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«La nostra strategia di fondo è semplice», aveva spiegato l’Ammiraglio Cajal. «Ne preferirei una ancor più semplice: una battaglia campale tra le flotte al completo. Il vincitore si prende tutto».

«Ma gli Ythrani non saranno così compiacenti», obiettò il Governatore Saracoglu.

«No. Non sono ben organizzati per una cosa del genere, in primo luogo. Non è in carattere con le loro abitudini centralizzare le operazioni. Inoltre, sanno che sono condannati a perdere qualsiasi combattimento in piena regola. Gli manca la semplice forza numerica. Mi aspetto che cercheranno di mantenere le posizioni negli avamposti fortificati. Di lì faranno delle sortite, scaglieranno attacchi ripetuti, distruggeranno le nostre piccole unità che capiteranno loro a tiro, tenteranno di saccheggiare le nostre linee di rifornimento. Noi non possiamo penetrare direttamente nel Dominio con quella minaccia alle nostre spalle. La pagheremmo troppo cara. Potremmo trovarci veramente nei guai se ci lasciassimo prendere in mezzo tra le loro forze interne e quelle esterne».

«Ergo, dobbiamo cominciare coll’impadronirci delle loro basi avanzate».

«Le principali. Non c’è bisogno di preoccuparsi di piccole colonie appena sorte, o di alleati riluttanti; ci basta tenere poche navi per pianeta». Cajal gesticolò con la torcia a raggi, che sondò l’oscurità di un pannello indicatore nel quale brillavano punti luminosi che rappresentavano le stelle di quella regione. Si affollavano a migliaia attraverso quei pochi parsec in scala ridotta, uno sciame di luce nel quale non molti uomini erano in grado di distinguerle una per una. Cajal si rese conto che il suo talento in proposito aveva un valore intrinseco ben scarso. L’immagazzinamento e l’interpretazione dei dati era compito dei computer. La sua era la dimostrazione evidente di un dono interiore.

«Il più vicino è Laura», disse. «Seguono poi Hru e Khrau, che insieme ad esso formano un triangolo. Datemi, questi, ed io mi impegno a procedere direttamente su Quetlan. Ciò dovrebbe costringerli a richiamare tutte le loro forze per proteggere il loro sole d’origine! E, dal momento che a questo punto la mia retroguardia e le mie linee saranno abbastanza sicure, potrò affrontare la battaglia decisiva che desidero».

«Uhm». Saracoglu si strofinò il mento massiccio. I peli ispidi della barba scricchiolarono sonoramente; aveva lavorato così intensamente, negli ultimi tempi, che non aveva mai trovato il tempo di applicarsi un inibitore della crescita, dopo la depilazione. «Attaccherai Laura, per primo?».

«Certo, naturalmente. Non con tutta l’armata. Ci divideremo all’incirca in tre parti uguali. Le sezioni staccate procederanno lentamente verso Hru e Khrau, ma non attaccheranno finché non sarà stato preso Laura. La forza dovrebbe essere sufficiente in tutti e tre i sistemi, ma io voglio mettere alla prova la tattica Ythrana… ed anche assicurarmi che non tirino fuori da sotto le penne qualche spiacevole sorpresa».

«Potrebbero farlo», disse Saracoglu. «Tu sai che le nostre informazioni su di loro lasciano molto a desiderare. Il problema di spiare i non umani… E poi è quasi impossibile trovare dei traditori Ythrani, e del tutto impossibile trovarne di preparati e attendibili».

«Ancora non capisco perché non puoi infiltrare degli agenti in quella colonia di Laura quasi interamente umana».

«L’abbiamo fatto, Ammiraglio, l’abbiamo fatto. Ma in quel gruppo di piccole comunità strettamente congiunte tra loro non hanno potuto che riferire ciò che era già evidente. Devi capire che gli umani di Avalon non pensano, non parlano, addirittura non camminano più come tutti gli altri umani dell’Impero. Imitarli non è possibile. E poi sono dannatamente pochi quelli che si possono comprare. Inoltre l’Ammiragliato di Avalon vanta delle eccellenti misure di sicurezza. Il comandante in seconda, un tipo di nome Holm, ha fatto a quanto pare molti viaggi in lungo e in largo per l’Impero, in tempi passati, ufficiali e non. Ho saputo che ha anche fatto studi avanzati in una delle nostre accademie. Lui conosce i nostri metodi».

