7

— Ho un’idea divertente — disse Sieglinde, e tutti la guardarono perché Sieglinde non era certo famosa per le idee divertenti. Né c’era qualcosa di divertente nella voce tesa e sottile con cui aveva parlato. Ma da un po’ di tempo ormai rimuginava su qualcosa, e adesso era evidentemente giunto il momento di tirarla fuori. — E se per qualche motivo non riuscissimo più a uscire dal non-spazio? — chiese. — Che facciamo se non possiamo raggiungere questo pianeta A o qualsiasi altra destinazione nello spazio reale? Come contiamo di risolvere la faccenda? Abbiamo un piano di emergenza per questi casi?

Si trovavano alla prima riunione intensiva del gruppo che doveva pianificare il cambio di rotta. L’incontro si teneva nella sala comandi. I lettori digitali incastonati nella parete ricurva brillavano intorno a loro, soffici emanazioni di luci pulsanti color ametista, ambra e giada. Sieglinde, Roy, Heinz, Paco, Julia e il comandante discutevano ormai da due ore, e tutti si sentivano stanchi e molto nervosi.

— La faccenda la risolveremo così — replicò Paco. — Cercheremo un pianeta idoneo da qualche parte nel non-spazio e ci sistemeremo lì. Ecco il nostro piano di emergenza.

Roy gli lanciò un’occhiata fulminante. — Questa è la cosa più assurda che abbia mai sentito. Non ci possono essere pianeti nel non-spazio. La tua è solamente una battuta illogica e del tutto fuori luogo, e…

Sorridendo come sempre, pur se tradiva una controllata irritazione, Heinz si rivolse a Sieglinde e disse: — Che razza di problema sta tirando fuori? Siamo qui per discutere una missione esplorativa nello spazio reale e lei si mette a creare dei problemi del tutto immaginari. Il propulsore stellare è progettato per secoli di funzionamento. Non fallirà.

— E se invece fallisse?

— Heinz ha ragione — intervenne stancamente il comandante. — Non fallirà. Non può fallire, ecco tutto. Può contarci.

— Io non conto proprio su nulla — replicò raucamente Sieglinde, con un tocco di drammatico-scherzoso nella voce. Forse cercava di suonare divertente. Tuttavia i suoi occhi erano stranamente brillanti. Sembrava preda di un umore negativo che non voleva allentare la presa. — Tutto può accadere. Qui abbiamo a che fare con fenomeni di immensa portata e non conosciamo neppure a fondo la nostra strumentazione. Lavoriamo con procedimenti stocastici. Insomma, capite ciò che intendo? Ogni passaggio tra lo spazio e il non-spazio ci mette per un attimo alla mercé del destino. La bilancia pende sempre in nostro favore, naturalmente, ma a ogni passaggio il rischio di un evento incontrollato si ripete. Lo prevedono persino le equazioni: il fattore casuale, la probabilità fatale. Più spesso passiamo da un piano di spazio all’altro e più ci esponiamo alla piccola ma reale possibilità di disintegrarci. Senza contare la possibilità di finire da qualche altra parte, per esempio un altro tipo di non-spazio, invece che nello spazio normale. Perché non considerare anche questa ipotesi?

— È un’ipotesi molto poco probabile — replicò Heinz. — I numeri sono dalla nostra parte, l’ha detto lei.

— Poco probabile ma pur sempre possibile. Insomma, io dico solo che è una probabilità, e quando una probabilità può mettere a repentaglio la tua vita io dico che bisogna considerarla. Lei è un ingegnere, Heinz, e in quanto tale è abituato a trattare con ciò che vede, con i concetti assoluti di possibile e impossibile. Io sono un matematico, e quindi lascio un po’ più spazio alla fantasia nel mio lavoro. Anch’io ho a che fare con assiomi e con certezze, ma tengo sempre in mente che sotto gli assiomi vi è una premessa, e sotto la premessa il caos.

— Se non può neppure contare sulle sue equazioni, si affidi a ciò che vuole — intervenne nervosamente il comandante. — Firmando i documenti di imbarco, tutti noi abbiamo accettato di compiere un salto nel buio. Se lei non era convinta che il propulsore stellare funzionasse, avrebbe fatto meglio a restare a casa.

— Dico solo che esiste una possibilità su un milione che qualcosa vada storto.

— E allora?

— E allora, come ho appena detto, più cambiamo piano di spazio e più corriamo il rischio che uno dei passaggi vada storto. Ecco perché dobbiamo correre questo rischio solo quando è assolutamente necessario. In altre parole, dovremo rientrare nello spazio normale solo quando saremo ragionevolmente certi che il pianeta prescelto sia un buon posto per vivere, perché il rischio insito nel passaggio da uno stato della realtà a un altro è tanto alto che dovremo spingerci a correrlo solo quando ne varrà davvero la pena.

Stranamente tranquillo e pensieroso, Paco disse: — Sapete, secondo me Sieglinde non ha tutti i torti. Quante sono le possibilità che un pianeta di massa pari a quella terrestre offra delle condizioni adatte alla vita? Diciamo per semplicità una su cento. In tal caso, potremmo ritrovarci a passare da un piano di spazio all’altro per cento volte prima di trovare qualcosa per cui ne sia valsa la pena. Potrebbero essere anche di più, cinquecento, mille… comunque il rischio viene moltiplicato enormemente, se ho seguito correttamente Sieglinde. Se davvero esiste anche solo una possibilità che il propulsore possa guastarsi, dovremo studiare bene ogni pianeta prima di compiere il balzo.

A questo punto Julia, l’effettiva responsabile del propulsore stellare, disse con irritazione: — Questa è una discussione basata su un’ipotesi stupida, e noi non dovremmo mai basarci su ipotesi stupide. Tutto questo discorso non c’entra assolutamente nulla con il motivo per cui siamo qui. C’è stata una votazione, e l’equipaggio ha accettato di andare a dare un’occhiata al pianeta A perché abbiamo buone ragioni di credere che sia ciò che cerchiamo, almeno per quanto possiamo stabilire da qui. Questo chiude il discorso. Per quanto riguarda la possibilità di un guasto al propulsore stellare, Heinz ha ragione: Sieglinde sta creando dei problemi inesistenti. Quando decideremo di passare dal non-spazio allo spazio normale, il propulsore farà esattamente ciò per cui è programmato. E anche se a livello matematico ogni passaggio comporta una piccola percentuale di rischio, abbiamo già deciso di raggiungere il pianeta A. Il nostro compito, adesso, è trovare il modo migliore per farlo, non discutere ipotetici scenari da incubo.

— Già, questa discussione è basata sul niente — ribadì Heinz. Tuttavia è vero che siamo inquieti. Viviamo da mesi in questo ambiente ristretto e pensiamo troppo. E quando si pensa troppo, è facile scivolare nelle ipotesi più assurde. Basta parlare di guasti al propulsore, Sieglinde. Non troveremo mai un pianeta su cui vivere, se la possibilità che qualcosa vada storto ci spaventa al punto da impedirci di effettuare anche solo una missione esplorativa. Tutto questo si sapeva già al momento della partenza. Perché saltar fuori adesso con questo argomento? Se qualcuno avesse avanzato la stessa obiezione mentre lei cercava di andare avanti col suo lavoro, Sieglinde, scommetto che l’avrebbe mandato fuori dal suo laboratorio a calci — concluse Heinz senza più sorridere. Poi rivolgendosi al comandante disse: — La convinca a lasciar perdere, per favore, e aggiorniamo la riunione.

— Che ne dice, Sieglinde? — chiese il comandante. — Vuol lasciar cadere l’argomento?

Sieglinde si strinse nelle spalle. L’energia depressiva sembrava averla abbandonata improvvisamente com’era venuta. Il problema che le ronzava in testa era stato esposto, e non valeva la pena continuare a discutere. Aveva un’aria stanca e sconfitta e, con gran sollievo del comandante, sembrava pronta quanto gli altri a chiudere in quel modo la faccenda. Il punto da lei sollevato era maledettamente serio ma, come Heinz aveva fatto notare, quello non era il momento di discuterlo. E quindi, con voce quantomai piatta, Sieglinde acconsentì: — Come desidera lei, comandante. Come tutti voi desiderate.


In assenza di una specifica destinazione, l’astronave aveva seguito, fino a quel momento, una rotta generica attraverso il tunnel di non-spazio, limitandosi ad allontanarsi dalla Terra piuttosto che ad avvicinarsi a una specifica stella. La rotta che ancora manteneva l’avrebbe portata in una delle aree più dense di stelle e pianeti dei settori della galassia vicini alla Terra. Tuttavia, secondo i piani originari, i viaggiatori a un certo punto dovevano reindirizzare l’astronave per raggiungere una stella da loro scelta sulla base dei dati planetari raccolti nel corso del viaggio.

Ora quel momento era giunto. La Wotan doveva avvicinarsi alla stella primaria del pianeta A senza abbandonare il tunnel di non-spazio e, una volta raggiunto quel settore, doveva abbandonare il non-spazio per tornare nel continuum einsteniano, in modo da studiare il pianeta A con più accuratezza. Ciò significava entrare in orbita attorno al pianeta, inviare sonde, studiare le caratteristiche superficiali e pianificare un eventuale sbarco umano, se i risultati delle ricerche fossero stati in qualche modo incoraggianti.

