita di Go aveva più possibilità di sviluppo di quanti fossero gli atomi nell’universo. La scacchiera degli scacchi aveva solo sessantaquattro caselle, sulle quali si schierava un numero di pezzi in costante calo, diminuendo e semplificando le opzioni a disposizione di ciascun giocatore a mano a mano che gli originali trentadue pezzi si riducevano a una manciata. Anche le pedine di Go calavano gradualmente a mano a mano che il gioco procedeva, ma la loro assenza rendeva più complessi gli schemi sulla scacchiera durante lo svolgimento della battaglia per la conquista del territorio.
Ciononostante, Noelle sembrò afferrare con facilità gli schemi chiave. In soli venti minuti si dimostrò in grado di elaborare delle semplici strategie. E senza alcun dubbio era in grado di fissare sullo schermo interiore della mente l’immagine della scacchiera. Nel descrivere le sue mosse il comandante sbagliò diverse volte a darle le coordinate, poiché non giocava da molto tempo e la scacchiera non era marcata con numeri e lettere. La prima volta lei lo guardò sorpresa. — N13? Non intendeva per caso N12? — Lo stesso accadde in seguito, quando lui sbagliò deliberatamente per metterla alla prova.
E infine lei disse: — Credo di aver capito. Vogliamo provare a giocare una partita?
Qualche ora dopo, nelle terme, Paco, Heinz ed Elizabeth discutevano della casta vita sessuale del comandante, uno dei loro argomenti preferiti fin dall’inizio del viaggio. La maggior parte delle relazioni amorose sviluppatesi a bordo, e ve n’erano parecchie, avevano luogo in totale libertà sia in senso figurato che letterale. Nessuna sorpresa: quella gente era il prodotto di un’epoca altamente civilizzata, quasi decadente. Molto poco era tabù per loro. Tuttavia il comandante, a differenza di tutti gli altri, era assolutamente chiuso riguardo la sua vita privata.
— Non va a letto con nessuno, e non cerca neppure di andarci — disse Paco. — Prima di unirsi alla missione era una sorta di monaco, lo sappiamo tutti. Viveva in una colonia di mistici dediti alla meditazione su in Scandinavia, vicino al Polo Nord. E dentro di sé è rimasto un monaco, non c’è niente da fare. Un uomo di ghiaccio, mentalmente e fisicamente. Basta guardarlo in faccia, quella faccia magra dalle labbra tese e sottili sotto la barba bionda sempre perfetta. Ma quello che mi colpisce di più sono i suoi occhi, azzurri come i riflessi di un ghiacciaio. Gli occhi sono lo specchio dell’anima, lo sapete?
— Sei tu che non sai una cosa — replicò Elizabeth. — Ghiaccio di fuori, focoso a letto.
— A te il fuoco non dispiace affatto, questo è vero — ribatté Paco beffardo. — Non credere che non ti ascolti quando reciti le tue poesie.
Arrossendo come una ragazzina, Elizabeth non trovò migliore risposta che fargli una boccaccia.
— A te il nostro comandante piace un sacco — incalzò Paco. — Vero o no, Lizzy?
Invece di rispondere, Elizabeth si voltò e afferrò un vicino idrante, irrorando Paco di spumeggiante acqua bollente. Più divertito che sorpreso, Paco grugnì e ululò come un tricheco in amore, alzandosi di scatto con un potente colpo di reni per poi lanciarsi verso di lei, afferrarla alla vita e trascinarla sott’acqua. Elizabeth si divincolò freneticamente per liberarsi della sua stretta, muovendo a casaccio le braccia sottili; poi agitò a mezz’aria le gambe lunghe e affusolate quando Paco, ridendo a più non posso, la sollevò a testa in giù per rigettarla in acqua. A quel punto Heinz, che era alto e magro, sempre sorridente e tanto glabro da sembrare scivoloso, saltò a sua volta nella vasca e spinse Paco sott’acqua con Lizzy, tenendoveli entrambi per qualche istante. Un marasma di spruzzi li avvolse tutti e tre formando un intrico incoerente di gambe e braccia, la nordica e sottile Elizabeth, il piccolo e robusto Paco e il teutonico, biondo Heinz. Dopodiché i tre risalirono insieme in superficie, ridendo, cercando affannosamente di respirare.