«Io so invece che in questi ultimi anni ha rinforzato enormemente non solo la flotta laurana ma anche le difese del pianeta», disse Cajal. «Sì, non c’è dubbio che per prima cosa dobbiamo preoccuparci di lui».


…Questo accadeva alcune settimane addietro. Al momento (secondo il computo orario nell’infinita notte stellata) i Terrestri si stavano avvicinando al nemico.

Cajal sedeva solo nel cuore della supercorazzata Valenderay. Era circondato da schermi di comunicazione, e da un ronzante silenzio, e da chilometri radiali di metallo, macchinari, armi, blindature, energia, attraverso cui si affollavano migliaia di esseri viventi. Ma per il momento era consapevole solo di quello che c’era all’esterno. Uno schermo gli mostrava: oscurità, sciami di diamanti e Laura, minuscolo a diciannove unità astronomiche di distanza, ma dorato e scintillante, scintillante.

Le navi erano uscite dall’iperdrive e stavano accelerando in direzione del sole sotto la spinta della gravità. Molte erano ben più avanti della nave ammiraglia. Ci si poteva attendere uno scontro col nemico di minuto in minuto.

L’angolo destro della bocca di Cajal si piegò verso il basso, stringendosi in una smorfia. Era un uomo alto, magro, con il naso affilato, i capelli a punta sulla fronte e la barba ancora nera malgrado si avvicinasse alla sessantina. L’uniforme era sobria come richiedeva il suo rango.

Aveva fumato una sigaretta dopo l’altra. Si tolse l’ultima dalla bocca riarsa e la gettò a terra come se fosse impestata. Perché non riesco a sopportare questi ultimi istanti di attesa? si domandò. Forse perché io me ne starò al sicuro mentre mando gli uomini a morire?

Lo sguardo si posò su un ritratto della moglie morta, che stava in piedi davanti alla loro casa in mezzo agli alti alberi di Vera Fé. Fece per animarlo, ma preferì attivare un registratore.

Ne uscì della musica, un brano che lui e lei avevano amato, pressoché dimenticato sulla Terra, ma senza età nella sua trionfale serenità, la Passacaglia di Bach. Si piegò all’indietro, chiuse gli occhi e lasciò che la musica gli lenisse l’angoscia. Il dovere dell’uomo in questa vita, pensò, è di scegliere il male minore.

Il ronzio di un cicalino lo riportò bruscamente alla realtà. L’immagine del suo comandante esecutivo riempì lo schermo e disse: «Signore, abbiamo ricevuto ed avuto conferma di un rapporto in merito ad ostilità iniziali da parte dello Squadrone Vanguard Tre. Nessun particolare».

«Molto bene, Cittadino Feinberg», disse Cajal. «Mi faccia avere immediatamente qualsiasi informazione al riguardo».

Sarebbero arrivate subito, a valanga, al di là delle capacità di un cervello vivente. Poi sarebbero state filtrate attraverso un intricato complesso di subordinati e dei loro computer, e lui poteva solo sperare che i riassunti che avrebbe ricevuto avessero una qualche significativa relazione con la realtà. Ma quei primi resoconti diretti erano sempre sottilmente preziosi, come se il tono di una battaglia trapelasse già dai suoi inizi.

«Sì, signore». Lo schermo divenne opaco.

Cajal spense la musica. «Addio, per ora», bisbigliò, e si alzò in piedi. Nella stanza c’era un altro effetto personale, un crocifisso. Lui si tolse il berretto, si inginocchiò, e si fece il segno della croce. «Padre, perdona a noi ciò che stiamo per fare», pregò. «Padre, abbi pietà di tutti coloro che muoiono. Tutti».


«Ordine ricevuto, Governatore», annunciò la voce Ythrana. «Contatto con i Terrestri a circa dodici unità astronomiche di distanza, in direzione delle Lance. Aperto il fuoco da entrambe le parti, ma apparentemente ancora nessuna perdita».

«Grazie. Per favore, mi tenga informato». Daniel Holm spense l’intercom.

«Come se mi servisse a qualcosa!», gemette.

La sua mente si perse dietro i calcoli. La luce, la radio, i neutrini impiegavano circa otto minuti per percorrere un’unità astronomica. Le notizie erano vecchie più di un’ora. Quell’iniziale attacco esplorativo da parte di poche, piccole navi poteva benissimo essere già finito, con i frammenti degli sconfitti che turbinavano in orbite folli mentre i vincitori consumavano carburante come se i loro motori contenessero soli in miniatura, cercando di riguadagnare la velocità cinetica che avrebbe permesso loro di ricongiungersi. D’altronde, se altre unità sull’altro fianco non erano troppo distanti, potevano essersi fatte sotto anche loro per riempire lo spazio di testate nucleari in un raggio via via sempre più ampio.