Viaggiare nel non-spazio costituiva essenzialmente un fenomeno non lineare. Nell’universo einsteniano compiere un viaggio di tremila chilometri, per esempio tra Los Angeles e Montreal, significava coprire una distanza, e solo quella distanza, in senso lineare, mentre il tempo impiegato per viaggiare era una funzione del tempo medio impiegato per coprire un chilometro moltiplicato per tremila. Non vi erano scorciatoie, e nessuna eccezione al fatto che bisognava viaggiare per una distanza di tremila chilometri per spostarsi da una località all’altra. Nel non-spazio, invece, non era così. Le misure lineari applicate nel continuum classico non avevano alcun significato, così come le relazioni spaziali tra punti diversi dell’universo determinate con i sistemi tradizionali. Il non-spazio era una dimensione composta esclusivamente di “scorciatoie”. Lo spazio era appiattito, curvato, raddoppiato ancora e ancora e piegato su se stesso, e pertanto la logica de! viaggio lineare era inutile e i paradossi abbondavano. Le dimensioni erano collassate e trasformate; l’universo infinito era infinitamente adiacente a se stesso; concetti come “vicino”, “lontano”, “qui”, “là” andavano completamente eliminati. Nel non-spazio poteva risultare più rapido un viaggio tra due stelle distanti cinquanta anni-luce che tra due stelle distanti solo un anno-luce. Questo almeno era il risultato delle prime ricerche pratiche: non esisteva una relazione chiara e sempre valida tra la distanza effettiva di due punti nell’universo reale e il tempo impiegato per percorrere questa distanza nel non-spazio.

In ogni caso, anche nel non-spazio esistevano prossimità ed equivalenti. Con l’aiuto di un potente calcolatore e di programmi adeguati, si poteva tracciare una serie di trasformazioni che avrebbero trasportato un corpo fisico nel non-spazio lungo linee direttrici quasi geodetiche, linee che corrispondevano a vettori effettivi dello spazio einsteniano e che consentivano di raggiungere il settore di galassia prescelto. Così, almeno, dimostravano le equazioni che governavano il viaggio nel non-spazio, e nei viaggi sperimentali della Columbus e della Ultima Thule tali equazioni si erano dimostrate valide.

La Columbus aveva coperto una distanza leggermente inferiore a un anno-luce in undici giorni terrestri. Una volta giunta a destinazione, era rientrata nello spazio einsteniano per compiere le necessarie rilevazioni, misurando tra l’altro con massima precisione la distanza percorsa, per poi rientrare nel non-spazio senza difficoltà e tornare a casa nello stesso periodo di tempo. L’Ultima Thule, lanciata in una direzione diversa, si ritrovò a più di un anno-luce dalla Terra in soli nove giorni, e anch’essa poté uscire senza problemi dal non-spazio, rientrarvi e tornare sulla Terra seguendo la stessa rotta. E pertanto, nonostante l’improvviso e volontario scetticismo di Sieglinde, il comandante preferiva pensare che anche la Wotan sarebbe stata in grado di uscire e rientrare dal non-spazio senza difficoltà, così come di cambiare la rotta seguita fino a quel momento, per puntare sulla posizione einsteniana della stella attorno a cui orbitava il pianeta di loro interesse. Sapeva bene che le obiezioni di Sieglinde avevano qualche fondamento, perché il passaggio tra i due piani di spazio comportava qualche rischio, e più passavano dall’uno all’altro più mettevano a repentaglio la sicurezza dell’astronave e le loro vite. Tuttavia, dovevano trovare un nuovo pianeta su cui vivere, e questo comportava qualche inevitabile rischio. Sieglinde aveva ragione, ma doveva svegliarsi prima. Ecco perché non provava alcun rimorso per aver liquidato in quel modo le sue obiezioni al primo ritorno all’universo normale.

Ex officio, il comandante coordinava la squadra che avrebbe calcolato ed effettuato le necessarie manovre. A livello pratico, però, non sapeva nulla di quelle cose. Il vero lavoro lo avrebbe svolto la squadra: Roy e Sieglinde curavano gli aspetti matematici, Paco era l’ufficiale di rotta, Julia programmava e seguiva il propulsore interstellare, Heinz, uno dei progettisti dell’astronave, supervisionava e rivedeva il lavoro degli altri: era lui il vero comandante di questa operazione, l’interfaccia tra le varie persone e tra loro e le macchine, il punto di riferimento per tutti.

La prima riunione del gruppo, a carattere esclusivamente preliminare, stava per concludersi. Hesper vi aveva partecipato solo all’inizio, per spiegare agli altri la posizione effettiva del pianeta A nello spazio normale, calcolata sull’insieme di correlazioni da lui elaborate. Una volta uscito Hesper, gli altri consultarono a lungo le mappe celesti a loro disposizione e i circuiti di navigazione dell’astronave. Ma erano necessari altro tempo e altro impegno prima di effettuare il cambiamento di rotta vero e proprio. In effetti, il computer di bordo possedeva, almeno in teoria, le capacità e il controllo necessari per portarli fino a destinazione; tuttavia le sue capacità, per quanto ampie, avevano dei limiti come quelle dei suoi costruttori. Neppure il computer di bordo poteva interpretare con assoluta precisione delle istruzioni confuse. Ecco dunque che dovevano stabilire con assoluta precisione i passi necessari e le coordinate da raggiungere, prima di lasciare il controllo al computer. Nuovo lavoro li attendeva in futuro, quindi. E poi potevano solo pregare. Ma chi? E con quali speranze che le loro preghiere venissero effettivamente ascoltate?

Lo sfogo di Sieglinde convinse il comandante che la riunione era durata abbastanza. Trattenne gli altri ancora qualche minuto per riassumere il lavoro svolto e stabilire gli argomenti della riunione successiva, e poi lasciò tutti liberi di andare.

Sieglinde fu la prima ad alzarsi, una frazione di secondo dopo il termine della riunione. Senza pronunciar parola, attraversò la stanza a grandi passi, i passi marziali delle valchirie, infilò la porta e se ne andò. Portava un nome sbagliato, si disse il comandante: avrebbero dovuto chiamarla Brunilde, non Sieglinde. Paco e Roy si avviarono con molta calma dietro di lei, ridendo e scherzando, diretti con tutta probabilità alla loro milionesima partita di Go. Julia seguì poco dopo.

Solo Heinz rimase nella stanza, in piedi davanti al comandante. Oscillò un poco avanti e indietro sui talloni, poi chiese: — È preoccupato?

Il comandante alzò lo sguardo: — Per cosa?

— Per l’ipotesi di Sieglinde, il malfunzionamento del propulsore.

— Assolutamente no. Perché dovrei esserlo?

Heinz sorrise stranamente, come se quel sorriso ne nascondesse un altro. — Quel propulsore ci porterà da un capo all’altro della galassia e mille volte dentro e fuori dal non-spazio senza darci il minimo problema. Posso garantirlo, comandante.

I loro occhi s’incontrarono per un attimo quando il comandante scrutò a fondo l’espressione del suo interlocutore. Era sempre difficile stabilire se Heinz mentisse o meno. Aveva gli occhi azzurri come i suoi, ma con un’espressione molto più gioiosa e una sfumatura diversa, un caldo azzurro cielo per nulla simile al fiero blu ghiaccio degli occhi del comandante. Entrambi gli uomini avevano capelli biondi, ma di nuovo con tonalità diverse: ai capelli fluenti e luminosi di Heinz, dorati con sfumature rosse, si contrapponevano gli scarsi e rigidi capelli del comandante, più argentei che biondi non per l’età ma per naturale assenza di pigmento. Anche in altre cose i due erano vagamente simili e tuttavia profondamente diversi. Per quanto riguardava i rapporti tra loro, il comandante non considerava Heinz un amico nel vero e proprio senso della parola; anzi, se un giorno avesse provato il desiderio di cercare degli amici a bordo, una cosa per lui enormemente complicata, Heinz non ne avrebbe certamente fatto parte. Tuttavia provava stima per quell’uomo, e una buona dose di rispetto.

Dopo un lungo minuto di silenzio, il comandante chiese: — Voleva dirmi qualcosa, Heinz?

— Sì, avevo una domanda da farle, comandante.

— Forza allora.

— Ultimamente mi sono chiesto se c’è qualche problema con Noelle.

Il comandante fece di tutto per non mostrare il minimo cambiamento di espressione. — Problema di che genere?

— Mi è parsa molto tesa in diverse occasioni, insolitamente preoccupata.

— Noelle è una persona complessa in una situazione complessa.

— Il che è vero per ognuno di noi — replicò Heinz con disinvoltura. — Ciononostante, Noelle sembra diversa, ultimamente. Pareva sempre così serena… quasi una santa, se mi concede questa definizione. Be’, questa serenità è andata perduta. Da quando ha cominciato a giocare a Go con noi non è più la stessa. Il suo volto è sempre molto tirato, adesso, e i suoi movimenti troppo nervosi. Gioca a Go con un’intensità tanto strana e indescrivibile da lasciarci tutti perplessi. E fa di tutto per vincere.

— Il fatto che vinca la mette a disagio?

— Mi mette a disagio il fanatismo che mostra. Anche Roy vinceva sempre, ma lui giocava tanto bene da vincere praticamente senza sforzo. Noelle gioca a Go come se fosse questione di vita o di morte.

— Forse per lei lo è — ribatté il comandante.

La sensazione che il comandante cercasse in ogni modo di sfuggire a quella conversazione infastidì parecchio Heinz. Quelle ripetizioni, quelle chiusure, rappresentavano il tipico modo di rispondere del comandante e nessuno vi faceva più caso, ormai. E comunque non avevano mai infastidito Heinz più di tanto fino a quel momento.

— Insomma, comandante — concluse Heinz — secondo me Noelle è molto vicina al punto di rottura. Non ho idea dei motivi, ma credo che sia importante richiamare la sua attenzione in proposito.

— Bene. La ringrazio.

— Noelle è sottoposta a una tensione maggiore del resto dell’equipaggio. Non vorrei vederla precipitare in qualche tipo di crisi.

— Neppure io, Heinz. Glielo assicuro.

Seguì un attimo di silenzio imbarazzato. Finalmente, Heinz disse: — Se fosse possibile scoprire cosa la infastidisce tanto e confortarla in qualche modo…

— Apprezzo molto i suoi riguardi — replicò con durezza il comandante. — La prego di credermi quando affermo di considerare Noelle uno dei membri più importanti della spedizione. Sto facendo tutto ciò che posso per preservarne la stabilità psichica,

— Tutto ciò che può?