Paco, Heinz ed Elizabeth costituivano un trio inseparabile ormai da un mese e mezzo. Le linee di attrazione scorrevano fra di loro in ogni direzione, anche se non con forza uniforme: Elizabeth provava uguale attrazione per entrambi gli uomini, Heinz desiderava piacevolmente Elizabeth ma provava una fiera passione per Paco, mentre questi cercava continuamente Elizabeth per quella forte attrazione che esercita il sesso opposto ma, con sua grande sorpresa, era affascinato dalla sicurezza di Heinz e dalla sua onnivora sessualità. Fino a quel momento, la relazione si era dimostrata stabile su tutti e tre i lati ma, naturalmente, nessuno si aspettava che durasse in eterno. In effetti, il viaggio era appena cominciato. Rapporti di coppia e d’amicizia si sarebbero formati per poi sciogliersi e riformarsi in nuove configurazioni, ancora e ancora come accadeva sulla Terra. Ma vista la limitata scelta disponibile, cinquanta persone chiuse in un ambiente certamente confortevole ma per forza di cose ristretto, i rapporti di qualsiasi tipo si sarebbero sviluppati molto più rapidamente. Fino a quel momento, nessuna delle coppie che si era formata a bordo della Wotan era durata più di sei, sette settimane: loro tre stavano per stabilire un nuovo record.
Dopo l’incontro di lotta libera in acqua, i tre sedettero sul bordo della vasca continuando a ridere e scherzare. Il corpo magro e candido di Elizabeth era arrossato per la stretta di Paco. Aveva le lacrime agli occhi dal gran ridere, mentre i suoi piccoli seni si alzavano e si abbassavano inarrestabili. Tra una battuta e l’altra, Paco guardava la sua Lizzy con aria desiderosa e vagamente possessiva, mentre Heinz studiava gli altri due con l’espressione di chi avrebbe voluto stendere le sue braccia e stringerli a sé.
L’aria nella piccola, luminosa camera termale era calda e vaporosa. Un voluttuoso, abbondante torrente di acqua calda fluiva gorgogliando da una magnifica, classica testa di leone posta sulla parete di ceramica. Nessuno si preoccupava di risparmiare acqua sulla Wotan, poiché ogni goccia d’acqua veniva puntigliosamente depurata e riciclata: non solo l’acqua corrente e l’urina, ma lo stesso vapore contenuto nel respiro umano. Non una molecola del prezioso liquido andava perduta.
Le terme erano in stile prettamente romano, anche se per forza di cose molto piccole. La camera termale era elegantemente arredata, aveva pareti di ceramica decorata e conteneva tre vasche, una calda, una tiepida e una gelata. Una cosa per tutti i gusti, insomma. Vi si potevano bagnare dieci persone al massimo, anche se in pratica i diversi gruppi godevano di un certo grado di esclusività. Sulla camera termale si aprivano tre stanze dotate di porte: gran parte dell’attività erotica a bordo si svolgeva in quelle stanze.
Quando i tre furono di nuovo calmi, Elizabeth spiegò con voce seria: — Non nego di essere attratta da lui. Lo trovo un uomo molto interessante, e non solo per il suo aspetto ma anche per la sua mente… quella mente strana, misteriosa, velata ha su di me un fascino irresistibile.
— La mente di un mistico — ribatté Paco con aperta irritazione. — La mente di un monaco. Proprio così.
— Lui è stato un monaco, certo — ritorse Elizabeth. — Ma è stato anche un sacco di altre cose. Non puoi etichettarlo così in questa o quella categoria. E non credo che sia così ascetico come vuole apparire. Nel monastero di Lofoten non si pratica la castità totale!
— Oh no, ascetico non lo è di sicuro — intervenne Heinz. — Posso tranquillamente testimoniarlo.
Paco ed Elizabeth si voltarono guardandolo. — “Tu”? — chiesero all’unisono.
Heinz ridacchiò pigramente. — Già. Ma non è come pensate. Non è affatto il mio tipo, no. Troppo elusivo, troppo introverso. Tuttavia, posso vedere la passione che c’è in lui. Uno non deve andarci a letto per capire. Quell’uomo ribolle di passione. Ne è pieno. La irradia come il sole irradia la sua luce.