Disse un’oscenità e si batté il pugno sul palmo. «Se solo potessimo comunicare ad ipervelocità…». Questo, però, non sarebbe stato pratico. Gli impulsi «istantanei» di un vascello che si muoveva a balzi quantici, prossimo alla velocità limite della natura, potevano essere modulati per inviare un messaggio ad una distanza di un anno luce o giù di lì, ma comunque non così all’interno del campo gravitazionale distorcente di una stella, dove si rischiava l’annientamento solo a cercare di viaggiare in modo non relativistico; naturalmente si poteva anche farla franca se si era assolutamente sicuri di essere ben sintonizzati, ma in tempo di guerra non lo era nessuno… e in ogni caso, data pure quella possibilità, i Terrestri sarebbero stati un nemico ancora più temibile, e il combatterli sarebbe stato disperato invece che quasi disperato… ma perché sto rivangando tutte queste sciocchezze?

«E Ferune è là, ed io sono qui!».

Balzò dal suo tavolo, si diresse pesantemente verso la finestra e rimase lì in piedi a fissare il panorama. Tra i denti il sigaro fumava come un vulcano. La giornata, al di fuori, era bella in modo insultante. Una brezza autunnale portava profumi salmastri su dalla baia, la quale scintillava e danzava sotto il cielo e il sole di Laura; e portava fragranze dai giardini che attraversava, giardini che brillavano intorno alle case. Nell’azzurra foschia della distanza si stagliavano le colline settentrionali. In alto stormivano delle ali, ma lui non ci fece caso.

Rowena lo raggiunse. «Lo sapevi che avresti dovuto rimanere, caro», gli disse. Aveva i capelli ancora color biondo rame, ed era ancora snella e diritta nella sua tuta.

«Già. In appoggio. Supporto logistico, per le comunicazioni e per i computer. E forse Ferune capisce meglio di me la guerra spaziale, ma io sono il solo che abbia realmente predisposto la difesa del pianeta. Ci siamo messi d’accordo, mesi fa. Niente disonore per me, perché faccio la cosa più sensata». Holm si girò verso la moglie, e la strinse per la vita. «Ma, mio Dio, Ro, non pensavo che sarebbe stata così dura!».

Lei gli prese la testa sotto la spalla e gli scompigliò i capelli grigi.


Ferune di Mistwood aveva progettato di portare con sé la sua compagna. Wharr gli era stata a fianco nel corso di una lunga carriera militare, aveva messo al mondo ed allevato i loro figli sulle navi avaloniane che accompagnavano ogni flotta Ythrana, si era esercitata e sapeva dirigere le squadre addette ai pezzi da fuoco. Ma lei era ammalata e i medici non erano riusciti a rimetterla in sesto prima che sopravvenisse l’attacco. Si invecchia così, in modo strano. A lui mancava molto la sua forza d’animo.

Ma era troppo occupato per star lì a rimuginare i loro addii. Alla sua nave ammiraglia continuavano ad arrivare rapporti su rapporti. Cominciava a venir fuori uno schema.

«Guarda», disse. I computer avevano appena modificato il pannello indicatore in base agli ultimi dati. Esso mostrava soli, pianeti, e delle scintille di diversi colori che rappresentavano le navi. «Combattimenti qui, qui, e qui. Altrove, emissioni di neutrini che raggiungono i nostri rivelatori, correlazioni incrociate che si svolgono, posizioni ottenute».

«Un’informazione vergognosamente insufficiente», dissero le penne e l’atteggiamento del suo aiutante.

«Così lontano, sì, con le distanze inteplanetarie. Ma noi possiamo comunque riempire certi vuoti col ragionamento, se partiamo dal concetto che il loro ammiraglio sia un individuo capace. Ho la moderata certezza che il suo movimento a tenaglia abbia solo due artigli, che avanzano quasi diametralmente opposti, da nord e da sud rispetto al piano dell’eclittica… così». Ferune indicò col dito. «Ora deve avere delle forze di riserva, ancor più all’esterno. Per evitare di formare un cerchio troppo largo e di conseguenza essere scoperte prematuramente, queste devono essersi mosse in linea retta rispetto alla normale direzione di Pax. E se fossi io al comando, le avrei fatte muovere lungo l’eclittica. Per cui dobbiamo aspettarci il loro assalto, quando si chiuderanno gli artigli, da qui». E indicò la zona.