— Tutto ciò che posso — ripeté il comandante con un tono che chiudeva inequivocabilmente la conversazione.


Noelle sognava di vedere. Una grande luce l’avvolse completamente, fenomenali cascate di brillante chiarore, poi lei aprì gli occhi, si mise a sedere, si guardò intorno con timore e meraviglia e cominciò a dire a se stessa: “Questo è un tavolo, questa una sedia, queste le mie statuette e quello dev’essere il mio riccio di mare”. Contemplò ogni cosa, stupita della sua bellezza. Infine si alzò e mosse in avanti, brancolando e incespicando sulle prime, per poi guadagnare magicamente equilibrio e contegno a mano a mano che imparava a camminare in quel nuovo modo, a valutare la posizione delle cose non tramite echi e correnti d’aria ma grazie semplicemente al miracoloso uso della vista. Una ridda di pensieri le affollò la mente. Camminò nella sua cabina prendendo in mano diversi oggetti, strofinandoli, collegando la loro forma all’aspetto e il modo familiare con cui sentiva gli oggetti alle loro caratteristiche, ora percepibili grazie a quel nuovo senso miracolosamente ritornato. Poi lasciò la sua cabina e si addentrò nei corridoi, scoprendo i volti dei suoi compagni di viaggio. Intuitivamente capì subito chi erano. “Lei dev’essere Roy, lei Sylvia, lei Heinz e lei il comandante.” Il loro aspetto era, con sua sorpresa, molto simile a quello che aveva immaginato. Roy robusto e rubicondo, Sylvia fragile e sottile, il comandante magro e fiero, Heinz bello e sempre sorridente, e così via con Elliot, Marcus, Chang, Julia, Hesper, Giovanna e gli altri, tutti mollo simili a ciò che si aspettava. Tutti bellissimi. Poi si avvicinò alla vetrata di cui tutti parlavano, quella che mostrava il non-spazio, e guardò fuori, immergendosi in quel celebrato grigiore. Sì, sì, la scena che vedeva attraverso la vetrata era precisamente come la descrivevano: un cosmo di meraviglie, un miracolo composto di complesse e pulsanti sfumature, livello dopo livello di incandescenti riverberi in rapido allontanamento verso il margine di quell’universo senza limiti. Non c’era nulla da vedere, e al contempo c’era tutto. Per circa un’ora contemplò, totalmente concentrata, quel marasma di energia increspata, dandoglisi completamente e assorbendolo dentro di sé. E poi, proprio mentre il momento culminante dell’illuminazione tanto cercata in quell’ultima ora stava per venire a lei, si accorse che qualcosa non andava. Yvonne non era lì. Noelle la cercò con la mente, ma non la trovò. Provò di nuovo, ma nulla da fare. Nessun contatto. Non riusciva a trovarla. In quel momento, comprese di aver rinunciato ai suoi eccezionali poteri telepatici in cambio del dono della vista.

“Yvonne! Yvonne!”

Tutto taceva. Dov’era Yvonne?

Yvonne non era lì con lei. “Questo è solo un sogno” si disse a quel punto Noelle “un sogno da cui presto mi sveglierò.” Ma non riuscì a svegliarsi. Un’ondata di terrore la travolse, spingendola a urlare a pieni polmoni. E finalmente udì una voce lontana. “Va tutto bene” sussurrò Yvonne attraverso le immensità dello spazio e del tempo. “Sono qui, tesoro, sono qui come sempre” la rassicurò la voce calda di sua sorella, proveniente dal grande vortice delle stelle invisibili. Sì, tutto andava bene. Noelle avvertì di nuovo la familiare vicinanza. Yvonne era lì, proprio accanto a lei. Tremando, Noelle l’abbracciò con affetto. Poi aprì gli occhi e per la prima volta la osservò.

“Posso vedere, Yvonne! Posso vedere!”

Solo in quel momento, Noelle si accorse di non essersi neppure guardata allo specchio. In preda a una frenetica eccitazione aveva vagato ovunque nell’astronave, osservando qualunque cosa le capitasse davanti Era vero che gli specchi non avevano mai fatto parte della sua vita, ma adesso guardava Yvonne (che equivaleva, a grandi linee, a guardare se stessa) e per la prima volta notò la sua bellezza, i suoi lunghi e morbidi capelli neri, i dolci lineamenti del viso, la pelle vellutata, i grandi occhi un tempo ciechi che brillavano di gioia e di consapevolezza. Noelle rivelò a Yvonne quanto era bella e Yvonne sorrise e annuì, e poi entrambe risero e si abbracciarono, quindi piansero di piacere e d’amore per la semplice gioia di riuscire a vedersi e poi… e poi Noelle si svegliò, e il mondo attorno a lei tornò buio come sempre.


Finalmente, Heinz uscì. “Finalmente.”

Nel monastero di Lofoten il comandante aveva appreso diversi esercizi, discipline spirituali tese a recuperare e a mantenere la tranquillità interiore. In quel colloquio li aveva usati tutti e poi, controllando il respiro e svuotando la mente, li ripassò ancora a uno a uno. E quando arrivò al termine dell’ultimo, li ripassò una terza volta.

Il colloquio con Heinz era parso interminabile e profondamente imbarazzante, e gli aveva lasciato un senso di profonda irritazione; tutta l’irritazione consentita al comandante dalla sua natura fondamentalmente controllata. Forse Heinz credeva che lui avesse mancato di notare lo stato di Noelle? Credeva che non gliene importasse un accidente? Heinz non sapeva nulla, o almeno così sembrava, delle recenti difficoltà di contatto tra le due sorelle. Non poteva e non doveva saperlo, perché occuparsene non era compito suo. Lui però sapeva; lui era conscio dell’esistenza di un problema; lui non aveva bisogno dell’assistenza di Heinz per sapere che un importante membro dell’equipaggio stava attraversando un momento difficile. E in ogni caso, cosa doveva farci lui, secondo Heinz? Aveva forse dei consigli da dargli per risolvere la situazione? Con quel suo scaltro, dannato sorriso, Heinz sembrava sempre sottintendere di avere qualcos’altro da dire, qualcosa di molto interessante che però veniva taciuto perché a lui non importava renderti partecipe del segreto. Sicuramente, la maggior parte delle volte quel sorriso tanto enigmatico non nascondeva nulla di importante. Ma era poi sempre vero?

Il comandante si chiese se tutti loro, uno per uno, non stessero subendo qualche folle trasformazione in peggio. Noelle stava perdendo la capacità di comunicare con sua sorella sulla Terra; la concreta e posata Sieglinde metteva gratuitamente in dubbio l’affidabilità dei teoremi elaborati con il suo contributo; l’allegro e sempre attivo Heinz rimandava le sue attività per spiegargli con seccante pedanteria le responsabilità di un comandante verso i membri dell’equipaggio. Cos’altro doveva succedere, si chiese, cos’altro?

In realtà, il comandante era tanto seccato per quell’improvvisa esplosione di pio interesse perché lo aveva tenuto lontano da un impegno terapeutico profondamente necessario. Julia lo stava aspettando nel loro posto segreto, un angolo buio e isolato del magazzino al livello sottostante dell’astronave.

Julia e il comandante erano amanti. Lo erano fin dalla terza settimana di viaggio, da quando lei si era districata da una breve, passionale e tormentata relazione con Paco. Nessuno sapeva della loro relazione, e lui preferiva che andasse così. Tra l’equipaggio lui aveva la fama di asceta, di uno capace di osservare una feroce disciplina monastica, e per giusto o sbagliato che fosse era arrivato a pensare che una simile immagine rafforzasse la sua autorità di comandante.

La verità era che lui avvertiva il richiamo del desiderio fisico esattamente come tutti a bordo, e cercava di soddisfarlo con una certa regolarità come qualsiasi persona normale. Solo, lui lo faceva in segreto. Provava gioia e divertimento al pensiero di riuscire a mantenere una buona dose di riservatezza in quella vasca per pesci rossi che era la Wotan. Certe volte, però, temeva di commettere un peccato di superbia, lasciando credere agli altri che fosse più ascetico di quanto in realtà non fosse, e comunque la sua condotta si poteva senz’altro bollare come ipocrita. In ogni caso, ormai aveva scelto di rinchiudersi in quel furtivo schema di comportamento, e ora sembrava troppo tardi per cambiare di punto in bianco. Bisognava davvero volerlo, e lui non ne era molto sicuro.

E così, si avviò ancora una volta lungo il corridoio dell’ascensore, scese al livello sottostante e attraversò con grazia felina l’intrico di macchinari imballati, che riempiva quei livelli fino a giungere alla paratia mobile che chiudeva l’accesso al magazzino principale. Appoggiò la mano sulla piastra di identificazione. La paratia scivolò di lato con un sordo rumore, e finalmente lui penetrò nel mondo segreto del carico più prezioso dell’astronave, la banca genetica.

Pochi, pochissimi membri dell’equipaggio avevano accesso a quella sezione dell’astronave. Chang era uno di loro in quanto responsabile del materiale genetico custoditovi, embrioni umani e cellule riproduttive di molte diverse specie terrestri, e così Sylvia, la sua assistente. Ma bisognava aspettare ancora un po’ prima di far nascere dei bambini a bordo dell’astronave, naturalmente se non si trovava prima alcun pianeta abitabile, e quindi Chang e Sylvia non avevano motivo di scendere là sotto. Anche Michael, il responsabile della manutenzione, poteva entrare là dentro senza lo specifico permesso del comandante, e come lui altri due o tre. Ciononostante, i futuri coloni della Nuova Terra, la cui maggior parte non era stata ancora concepita, dormivano quasi sempre in pace nella stasi dei loro contenitori congelati, del tutto indisturbati da visitatori provenienti dai livelli sovrastanti.