— Lo vedi? — disse Elizabeth a Paco. — Ghiaccio fuori, forse, ma fuoco dentro.
— E poi — continuò Heinz — sono praticamente certo che ogni tanto si vede con qualcuno.
— Chi? — domandò immediatamente Elizabeth.
Un’altra pigra risatina. — Ne so quanto voi, ragazzi, e cioè zero. Non vorrete certo che mi metta a spiarlo. So solo che si aggira sull’astronave furtivo come un gatto e che conosce ogni angolo di questi dannati corridoi come e anche meglio dell’uomo che li ha progettati. E, siccome non posso credere che un uomo tanto forte e virile non si dia ogni tanto da fare, ritengo che si veda con qualcuno in qualche angolo nascosto. Naturalmente perché la cosa funzioni anche la sua partner, o forse il suo partner, deve mantenere un assoluto riserbo su tutta la faccenda. Secondo me è così che vanno le cose.
— Spero che tu abbia ragione — dichiarò Elizabeth, obbligandosi a un ampio, lascivo sorriso poco in sintonia con l’austero e squadrato profilo del suo volto. — E quando si sarà stancato di questo qualcuno, chiunque sia, io sarò felice di offrirmi volontaria come sua prossima playmate.
— Tanto lui non ti vuole — dichiarò Paco con convinzione.
Elizabeth liquidò quel convinto rigetto delle sue fantasie con uno sprezzante gesto della mano. — Oh, non credo proprio che tu possa esserne tanto sicuro.
— Ah, certo che ne sono sicuro — replicò Paco. — È così ovvio! Continui a mandargli segnali, gli sorridi, lo guardi e lo riguardi come un’adolescente innamorata e cosa ottieni in cambio? Nulla. Lo zero più assoluto. Non voglio stroncare i tuoi sentimenti, Lizzy. Lo sai che ci sono un sacco di uomini a bordo che ti trovano molto attraente. Lui però non è uno di loro — concluse. Elizabeth lo guardava fisso con grandi occhi da cui traspariva sofferenza, ma Paco non aveva alcuna intenzione di tacere. — Non c’è… come dire? Non c’è sintonia fra te e il comandante. Oppure lui è un maestro nel nascondere i suoi sentimenti: chi può saperlo con un uomo che un tempo faceva l’attore? Tuttavia, la mia impressione è che non gli interessi molto, amore mio. Probabilmente non sei il suo tipo, o chissà cosa. Proprio come lui non è il tipo di Heinz. Non c’è spiegazione per queste cose, lo sai.
Heinz convenne tristemente: — Credo che Paco abbia ragione, ma secondo me non ha centrato esattamente il problema.
— Davvero?
— Tu puoi essere o non essere il tipo del comandante. Chi può saperlo? Ho già detto che si è trovato qualcuno per fare un po’ di sesso di quando in quando, e se sapessimo chi è potremmo almeno avere un’idea dei suoi gusti. Tuttavia, il problema va ben oltre la scelta del partner del momento. Qualunque cosa faccia, i suoi pensieri sono focalizzati altrove. E stavolta la faccenda è troppo complicata perché tu possa farci qualcosa, mia dolce Lizzy. Il comandante è innamorato, non lo avete ancora capito? Non sto parlando di sesso, ma di amore. E per giunta di un amore impossibile da consumare.
— Ma certo, hai ragione. Si è innamorato di se stesso — commentò ironicamente Paco.
— Paco, certe volte sei così stupido! — esclamò Elizabeth di getto, per poi guardare Heinz. — Ma di che stai parlando? Di chi credi sia innamorato?
— Di colei che è intoccabile per eccellenza, colei che vaga nelle nostre vite, e forse nelle nostre menti, come un’entità aliena proveniente da una diversa sfera di esistenza. La ragazza cieca, ecco l’impossibile amore del nostro comandante. Glielo si legge in faccia non appena la vede: Noelle, amor mio! Solo che ha paura di aprirsi con lei e questo lo fa soffrire terribilmente. Agonia d’amore. Accidenti, non ditemi che non ve ne siete mai resi conto!