Erano soli sul ponte di comando, largo come tutto l’interno della nave. Gli Ythrani avevano bisogno di molto spazio per allargare le ali. Comunque erano ben collegati alla nave tramite gli intercom, i calcolatori, gli ufficiali, l’equipaggio; lo erano un po’ meno con quella magnificenza che incupiva ed ingioiellava lo schermo visore, là dove era iniziato il combattimento. Il clangore e il fracasso dell’attività giungevano loro attenuati, attraverso un sordo mormorio di motori. Soffiava un’aria calda che arruffava un po’ le loro piume, un’aria profumata di cannella e di drago d’ambra. L’odore del sangue non sarebbe giunto a meno che e finché il vascello non avesse affrontato un vero combattimento; se stimolato troppo intensamente, l’equipaggio si sarebbe logorato presto.

Il piano di Ferune non prevedeva di arrischiare così presto la supercorazzata. Doveva risparmiarla per lo scontro finale. A quel momento avrebbe fatto vedere ai Terrestri perché essa portava il nome del luogo dove si era svolta una vecchia battaglia su Ythri. Sui fianchi, a grandi lettere, lui aveva fatto scrivere la traduzione in Anglico: Hell Rock.

Sull’indicatore apparve un nuovo sciame di granelli. La loro brillantezza indicava che si trattava di navi, così come suggeriva l’analisi delle loro emanazioni di neutrini. L’aiutante scattò in piedi, con la cresta diritta. «Tutti quegli avversari, così presto? Zio, le cose si mettono male».

«Lo sapevamo già da prima. Non lasciarti ipnotizzare da quel giocattolo. Ho affrontato cose peggiori. La metà del mio corpo è costituita da tessuto rigenerato in seguito a ferite riportate in combattimento. E sono ancora qui, perfettamente in grado di volare».

«Perdonatemi, Zio, ma gran parte dei vostri combattimenti erano azioni di polizia all’interno del Dominio. Qui è l’Impero, che ci sta venendo addosso».

Ferune espresse: «Me ne rendo conto benissimo. Ed ho studiato anch’io le tecniche militari più avanzate, sia in pratica che in teoria». Poi, ad alta voce: «Computer, robot, macchine contribuiscono solo a metà a creare il fascino di una guerra. Ci sono anche cuori e cervelli».

Gli artigli ticchettarono sul ponte mentre lui si dirigeva verso lo schermo e si chinava in avanti per vedere. Il suo occhio esperto colse un bagliore in mezzo alle stelle, una nave. Per il resto la sua flotta si perdeva allo sguardo nell’immensità attraverso la quale si era aperta a ventaglio.

«Sta per iniziare un nuovo scontro», disse l’intercom.

Ferune attese immobile che gli giungessero i particolari. Le parole di uno degli antichi libri terrestri che gli piaceva leggere attraversarono la sua mente: La paura di un re è come il ruggito di un leone: chiunque provochi in lui la rabbia pecca contro il suo animo.


Le ore si trasformarono in giorni, mentre le flotte, nelle loro formazioni enormemente sparpagliate, si individuavano e cercavano di colpirsi nei rispettivi punti deboli.

Considerate: all’accelerazione lineare di una gravità terrestre un vascello può, da un «punto fisso», coprire un’unità astronomica — circa 149 milioni di chilometri — in poco meno di quindici ore. Al termine di tale periodo, avrà guadagnato una velocità di 1060 chilometri al secondo. In un tempo doppio si muoverà ad una velocità doppia ed avrà coperto una distanza quattro volte superiore. Qualunque sia l’energia conferita dai motori termonucleari, qualunque manovrabilità derivi da una spinta gravitazionale che reagisce direttamente contro quel tessuto di relazione che chiamiamo spazio, a questo ordine di grandezza non sarà possibile alterare rapidamente le quantità.

C’è poi da considerare anche la semplice ampiezza delle distanze interplanetarie. Una sfera di una unità astronomica di raggio ha il volume di circa tredici milioni di milioni di terre; moltiplicare questo raggio per dieci significa moltiplicare il volume per mille. Per quanto sensibili siano gli strumenti, non è possibile sondare rapidamente quelle profondità, né farlo con troppa accuratezza al di là delle immediate vicinanze, né sapere dove si trovi sul momento un oggetto isolato se i segnali sono limitati alla velocità della luce. Con l’aumentare del cumulo follemente incompleto di dati, non cambiano solo i parametri del calcolo per la battaglia; cambiano anche le equazioni. Si può scoprire così di aver perso ore ed ore in un viaggio che è diventato quindi inutile o peggio ancora, ed altre ore o giorni si devono perdere per cercare di porre rimedio alla situazione.