Julia non era tra coloro che avevano il permesso di recarsi in quella sezione. Le sue responsabilità riguardavano esclusivamente il propulsore stellare, e nessun elemento del propulsore si trovava nel magazzino. Il comandante aveva inserito l’impronta della sua mano tra quelle autorizzate per motivi assolutamente personali, consentendole di oltrepassare quella soglia perché pochi altri lo potevano fare. Ciò rendeva il magazzino un luogo perfetto per i loro incontri clandestini. Le possibilità di essere disturbati erano davvero minime. E anche se qualcuno li avesse scoperti, perché doveva importare all’equipaggio se il comandante permetteva illecitamente alla sua amante di raggiungerlo là dentro? Con tutta probabilità la sua piccola violazione, poiché di questo si trattava, sarebbe stata presa come un segno gradito della sua natura umana.

Il magazzino principale era un locale ampio e buio, illuminato solo da lampade intelligenti che si accendevano a mano a mano che lui si addentrava nel locale, per poi spegnersi non appena fosse passato. Alla sua destra e alla sua sinistra vi erano i grandi refrigeratori in cui venivano conservati genomi di vari tipi. Il programma generale della missione prevedeva, in caso non si fosse trovato un pianeta adatto, la nascita di bambini solo per consentire il ricambio generazionale; tuttavia, le molte proteste portarono a ordini meno restrittivi. Se la maggioranza votava a favore e le condizioni lo permettevano, era quindi possibile avere un figlio per le coppie stabili che lo richiedevano, ma solo dopo un anno di convivenza; e in caso fossero stati localizzati pianeti potenzialmente adatti alla vita umana, il numero di bambini poteva crescere sino a due per coppia. Quel numero rappresentava il limite di nascite nello spazio; dopo, niente più nascite sino alla fondazione della nuova colonia, anche perché a bordo vi era posto solo per cento persone in tutto.

Per il momento, comunque, ovuli e spermatozoi dovevano restare nei loro contenitori separati. Molti, probabilmente, vi sarebbero rimasti per secoli a venire. Infatti, venticinque coppie, anche se instabili, non avrebbero mai potuto garantire la diversità genetica necessaria a popolare un nuovo mondo. Ciò anche contando i figli e le figlie nate nello spazio. Ma grazie alle migliaia di embrioni e di cellule riproduttive conservate a bordo della Wotan, la razza umana sarebbe stata in grado di colonizzare la Nuova Terra.

Una singola, piccola lampada illuminava il nido d’amore del comandante: un modulo di sicurezza a forma di uovo, grande a malapena per due persone, posto tra una fila di congelatori e le loro consolle di monitoraggio. Il comandante lanciò un’occhiata all’interno e vide Julia sdraiata con aria casuale, le braccia dietro la testa e le gambe incrociate. I suoi vestiti erano ammucchiati fuori, su una sporgenza nel corridoio. Nel piccolo modulo, non c’era posto per svestirsi.

— Qualche problema? — chiese la ragazza.

— Già. Heinz — rispose lui, liberandosi alla svelta di giubba e pantaloni. — C’era qualcosa che sentiva di dovermi dire, e così mi ha trattenuto dopo la riunione per parlarne. Sembrava non volesse smettere mai!

— Qualcosa di serio?

— Nulla che già non sapessi — replicò lui.

Era nudo ormai. Lei lo chiamò con un cenno, e lui s’intrufolò tra le coperte, stringendola a sé. Julia sibilò di piacere quando lui si arricciò attorno al suo corpo freddo e snello. Aveva un corpo atletico, un corpo da centometrista con il ventre piatto e natiche perfette, senza un grammo di carne in eccesso. Le cosce erano lunghe e affusolate, le braccia forti e sottili con le linee bluastre delle vene leggermente abbozzate. Ogni giorno nuotava per almeno un’ora nella piscina delle terme; di quando in quando, il comandante si univa a lei, ma, nonostante la costituzione fisica abbastanza simile (anche lui un atleta indurito e temprato da una vita intera di disciplina) si ritrovava esausto dopo una decina di vasche, Julia, invece, proseguiva senza alcuna interruzione per un’ora intera, bracciata dopo bracciata, per uscire infine dall’acqua senza mostrare il minimo segno di stanchezza.

Anche i loro amplessi costituivano un evento soprattutto atletico: sentite incursioni nella pura passione, con misurato impiego di energia erotica, non complicate dalla presenza di emozioni. Julia era facile da scaldare ma lenta a consumare, e i due avevano sviluppato un certo modo di stringersi e di scivolare nel ritmo più appropriato che poteva continuare per un’ora intera, come se stessero nuotando. Era una copula piacevole e quasi discorsiva: iniziava piano, e attraversava gradualmente una serie di impercettibili accelerazioni del ritmo che indicavano, ognuna a suo modo, il lento avvicinarsi dell’orgasmo. Finalmente, lui si avvedeva di certi inconfondibili segnali nel corpo di lei, morbidi gemiti, improvviso ardore, spalle sudate: solo allora si lasciava andare. Saliva gradualmente di tono fino ai frenetici movimenti finali, assorbendo avidamente tutti gli stimoli che lei sapeva dargli per poi esplodere al momento ultimo, stracciando il totale autocontrollo che con tanta attenzione praticava.

Il comandante sapeva benissimo che ciò che lui e Julia facevano non aveva nulla a che fare con l’amore, ed era conscio che anche il sesso praticato semplicemente per il piacere poteva risultare molto più gratificante. Tutto ciò, però, lo lasciava completamente indifferente. L’amore non era poco importante per lui, ma cercarlo in quel momento non lo interessava affatto. La soddisfazione fisica che otteneva tra le braccia di Julia poteva anche scarseggiare di basi filosofiche, ma ripristinava in lui l’equilibrio e la calma che gli servivano per eseguire al meglio le sue funzioni di comandante, che era poi ciò che voleva veramente.

Julia prese a emettere i suoi caldi, familiari gemiti. Le sue dita avvertirono il consueto sudore preorgasmico inumidirle le spalle.

Ma stavolta accadde qualcosa di strano. Generalmente, quando lui e Julia facevano l’amore e raggiungevano quel punto, lui cadeva invariabilmente in una sorta di trance che non gli consentiva più di parlare o anche solo di pensare. La sua mente veniva coperta dalla vivida patina grigia che aveva appreso a sfruttare nei lunghi anni trascorsi al monastero di Lofoten, la stessa sfumatura di grigio che contemplava a lungo ogni volta che guardava fuori dalla grande vetrata nel corridoio, nel nulla risplendente del tunnel di non-spazio. Una volta raggiunto quel punto, tutti i suoi processi mentali erano sospesi a eccezione dei processi più elementari, poco più di tropismo, che riguardavano la continuazione dell’atto sessuale in sé.

Ma quel giorno le cose andarono in modo diverso. Quel giorno, quando raggiunse il punto cruciale che dava inizio alla loro intensa cavalcata verso il reciproco climax, l’immagine di Noelle occupò con prepotenza la sua mente.

Il suo volto gli fluttuò davanti, sospeso a mezz’aria: i suoi occhi chiari e ciechi, il naso delicato, la piccola bocca e l’elegante profilo affilato del mento. Era come se si trovasse in quell’alcova insieme a loro, fluttuando proprio davanti al suo naso, intenta a osservarli con una sorta di infantile curiosità. Il comandante perse completamente la sua trance, sommerso nel momento meno adatto da un torrente di emozioni in conflitto, vergogna e desiderio, colpa e gioia. Sentì la pelle infiammarglisi dall’imbarazzo per quella sconcertante intrusione nel momento finale del suo amplesso con Julia, e fu certo che quell’improvvisa confusione apparisse chiara alla sua costernata partner. Ma Julia non notò nulla di strano, o almeno non ne diede mostra, e continuò a muoversi come prima sotto di lui, occhi chiusi, labbra leggermente aperte e sorridenti, natiche contratte nelle costanti, rapide spinte ritmiche che la portavano sempre più vicina al suo obiettivo.


Una volta conclusi i preparativi, la squadra fu pronta a modificare la traiettoria dell’astronave per puntare verso il pianeta A. Quella modifica era principalmente un’operazione matematica. Infatti, i concetti della navigazione convenzionale non si applicavano in alcun modo a uno spazio non einsteniano e non euclideo: la Wotan non era altro che un flusso di probabilità, a quel punto, un’entità di Heisenberg nella migliore delle ipotesi e comunque qualcosa di non “reale”, nel senso che non era più soggetta alle leggi di azione e reazione di Newton o a qualsiasi altro concetto classico sulle meccaniche celesti. Tuttavia appariva solida e concreta come sempre ai suoi solidi e concreti occupanti. Il cambio di rotta veniva quindi eseguito tramite equivalenze e surrogati posizionali, non tramite l’impiego di concrete spinte termodinamiche lungo un particolare vettore spaziale. Il successo, in breve, veniva misurato in base ai cambiamenti nei sistemi di equazioni che governavano la traiettoria dell’astronave, non in base ai cambiamenti di direzione ottenuti con l’impiego di energia fisica.

Pertanto, Roy e Sieglinde svolgevano quasi tutto il lavoro, sovrapponendo alla posizione dell’astronave nello spazio einsteniano, determinata da Paco, i dati forniti da Hesper sulla rotta da prendere e calcolando gli appropriati equivalenti nel non-spazio. Paco, quindi, convertiva i dati ottenuti in coordinate spaziali necessarie per muovere da “qui” a “lì” e presentava i risultati a Julia che, lavorando in stretto collegamento con Heinz, inseriva le necessarie modifiche nel cervello elettronico che governava il propulsore stellare. Il computer produceva una simulazione del piano di volo, indicando la rotta da percorrere e le probabili conseguenze della decisione. L’ultimo passaggio era riservato al comandante, il vero responsabile di quelle manovre: spettava a lui esaminare la simulazione e concedere o negare il suo permesso. Solo allora il computer avrebbe riprogrammato il propulsore.

Tutti i passaggi erano stati effettuati, tranne l’ultimo.

Il comandante si era sempre guardato bene dal vantare qualsiasi tipo di esperienza sul viaggio nel non-spazio. Le sue considerevoli capacità riguardavano altri campi. Pertanto fu soprattutto in base alla fiducia, piuttosto che attraverso uno studio vero e proprio, che dopo aver esaminato i diagrammi di simulazione con Julia e Heinz dichiarò: — Per me le modifiche vanno più che bene, se voi ne siete convinti.

Che altro poteva dire? Il suo assenso rappresentava poco più di una formalità. La loro rotta andava modificata: questo ormai era deciso. Pertanto, non poteva far altro che fidarsi del lavoro di Julia e di Heinz. Era tutto quello che avevano. Quei calcoli erano un qualcosa che lui non poteva capire veramente, e non poteva avere un esatto giudizio. Di conseguenza, il comandante poteva solo dire di sì. Cerio esisteva sempre il rischio di autorizzare una catastrofe, ma lui cosa poteva farci? Julia, Heinz, Paco, Roy e Sieglinde sarebbero finiti in quella catastrofe assieme a tutti gli altri, e lui anche. Il comandante non era in grado di ricalcolare e di correggere la loro proposta.

— Ci accorgeremo di qualcosa quando modificheremo la nostra rotta? — domandò. — Accadrà qualcosa di speciale, e in tal caso che cosa?

Non ci accorgeremo proprio di nulla — rispose Julia. — Tutto resterà uguale a prima. Non deve pensare in termini di accelerazione classica. Non deve attendersi alcun tipo di fenomeno che possa avere un senso per lei.

— Ma avrà un senso per voi? — chiese.

— Sì, da un certo punto di vista — replicò Julia. — Non per me, non per lei, forse nemmeno per Sieglinde e Roy. Ma a noi non importa di capirne il senso, ci importa solo che funzioni.

— E funzionerà?

— Certo che funzionerà.

Bene, funzionerà. Il comandante mandò a chiamare Noelle.

— Credo che a questo punto sia meglio informare la Terra del cambio di rotta — le disse. — Tra qualche ora la Wotan punterà verso il sistema del pianeta A. La nostra prima esplorazione planetaria sta per iniziare.

Noelle annuì gravemente. — Sulla Terra troveranno questa notizia molto importante, ne sono certa — rispose con voce quasi spenta, come se stesse leggendo la notizia da un documento mai visto prima e non riuscisse a leggere bene.

Il comandante trovò quella risposta piuttosto deludente. Ma tutti gli ultimi suoi incontri con Noelle erano stati sconfortanti. Il fatto di essersi trovato davanti la sua immagine così all’improvviso, proprio al momento culminante dell’amplesso con Julia, lo aveva profondamente turbato, e la prima volta che aveva visto la vera Noelle, lei era riuscita in qualche modo, forse per il suo odore, oppure per un certo tono della voce, a cogliere qualche segno del suo imbarazzo. — C’è qualcosa che non va, comandante? — gli aveva subito chiesto, obbligandolo a una dolorosa bugia. Ma lei sapeva, lei sapeva! A lei non sfuggiva mai nemmeno una sfumatura. Era difficile talvolta allontanare il sospetto che potesse leggere la mente di chiunque e non solo quella di sua sorella. Molto probabilmente non era così; molto probabilmente Noelle aveva l’udito e l’olfatto ipersensibili per compensare la mancanza della vista, come accadeva spesso ai ciechi. Tuttavia, il sospetto aleggiava ugualmente. Non gradiva affatto sospettare di Noelle, ma non riusciva a evitarlo del tutto. E odiava il pensiero che la sua mente potesse in qualche modo essere penetrata da lei: tutto ciò che aveva attentamente represso e sepolto, paura, egoismo, ipocrisie e, certo, tutti i suoi desideri più riprovevoli sventolavano pubblicamente come bandiere al vento.

Il disagio calato tra loro non accennò a diminuire nei giorni successivi. Restare solo con lei cominciò a disturbarlo, lei fu turbata dal suo disagio e questo disturbò lui ancora di più. Ormai quella sensazione andava avanti e indietro tra i due come un’immagine intrappolata tra due specchi, una regressione infinita; tuttavia, nessuno dei due disse una parola al riguardo.

— Per lei è un buon momento per tentare di mandare il messaggio? — domandò il comandante.

— Sì, posso provarci — replicò lei, un po’ esitante.

L’interferenza peggiorava di giorno in giorno. Noelle e Yvonne non riuscivano a spiegarla, ma Noelle si aggrappava senza troppa convinzione alla teoria delle macchie solari, per non ammettere a se stessa ciò che ormai sembrava inevitabile. Le due sorelle riuscivano ancora a mettersi in contatto due volte al giorno, ma a prezzo di un grande sforzo per entrambe poiché ogni frase andava ripetuta due o tre volte e interi periodi non riuscivano a passare. L’aspetto di Noelle si faceva sempre più teso, quasi stralunato. La sola cosa che sembrava confortarla, o perlomeno distrarla dall’incubo di perdere i suoi poteri telepatici, erano le partite di Go. Ormai dominava completamente il gioco, ed era arrivala al punto di vincere con l’ex campione Roy, pur concedendogli due pedine di vantaggio. Certo, anche lei perdeva di quando in quando, ma il suo modo di giocare era sempre brillante, straordinariamente originale per portata e concezione. Quando non giocava, tendeva a essere lontana e taciturna, proprio come in quel momento davanti al comandante: testa china, spalle curve, braccia penzoloni e occhi che non cercavano più nemmeno gli occhi altrui. Era diventata sotto tutti gli aspetti molto più elusiva di quanto si potesse immaginare prima delle difficoltà nei contatti con sua sorella.

La sua solitudine, sempre più profonda, doveva essere terribile. Il comandante provava spesso l’impulso di offrirle quel conforto che poteva in qualche modo sostituire il contatto sempre più tenue con sua sorella: stringerla tra le braccia, tenerla vicino, fare in modo che sentisse il calore di qualcun altro che l’amasse. Ma non ci riusciva. Aveva paura di offenderla, di spaventarla. Ma, soprattutto, aveva paura di ciò che provava nel profondo del suo cuore. Non aveva idea di quanto lontano potessero spingersi i suoi sentimenti una volta lasciati liberi di esprimersi, e temeva seriamente di perdere il suo faticoso autocontrollo.

La bellezza classica di Noelle non gli sembrava più così marmorea. Da quando il suo viso gli era apparso davanti al momento culminante dell’amplesso con Julia, aveva dovuto ammettere con se stesso l’esistenza di qualcosa di tanto prosaico come una forte attrazione per lei. Come spiegarsi altrimenti quell’apparizione? Probabilmente il desiderio giaceva già latente nel suo inconscio, e quello non era altro che il primo segno del suo emergere in superficie.

Meglio mantenere le distanze. Non poteva toccarla. Non poteva approfittare di lei.

— Dica loro — cominciò — che abbandoniamo la rotta seguita finora per iniziare un viaggio trasversale nel non-spazio della durata di quattro mesi e mezzo. A quel punto…

— Aspetti. Non così veloce.

— Mi scusi.

Per un attimo lei parve rabbrividire. Noelle sembrava concentrare l’attenzione su di lui, ma qualche parte della sua mente stava cercando di contattare una ragazza essenzialmente identica a lei, ormai a più di venti armi-luce di distanza. Chi era più autentico per Noelle? La sorella gemella sulla Terra lontana o lo strano, spigoloso, tormentato uomo distante meno di un metro e mezzo in quella cabina?

— Un viaggio trasversale nel non-spazio… — ripeté il comandante e attese.

— Sì.

— Della durata di quattro mesi e mezzo…

— Sì, va bene.

— A quel punto la Wotan avrà raggiunto un settore…

— Aspetti, per favore.

Una smorfia di qualcosa molto simile al dolore le contrasse il volto. La scarsa chiarezza, lo sforzo di mantenere il debole contatto con Yvonne le facevano male. Il comandante strinse i pugni e li premette uno contro l’altro con tale forza da far schioccare le nocche. Aspetta. Aspetta.

— Ecco, adesso — riprese Noelle. — Continui.

— Raggiungeremo una stella di tipo G, nel cui sistema…

— Aspetti. Non ci riesco! Oggi è troppo difficile!

Lui attese.

Infine riuscirono a inviare tutto il messaggio. Quando finirono, Noelle sembrava sul punto di scoppiare in lacrime. Respirava a scatti e affannosamente, mentre la sua pelle bianca e lustra aveva assunto uno spettrale pallore sottocutaneo. Dopo qualche istante, tuttavia, riuscì ad abbozzare una specie di sorriso.

— Yvonne ha detto che riferirà immediatamente le novità. La notizia le è sembrata meravigliosa. Ci augura tutta la fortuna del mondo… no, ha detto “dell’universo”.


Al contatto successivo, Noelle apprese da Yvonne che la notizia della missione di esplorazione del pianeta A aveva generato ovunque sulla Terra una tremenda eccitazione. Le reazioni al comunicato ufficiale erano state in molti casi estreme, una sorta di intossicazione mondiale, una frenetica, gioiosa eccitazione, come non se ne vedevano da anni nella statica, tranquilla società terrestre. Pareva quasi che i viaggiatori non avessero annunciato l’inizio di una semplice missione esplorativa, ma la scoperta di una Nuova Terra abitabile. Yvonne concluse dicendo che richiedevano nuovi rapporti con la descrizione del clima, della topografia e dei dettagli geografici e, possibilmente, con le prime ipotesi sulla fauna e la flora del pianeta.

Il comandante accolse con piacere la notizia che le novità inviate dalla Wotan avevano avuto gli appropriati benefici effetti psicologici sugli abitanti del pianeta madre. Tuttavia sapeva di dover chiarire la situazione, e al più presto, prima che le irrealistiche aspettative della gente diventassero tanto sentite da rendere difficile gestire la possibile, o anche probabile, delusione che li attendeva.