Ma poi, rapido come un fulmine, sopravviene uno scontro abbastanza vicino a velocità più o meno simili, per un combattimento che può benissimo esaurirsi nello spazio di pochi secondi.


«Numero Sette, lancio!», ammonì il robot addetto ai pezzi, e scaraventò in battaglia la Hooting Star.

I motori fecero presa. Le ossa di Philippe Rochefort, seduto tutto bardato sulla poltroncina del pilota, furono attraversate da una vibrazione martellante. Al di sopra del quadro di comando, al di sopra del suo elmetto ed a lato di entrambe le spalle, gli schermi visori formavano i quattro quarti di un globo pieno di stelle. Laura, la cui brillantezza veniva filtrata attraverso un diaframma per non accecarlo, splendeva come un disco delicato tra due ali madreperlacee di luce zodiacale. Il suo allarme radar fischiò e si accese, facendo ruotare una freccia nell’interno di una sfera trasparente. Il suo cuore ebbe un sussulto. Non poteva fare a meno di guardare, e colse la visione del cilindro che si precipitava verso l’enorme fiancata dell’Ansa.

Durante il lancio, è necessario disattivare lo schermo negagrav in quella zona dell’astronave madre. E non c’è nulla che possa respingere un siluro. Se l’oggetto fa contatto ed esplode… Nel vuoto, parecchi chilotoni non sono poi così spaventosamente distruttivi come in aria o in acqua; ed una nave ammiraglia è corazzata e suddivisa in compartimenti per difendersi da urti o calore, e fittamente schermata per impedire alle radiazioni nocive di penetrare all’interno. Nondimeno subirà forti danni, forse rimarrà paralizzata, e gli uomini saranno fatti a brandelli, bruciati vivi, e grideranno il loro desiderio di morire.

Un raggio d’energia avvampò, seguito da un’istantanea incandenscenza. I sensori fornirono i loro dati ai relativi computer. Dopo un millisecondo dall’esplosione, trillò il suono che significava «eliminato». Uno dei cannoni di Wa Chaou aveva colpito in pieno il siluro.

«Ben fatto!», esclamò Rochefort nell’intercom. «Bel colpo, Occhio di Lince!». Fece ruotare i rivelatori in cerca della nave che doveva essersi avvicinata abbastanza per lanciare quel missile.

Registrazione. Individuazione. La Hooting Star schizzò in avanti. La Ansa si andava rimpicciolendo in mezzo alle costellazioni. «Dammi il tempo stimato per giungere a distanza di tiro, Abdullah», disse Rochefort.

«Sembra essersi accorto di noi», rispose la voce di Helu, fredda come il ghiaccio. «Dipende se cercherà di sfuggire o se si avvicinerà a… Hm-m, sì, sta manovrando per mettersi al riparo». (Lo farei anch’io, in tutta onestà, pensò Rochefort, se un incrociatore pesante mi sputasse addosso delle lance. È stato già coraggioso, quel capitano, a farsi così sotto). «Possiamo intercettarlo in circa dieci minuti, presumendo che sia al massimo dell’accelerazione. Ma non credo che ci sia nessuno che può venirci in appoggio, e se lo aspettiamo, quello riuscirà a scappare».

«Non aspetteremo», decise Rochefort. Comunicò via laser le sue intenzioni all’ufficio controllo squadre a bordo della nave e ne ricevette un okay. Nel frattempo desiderò di non sudare in modo così violento. Non si trattava di paura, però; il polso era leggermente accelerato, ma costante, e lui non aveva mai visto prima le stelle con quella chiarezza e quella precisione. Era confortante sapere che possedeva un coraggio innato, e poteva mettere a frutto lo psicoaddestramento dell’Accademia.

«Se ce la fate», disse l’ufficio controllo, «dirigete verso…» (seguì una sfilza di numeri che le macchine memorizzarono) «ed agite a vostra discrezione. Abbiamo identificato in quella zona una nave leggera da battaglia. Noi e il Ganimede cercheremo di decimare la loro difesa. Buona fortuna».