— Dica loro — ordinò a Noelle — che è troppo presto per accendere i fuochi d’artificio. Probabilmente questo è solo il primo dei molti pianeti che dovremo esplorare prima di trovarne uno su cui stabilirci.

Noelle impiegò più di un’ora per inviare quel breve messaggio. Le difficoltà di contatto sembravano aumentare ogni volta.


Huw tenne la sua nera e levigata pedina di Go al centro del dito grosso e carnoso, la fece oscillare un paio di volte con composta serietà come per saggiare il peso del piccolo disco e finalmente chiese, senza alcun riferimento a quanto discusso quella mattina nella sala comune: — Voi sapete se il comandante ha già deciso chi farà parte della squadra che esplorerà il pianeta A?

— Non lo so, ma lui ne farà senz’altro parte — replicò Leon, l’avversario di Huw. Stava giocando male, e ora attendeva con malcelata impazienza che Huw facesse la sua mossa. — Dopotutto, lo studio della vita aliena è la sua specialità, no?

Huw rispose con un grugnito e posò la pedina con un largo svolazzo, facendo di tutto per dare un’enfasi belligerante al caratteristico, secco rumore delle pedine di Go. Si era arreso solo di recente al vizio di giocare una partita dopo l’altra, un vizio che aveva contagiato quasi tutti a bordo. Ormai, solo Hesper, Sieglinde e un paio di altri non trascorrevano tre, quattro ore al giorno davanti alla scacchiera,

Mancavano solo un paio di settimane all’arrivo della Wotan nei pressi del pianeta A, l’unico corpo celeste di qualche interesse nell’intero settore; una volta avvicinatisi abbastanza, sarebbero rientrati nello spazio normale, dando il via alla fase esplorativa basata sull’osservazione diretta. A quel punto molte questioni irrisolte avrebbero trovato risposta, tra cui le domande sulla correttezza dei calcoli e sull’effettiva capacità dell’astronave di rientrare in futuro nel nonspazio. Per contro, una certa tensione aleggiava tra l’equipaggio, una tensione che si faceva sempre più viva a mano a mano che si avvicinava il momento della verità.

— Durante l’anno in cui resta in carica, il comandante può lasciare l’astronave per una sola ragione: l’atterraggio su un pianeta abitabile — ricordò Chang a tutti i presenti, parlando dall’altro lato della stanza.

— Ah, il suo anno è quasi finito — replicò Leon. — E quindi sarà libero di partecipare al primo atterraggio. Anzi, scommetto che il suo ultimo atto ufficiale sarà di nominare se stesso comandante della missione esplorativa.

— Cosa le fa credere che si dimetterà una volta scaduto il suo mandato? — chiese Paco. — Potrebbe anche cercare di farsi rieleggere. Secondo me ha buone possibilità di vittoria: chi tra noi vuol fare quel dannato lavoro? E il regolamento non vieta al comandante di presentarsi per la rielezione.

— Dunque, secondo voi il potere lo attira così tanto da spingerlo a rinunciare al suo lavoro? — chiese Julia.

— Nessuno veramente a posto penserebbe mai di farsi eleggere una seconda volta — spiegò Paco. — O addirittura di farsi eleggere la prima. Ma siamo certi che il nostro comandante sia davvero a posto? Siamo certi di essere tutti a posto? Perché, tanto per iniziare, chiunque sia davvero padrone delle proprie facoltà mentali non avrebbe accettato di partire per questo viaggio.

Con molta calma Heinz, che stava giocando con Julia dal lato opposto della sala comune, disse: — Secondo me la rielezione è l’ultima cosa a cui pensa il nostro comandante. Io sono convinto che preferirebbe di gran lunga far parte della squadra che atterrerà e, come ha detto Chang, farsi rieleggere lo taglierebbe automaticamente fuori dall’esplorazione diretta del pianeta. Quindi secondo me intende lasciare il posto a qualcun altro. Il problema è: chi gli subentrerà?

Quella domanda colpì tutti con forza inaspettata, come un pugno che si abbatteva sulle scacchiere su cui tutti erano chini. Seguì un lungo momento di silenzio sorpreso nella sala comune. Da quell’informale conversazione doveva forse scaturire una sorta di candidatura? E in tal caso, perché nessuno ne parlava?

— Perché non tu, Heinz? — disse infine Chang.

— Non diciamo sciocchezze. Io non sono una persona affidabile. Non affidabile come dovrebbe essere un comandante.

— Bene, e allora chi suggeriresti?

— Io non voglio suggerire nessuno. Mi limito a sollevare la questione — replicò Heinz, osservando a una a una le persone attorno a lui. — Perché non tu, Sylvia? Un anno da comandante: perché no? Dopotutto non hai alcuna pesante responsabilità in questo stadio del viaggio. Oppure tu, Paco. Dici di non pensarci affatto, eppure sarebbe un bel contrasto: dopo il freddo e controllato nordico, il vulcanico, precipitoso latino. C’è anche Sieglinde: scommetto che sarebbe felice di proporsi se solo gliene dessimo la possibilità.

Tutti risero a quelle parole. Sieglinde non era molto popolare a bordo, e se si fosse proposta avrebbe ricevuto un solo voto: il proprio. — E tu, Huw? — concluse Heinz, sorridendo al rosso e robusto gallese. — Scommetto che saresti un comandante dannatamente in gamba.

— No. Nemmeno per tutto l’oro del mondo. Se per caso venissi eletto dovrei affrontare lo stesso problema del comandante: non potrei partecipare all’esplorazione planetaria — ricordò Huw a tutti. — E questa conversazione ha avuto inizio con la mia domanda sulla possibile composizione della squadra esplorativa, se mai verrà formata. Io, naturalmente, voglio farne parte e quindi non c’è alcuna possibilità che mi presenti come candidato.

— E allora chi sarà il nuovo comandante? — chiese qualcuno.

Di nuovo, calò il silenzio. Nessun candidato avrebbe ricevuto l’unanime consenso dell’equipaggio, e tutti lo sapevano. Il comandante in carica svolgeva i suoi compiti a meraviglia, adattandosi perfettamente al ruolo: per loro poteva restare al suo posto per sempre, un posto perfettamente adatto alla fredda, strana intensità del suo carattere. Molti, infatti, speravano che si sarebbe ripresentato, sia per evitare la seccatura di dover scegliere, sia per tenerlo prudentemente occupato. Per questo le discussioni sulla scadenza del suo termine e sulle elezioni erano state fino a quel momento tanto rare, e per lo stesso motivo anche quella discussione sembrava destinata a finire nel nulla.

Infatti Huw propose: — Se ora volessimo tornare alla questione della squadra di atterraggio…

— Tocca a te, Huw — grugnì Leon.

Con un largo sorriso, Huw prese una pedina nera dal mucchio di pedine non giocate e quasi senza guardare la posò con forza sulla scacchiera, eliminando così un intero avamposto di pedine bianche che evidentemente aveva bisogno di maggiore difesa. Leon sussultò per la sorpresa. Huw rimosse con calma le pedine bianche appena mangiate e rispose: — Secondo me la squadra esplorativa deve consistere di tre persone, né più né meno. Difatti, è chiaro che non possiamo inviare una sola persona, e due sono poche per gestire una situazione che può presentare inconvenienti tecnici e rischi sconosciuti. D’altro canto, è inutile e rischioso per la missione stessa mettere a repentaglio troppe vite: ecco quindi che il magico numero sarà tre. Vedrete.

— Ci hai pensato parecchio negli ultimi giorni, vero? — ribatté acidamente Leon.

Huw lo ignorò. — Per quanto riguarda l’aspetto tecnico della missione esplorativa, io credo che la squadra ideale debba comprendere uno xenobiologo, un planetografo e un tecnico generico che conosca alla perfezione il modulo di atterraggio, le macchine e i computer. Ora, il miglior xenobiologo a bordo è senz’altro il comandante e quindi lui costituisce una scelta obbligata, anche se potremmo inviare Giovanna o persino Elizabeth; invece il planetografo…

— Io sono assolutamente contrario a includere delle donne nella squadra — intervenne Paco con voce ferma.

Il commento inaspettato suonò così estraneo al discorso di Huw da farlo cadere in un meravigliato silenzio, da cui cercò di uscire aprendo e chiudendo due o tre volte la bocca come un pesce. Tutti si volsero verso Paco solo per vederlo sorridere beato e soddisfatto, neanche avesse ipotizzato l’esistenza di una quarta legge della termodinamica.

Nella sala comune c’erano quattro donne in quel momento: Julia, Innelda, Giovanna e Sylvia. Le prime tre sembrarono troppo sorprese per replicare; fu Sylvia a parlare per tutte. — Bravo Paco! Che magnifica idea. Ha un sapore decisamente medievale: i prodi maschi cavalieri sfidano i dragoni lancia in resta, mentre le mogli devote li aspettano al castello. Non è forse così che deve andare?

Il sorriso compiaciuto di Paco si spense un po’ mentre lanciava a Sylvia una fosca occhiata.

— No, non è quello che volevo dire — replicò.

— No?

— No. È una semplice questione di diversità genetica. Possibile che non lo capiate? — Tutti tacevano. Paco si sporse in avanti e cominciò a contare sulla punta delle dita. — Ascoltate. A bordo ci sono venticinque donne: mettiamo le cose da un punto di vista biologico. Venticinque donne significa venticinque banche di ovuli deambulanti, venticinque potenziali portatrici di feti. In altre parole, se qualcosa va storto, abbiamo solo venticinque meccanismi riproduttivi con cui dare inizio alla colonizzazione della Nuova Terra. Peraltro, a bordo abbiamo una grande abbondanza di sperma. Un singolo uomo può fecondare un intero esercito di donne, se necessario. Sono le potenziali madri che scarseggiano, e io non voglio che scarseggino ancora di più. Ogni donna a bordo rappresenta un insostituibile quattro per cento di tutte le donne che popoleranno inizialmente la Nuova Terra. Ogni donna rappresenta un’insostituibile portatrice di codici genetici, e uno strumento di crescita degli embrioni. La possibilità di perdere qualcuna di voi durante le esplorazioni suggerisce pertanto di non farvi correre alcun rischio. Ecco tutto.