La voce tacque. La lancia sfrecciò via, guadagnando velocità ad ogni secondo finché i misuratori balistici non consigliarono di decelerare. Rochefort obbedì e trasmise in Morse gli ordini necessari. La sua testa fu attraversata dal ricordo assolutamente irrilevante di una lezione dell’istruttore. «I piloti umani, i cannonieri, il personale, tutti possono prendere delle decisioni. Le macchine eseguono gran parte di queste decisioni, assicurano e governano la rotta, puntano e sparano i cannoni, più rapidamente e con maggior precisione di quanto non facciano nervi o muscoli. Si potrebbero anche costruire delle macchine e dei computer dotati di autocoscienza. È stato fatto, in passato. Ma pure se le loro capacità logiche superano di gran lunga le vostre e le mie, ad esse è sempre mancata una certa qual completezza, chiamatela intuizione o sesto senso, o come vi pare. Inoltre sono troppo costose per poterne fare un’uso eccessivo. Voi, signori, siete dei computer dai molti scopi che hanno una ragione per combattere e sopravvivere. Quelli come voi sono in numero più che sufficiente e, a parte ogni programmazione, possono essere prodotti in nove mesi mediante un impiego che non richiede nessuna abilità». Rochefort ricordò di aver detto agli allievi delle classi inferiori che, se non si rideva a quella battuta stantia, erano tre punti di demerito.

«Sono a tiro», disse Helu.

I raggi di energia colpirono. I fotoni consumati e sparpagliati che bruciavano lungo la strada erano solo una minima parte della potenza che nascondevano.

Uno toccò la Hooting Star. I meccanismi automatici della lancia le fecero cambiare rotta prima che esso potesse penetrare nella sottile placcatura. Con un ruggito la lancia fece uno scarto di lato. I campi interni non riuscirono a compensare del tutto l’improvvisa accelerazione, e Rochefort fu schiacciato dentro la sua bardatura finché essa non scricchiolò, mentre il peso sotto i piedi si spostava vertiginosamente.

Passò. Tornò la normale gravità uno. Erano vivi. Sembrava che non ci fosse nemmeno bisogno di una toppa; se pure erano stati trafitti, il buco era abbastanza piccolo per richiudersi da solo. E laggiù, visibile ad occhio nudo, c’era il nemico!

Con le mani e con la voce Rochefort fece dirigere la sua lancia diritta contro quella sagoma oscura, la quale prese a crescere a velocità mostruosa. Ne scaturirono due raggi e colpirono. Rochefort mantenne costante il veicolo. Sperava che in tal modo Wa Chaou sarebbe riuscito a trovare un punto debole in quei raggi e li avrebbe eliminati prima che potessero arrecare un danno più serio. Due vampate! La brillantezza si spense. «Oh, splendido! Pronto con i siluri».

Gli Ythrani si fecero più vicini, e lui poté distinguere un’insegna dipinta, una ruota i cui raggi erano petali di fiori. Giusto, anche loro decorano con simboli personali le imbarcazioni minori, un po’ come facciamo noi quando gli diamo dei nomignoli non ufficiali. Mi chiedo che cosa significhi quello. Gli era stato detto che alcuni dei loro mezzi più veloci erano dotati di armi a pallottole. Ma gli oggetti solidi in cui ci si poteva imbattere non erano troppo pericolosi finché le relative velocità si mantenevano nell’ordine delle decine di chilometri al secondo.

Dal nemico partì un siluro, e Wa Chaou lo fece esplodere quasi dentro il tubo di lancio. Quello della Hooting Star, invece, colpì in pieno.

L’esplosione avvenne così vicina che i suoi gas infuocati riempirono lo schermo dei Terrestri. Un frammento colpì la lancia, che rabbrividì e stridette. Poi ne uscì fuori, sola nello spazio aperto. L’avversario era una nuvola che si gonfiò fino a diventare invisibile, pochi pezzetti bruciacchiati di metallo e forse di ossa che ghiacciarono trasformandosi in meteoriti, precipitando da poppa e sparendo alla vista in pochi secondi.

«Se mi concedete l’espressione», disse Rochefort in preda all’entusiasmo, «Yahuuu!».

«Quella era vicina», disse Helu. «Quando torneremo indietro faremo meglio a chiedere dei sovralimentatori antiradiazioni».

«Uh-huh. Adesso, però, abbiamo ancora un sacco da fare». Rochefort diede istruzioni alla lancia per cambiare i vettori. «Non c’è da temere nulla, visto come ve la cavate voialtri».

Non erano ancora in vista, quando dei radio messaggi esultanti ed un altro breve sbocciare di fiamme gli comunicarono che un mortale sciame di lance e missili avevano colpito a morte la nave da battaglia nemica.

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