Innelda, Julia e Giovanna cominciarono a parlare tutte insieme, ma fu ancora la voce chiara e sottile di Sylvia a continuare la discussione.

— Paco, sei un idiota. Una portatrice di ovuli, uno strumento di crescita dei feti in più o in meno, come tanto graziosamente ci dipingi, non farà alcuna differenza, a lungo termine. La manciata di donne a bordo di questa astronave non conta nulla per popolare la Nuova Terra, e tu dovresti saperlo. Ciò che veramente conta è la banca genetica che abbiamo di sotto e le incubatrici in cui cresceranno i bambini concepiti in provetta. Abbiamo interi barili di ovuli da fertilizzare al sicuro nei congelatori. E anche barili di sperma, grazie tante. È da lì che si svilupperà la diversità genetica della Nuova Terra, non da noi. È chiaro che non vogliamo perdere alcun membro della spedizione, ma affermare che le donne che si trovano a bordo sono sacre portatrici di vita e che vanno protette a ogni costo dai rischi di un’esplorazione planetaria è un’idiozia, una vera e propria idiozia.

— Quindi ti offriresti volontaria per il primo atterraggio? — le domandò immediatamente Paco.

— Perché, servono dei volontari? Bene, io ci vado. Certo, perché no? Tuttavia, proprio tu che ti preoccupi tanto del nostro prezioso patrimonio genetico e dei nostri strumenti di crescita degli embrioni dovresti pensarci due volte prima di porre una simile domanda a una delle poche persone che sa come farli funzionare, questi strumenti!

— Prenderò questa risposta come un’indicazione che vorresti andare, ma non puoi — concluse Paco, accomodante. Ormai sembrava chiaro a tutti, grazie anche alla luce nei suoi occhi e al sorrisetto divertito che sfoggiava, che Paco intendeva solo prendere in giro le donne presenti per ridere un po’ alle loro spalle.

Sylvia era un donna minuta e alquanto timida, e quella situazione era insolita per lei. La tensione con cui aveva risposto le imponeva di non mollare. — Ho detto che andrò se qualcuno me lo chiederà. Tuttavia sarebbe da stupidi chiedermelo. Perché invece non vai “tu”, Paco? Tutto ciò che sai fare è dirigere l’astronave e produrre sperma. Hai detto tu stesso che abbiamo una grande abbondanza di sperma a bordo, quindi possiamo eventualmente fare a meno del tuo. E se quel pianeta è abbastanza simile alla Terra da potervisi stabilire, non avremo comunque più bisogno di un navigatore specializzato!

Julia e Giovanna applaudirono, e a loro si unirono Heinz e David, dopo un attimo. Persino Paco sorrise.

Huw, che poteva essere un uomo estremamente paziente, era rimasto in attesa con estrema pazienza durante la discussione. Adesso che sembrava finita disse testardamente, come se il battibecco tra Sylvia e Paco non fosse mai avvenuto: — Posso continuare? Allora, la squadra sarà composta da tre persone. Il comandante come xenobiologo, Marcus o Innelda come planetografi e il sottoscritto come tecnico generico per la guida e la manutenzione del modulo di atterraggio e dei macchinari. Che ne dite?

— Sarebbe meglio chiedersi che ne dirà il comandante — replicò Heinz. — Tuttavia, c’è qualcosa di sensato in questo tuo elenco. Perché non raggiungi il comandante e gli fai sapere che hai scelto la squadra di atterraggio per lui?

— È proprio ciò che intendo fare — ammise Huw. — Ma prima devo finire questa partita.

E con queste parole posò la sua pedina. Leon osservò tristemente la scacchiera e mosse all’attacco nel territorio di Huw, ma questi rintuzzò l’offensiva in tre sole mosse, circondando le pedine bianche con una marea di pedine nere. Heinz e Paco si avvicinarono per osservare. Leon era uno dei giocatori più esperti a bordo, mentre Huw veniva ancora considerato un novellino; tuttavia, il novellino stava liquidando l’avversario con la freddezza e l’ostentazione di un esperto. Stava giocando con l’astuta rapidità del formidabile Roy, quasi all’insuperabile livello della straordinaria Noelle, in quel periodo la campionessa indiscussa. Leon parve stordito. Nella foga di difendersi, prese a muovere senza pensare, e Huw replicò a ogni sua mossa con altri, micidiali attacchi. Due nuovi cunei si formarono sulla scacchiera, cunei di pedine nere destinati a schiacciare le pedine bianche. Leon li guardò sconsolato per qualche istante e scosse la testa.

— Mi arrendo — disse. — Ormai non c’è più niente da fare.

— Credo anch’io — concordò Huw, tendendo la mano a Leon. — Una bella partita, dottore. Grazie.

— Lei è il benvenuto — replicò Leon non troppo cordialmente.

— Bene. Adesso scusatemi, ma credo che andrò a parlare al comandante.

Huw si alzò per uscire dalla sala comune. Era un uomo grande e grosso, arruffato, poco elegante; camminava con il passo sicuro e poderoso di chi marciava abitualmente lungo il ponte dei grandi cargo. Attraversando la sala comune, si fermò per un attimo accanto a Paco e gli diede un’amichevole manata sulla schiena, come per esprimere ammirazione per il suo spettacolo. Poi mandò un teatrale bacio a Sylvia e finalmente uscì, imboccando il corridoio verso la sala controllo dove in genere si trovava il comandante quando era in servizio.

Huw e il comandante erano vecchi amici, sempreché qualcuno potesse dirsi amico del comandante. Unici tra tutti, avevano lavorato insieme prima di essere scelti per quel viaggio. Ma a differenza del comandante, che sembrava far di tutto per ripartire da zero con una nuova carriera ogni dieci, dodici anni, Huw si era dedicato fin da giovanissimo alla geografia e alla mappatura dei pianeti del sistema solare. La sua era una natura da esploratore: sembrava quasi che il suo DNA contenesse qualche tipo di gene da nomade a tenere sempre viva in lui la fiamma della curiosità, una cosa davvero insolita per la sua epoca. La gioia più grande gli veniva dal viaggiare, dall’esplorare i regni dell’universo, dal conoscere tutto ciò che c’era da conoscere e da vedere. Anzitutto le lune e i pianeti più vicini alla Terra, naturalmente, quindi la periferia del sistema solare. Ma il suo sogno era far parte della prima traversata interstellare, allo studio già prima della sua nascita, e così dedicò la sua vita allo studio e allo sviluppo di navette, dispositivi e programmi informatici per l’esplorazione di ambienti estranei. Huw era un discendente, così almeno affermava, del principe Madoc del Galles, che nel dodicesimo secolo partì verso ovest con duecento seguaci, attraversò l’Atlantico e giunse in una terra sconosciuta, dove vide molte cose strane. Tornato in patria, reclutò dei volontari e partì di nuovo alla volta del Nuovo Mondo, fondando una comunità di gallesi timorati di Dio e cercando di convertire gli Aztechi e gli altri pagani al cristianesimo.

Davvero era andata così? Ma certo, rispondeva Huw. La storia del viaggio di Madoc era proprio lì, nelle cronache di Caradoc di Llancarfan, la Historia di Cambria, ora chiamata Galles, e chi poteva mai permettersi di definire un bugiardo il grande Caradoc? Era ormai dimostrato, anzi, secondo Huw era un dato di fatto, che certe parole azteche assomigliavano molto al gallese, e che certi indiani delle grandi pianure (peraltro molto più a nord) parlavano l’antica lingua del Galles come veri Siluri quando più tardi arrivarono gli esploratori europei. Ma davvero nelle vene di Huw Morgan scorreva il sangue di Madoc? E chi poteva mai sognarsi di negarlo? Non c’era al mondo un singolo gallese che non potesse, in un modo o nell’altro, tracciare il proprio albero genealogico. Tutti affondavano le radici nelle famiglie dei grandi re del passato, e Madoc era stato il più grande dei grandi re: non c’era dubbio al riguardo.

E così quei gioviale, rubicondo discendente di Madoc lasciò i verdi e placidi precinti della felice Terra per imbarcarsi su un proiettile d’argento ed esplorare le grandi e bruciate pianure di Mercurio, vagare nelle polverose distese di Marte e rischiare la vita nella corrosiva atmosfera di Venere. Progettava e costruiva l’attrezzatura che lo proteggeva, i mezzi di terra corazzati e sigillati e le ingombranti tute spaziali. Una volta finito con Venere, si lasciò attrarre dalle lune dei pianeti esterni. Fuori, sempre più fuori: e fu su Ganimede, luna di Giove, che la sua vita si intrecciò con quella di colui che doveva diventare il primo comandante della Wotan.

I due si conoscevano già, naturalmente. La popolazione della Terra era tanto ridotta in quel periodo e il numero di coloro che amavano il rischio tanto limitato che difficilmente potevano evitare di sentir perlomeno parlare l’uno dell’altro. Ma anche un pianeta piccolo come la Terra era abbastanza grande da consentire a due uomini con lo stesso interesse di vivere senza incontrarsi, soprattutto se i due uomini in questione amavano compiere periodiche escursioni sugli altri pianeti del sistema solare.

La “vita” era ciò che cercava l’uomo che un giorno sarebbe diventato il primo comandante della Wotan. Non la sua vita; quella l’aveva già trovata e sapeva perfettamente dove era localizzato il centro. No, lui cercava la vita al di fuori di se stesso, molto al di fuori, la vita sugli altri pianeti. Mercurio ne era privo: il Sole l’aveva bruciato in profondità nelle terribili ore di luce tra i lunghi periodi di gelido buio. Venere presentava un territorio troppo accidentato, impossibile da esplorare con completezza, anche se non era impossibile che qualche microorganismo in grado di adattarsi al tremendo calore superficiale e al cielo di monossido di carbonio si fosse evoluto negli anfratti più nascosti. Dunque non aveva trovato niente. E su Marte, il fosco, rosso e polveroso Marte, alcuni microfossili vecchi di quattro miliardi di anni parlavano di antichi protozoi e batteri, ma non sembrava che avessero lasciato dei discendenti su quel duro, poco invitante pianeta.

Le lune di Giove e di Saturno però… Io, Callisto, Giapeto, Titano, Ganimede…

— Vado in cerca di batteri su Ganimede — disse l’uomo che un giorno avrebbe comandato la Wotan cinque minuti dopo il primo incontro con Huw. — Ho bisogno di una slitta corazzata e di una tuta spaziale in grado di resistere a una tempesta di protoni. E poi avrei bisogno che lei venisse con me.

I due erano profondamente diversi. Huw, allegro, esuberante, espansivo, si sorprese parecchio dell’affinità che provava per una persona tanto fredda, lontana, inaccessibile. Ma forse era semplicemente attratto da un carattere radicalmente opposto al suo, da una personalità totalmente speculare. E, comunque, stavano cercando la stessa cosa.

Huw restò perplesso per la strana combinazione di temerarietà e rigore che caratterizzava la mente del suo nuovo amico scandinavo. Il futuro comandante gli raccontò di aver abbandonato per un po’ la carriera scientifica per cercar fortuna nel teatro, una decisione che non aveva senso per Huw, come non aveva senso quell’insolita ricerca del trascendentale che ogni tanto il suo nuovo amico palesava, una ricerca dal sapore decisamente medievale per lui. Molto presto, però, i due uomini scoprirono di lavorare a meraviglia insieme: entrambi erano senza paura, coraggiosi, determinati a cercare cose al di fuori della tranquillità stagnante della smidollata società in cui erano nati.

E quindi partirono insieme per Ganimede.

Ganimede era la più grande delle lune di Giove, un’immensa palla di ghiaccio butterata da un bombardamento che durava da miliardi di anni e scavata dai costanti sussulti di poderose forze interne. Un tempo possedeva un’atmosfera, successivamente cristallizzata in montagne di ghiaccio d’ammoniaca e metano. Insieme, i due uomini la percorsero in lungo e in largo sulla slitta corazzata di Huw, bagnati da una spettrale luce solare che illuminava intere distese di ghiaccio color fango, sotto l’onnipresente occhio di Giove. Il grande pianeta, che pròduceva incessantemente energia primordiale, vomitava su di loro furiose tempeste di protoni, ma i campi magnetici delle loro tute spaziali smorzavano senza fatica quell’assalto. Poteva qualunque forma di vita svilupparsi, crescere, riprodursi sotto quel bombardamento? In teoria sì; tuttavia, loro non ne trovarono traccia, come del resto accadde su Callisto. Non un microbo, non la più pallida traccia di qualcosa di vivo. Nulla.

Ma la vulcanica Io si rivelò molto diversa. Un oceano di zolfo fuso sulla superficie gelata; una patina ghiacciata di ossido di zolfo che aderiva tenacemente a qualunque particolare di quel panorama silicato; geyser che eruttavano fiere colonne di zolfo elementare fino a cinquanta chilometri di altezza, per poi lasciarlo libero di ricadere lentamente sotto forma di fiocchi di neve, neve sulfurea dal colore giallo pastello con sfumature arancione e tonalità di blu; e, ovunque, vulcani in eruzione che proiettavano dense nubi di detriti sulfurei verso il cielo nero, grossi massi che poi ricadevano a terra come una pioggia di palle di cannone. Là, sul lato nascosto di quel mondo minaccioso e turbolento, sotto un cielo nero percorso di quando in quando dalle letali scariche elettriche emesse dall’immensa e implacabile magnetosfera di Giove, i due esploratori trovarono il primo segno di vita extraterrestre mai scoperto dall’uomo: robusti organismi monocellulari, in qualche modo simili ai batteri terrestri, piccole creature che amavano lo zolfo, luminosi punti scarlatti sul ghiaccio giallo in lenta e felice diffusione sul terribile pianetoide, di cui erano i dominatori supremi e assoluti.

Huw urlò e saltò, estasiato dalla vista di quelle piccole macchie colorate, alzò le braccia al cielo e danzò, proferendo gutturali parole che, a suo dire, erano dell’antica lingua celtica del Galles. Il suo compagno, naturalmente, reagì restando immobile e guardandolo con aria vagamente confusa.

— Forza, forza! — gridò Huw. — Perché non balla? Non è felice? Saluti la vita appena ritrovata, maledizione! — E con queste parole lo prese per le mani guantate, obbligandolo a saltellare qua e là, forzandolo a festeggiare il grande evento nonostante la sua palese riluttanza.

E poi, per entrambi fu la volta di Titano, la fredda luna di Saturno grande abbastanza da possedere un’atmosfera, un posto dove aghi gelati di metano cadevano costantemente da un cielo nebbioso con le tonalità dell’acido cianidrico. La fortuna li aiutò anche là. Presso le rive tetre di un lago di idrocarburi, sotto uno spesso strato di smog color limone, vagamente luminescente, si ritrovarono a contemplare una serie di macchie arancione su una lastra di ghiaccio grigio composto da ammoniaca e metano. Anche quelle erano creature viventi. Processi biologici di qualche tipo stavano avvenendo in quel momento proprio sotto i loro occhi, anabolismo, catabolismo, digestione, respirazione, riproduzione. Creature viventi, molto diverse da quelle trovate su Io e incredibilmente diverse da qualunque tipo di batterio presente sulla Terra.

Quelle due colonie di microorganismi alieni erano ancora le sole forme di vita extraterrestri scoperte dalla razza umana, e i due uomini che avevano compiuto quella scoperta si trovavano uno di fronte all’altro nella sala comandi della Wotan.

— Abbiamo appena parlato delle persone che faranno parte della squadra di atterraggio — disse Huvv.

— Non ho ancora preso nessuna decisione in proposito — replicò il comandante.

— Possiamo cominciare a farlo.

— Certo che potete; tuttavia non sappiamo ancora se vale la pena atterrare su quel pianeta.

— Supponiamo che ne valga la pena — disse Huw. — Possiamo speculare un po’, vecchio mio?

— Va bene. Supponiamo che ne valga la pena.

— In tal caso, a parer mio, la squadra dev’essere composta da tre persone: un biologo, un planetografo e un…

Il comandante lo interruppe bruscamente. — Huvv, ha per caso l’intenzione di proporsi come mio successore?

Huw, perplesso, scosse la testa. — Perché dice questo?

— Formare la squadra di atterraggio è una prerogativa de! comandante e lei ha già stabilito il numero e, immagino, le persone che comporranno la squadra. Questo è compito del comandante. Bene, Huvv, se vuol fare il comandante, io non ho nulla in contrario. Riuniamo l’equipaggio, e io la nominerò mio successore. Dopodiché, sarà libero di formare la squadra di esplorazione come meglio crede, dando naturalmente per scontato che valga la pena atterrare sul pianeta A.

Huw stava ancora scuotendo la testa. — Non ci siamo capiti. Io non ho alcuna intenzione… non voglio affatto diventare…

— Il comandante?

— Assolutamente no. È da escludere. Entrambi sappiamo che il comandante non può far parte della squadra esplorativa. È solo un’idea, maledizione, non sto affatto cercando di usurpare le prerogative del suo comando, e posso assicurarle che non ho la minima intenzione di farmi eleggere comandante. Sono semplicemente venuto qui per discutere un po’ in anticipo la possibile composizione della squadra esplorativa, e…

— E va bene — lo interruppe nuovamente il comandante, calmo come se stessero discutendo l’opportunità o meno di andare a pranzo. — Allora, chi secondo lei dovrebbe far parte della squadra?

Huw, agitato e rosso in volto, proruppe: — Ma come? Noi due, naturalmente. Io guiderò il mezzo di terra, lei studierà la situazione biologica. Poi ci sarà Marcus, o Innelda, per la mappatura del pianeta. Tre persone efficienti possono sbrigare il lavoro in tempi ragionevoli, e la loro perdita non inciderebbe più di tanto sul proseguimento della spedizione.

Il comandante annuì, senza però commentare alcunché. Restò seduto in silenzio, insondabile come sempre. Forse stava pensando al modo migliore di rispondere a Huw, o forse tentava di liberare la mente da qualunque pensiero, secondo gli insegnamenti dei monaci zen, lasciando Huw con la sua agitazione. E, in effetti, Huw era agitato. Era convinto di conoscere quell’uomo meglio di chiunque altro, e forse era vero. Ma, anche così, non lo conosceva abbastanza. In quel caso, aveva valicato qualche sorta di limite invisibile, ne era certo, solo che non sapeva bene quale fosse.

Dopo diversi minuti di silenzio, il comandante rispose: — Lei, io e Marcus, oppure Innelda. Niente male. Certo che sarebbe una buona squadra. Ma chi sarà il prossimo comandante? Ha pensato anche a questo?

— Amico mio, non mi interessa affatto sapere chi sarà il prossimo comandante. A me interessa solo la squadra di esplorazione. Io e lei, vecchio mio, come su Io, su Callisto, e su Titano!

— Già, lei e io. E Marcus o Innelda. Su questo siamo d’accordo. È una scelta logica, certo. Ma abbiamo anche bisogno di un nuovo comandante — replicò lui sorridendo, ma quel sorriso parve a Huw gelido come il panorama di Callisto o di Ganimede. — Dobbiamo tenere subito le elezioni. E, una volta eletto il mio successore, sceglierò come ultimo atto del mio comando le persone che faranno parte della squadra esplorativa, e saranno le persone che lei ha proposto. È certo di voler andare, Huw?

— Basta con questo stupido gioco. Certo che voglio andare.

— Allora mi trovi un nuovo comandante, Huw.

Загрузка...