14

Arinnian chiamò Eyath dal basso. «Hoy-ah! Scendi e vieni dentro». Sorrise e poi aggiunse in Anglico: «Noi Funzionari Importanti non abbiamo tempo da perdere».

Lei fece un’altra piroetta. Il sole alle sue spalle dava alle ali una sfumatura bronzea orlata di un alone dorato. Potrebbe essere il sole stesso, pensò Arinnian, o il vento, o qualsiasi cosa bella e selvaggia al di sopra di questo deserto di calcestruzzo. Poi si lanciò in avanti verso il «flitter», frenò in un turbine d’aria e fu in piedi di fronte a lui.

Il suo sguardo cadde preoccupato sulla sagoma a forma di siluro che si profilava dietro Arinnian. «Dobbiamo viaggiare su quello?» domandò.

«Dal momento che dobbiamo attraversare mezzo pianeta, sì», rispose lui. «Non è brutto, vedrai. Specialmente se le tappe non saranno lunghe. Ci vuole meno di un’ora per arrivare a St. Li». Da Tabby. «Su, dammi la mano».

Lei gliela diede. Le dita, i cui artigli potevano scorticarlo, erano snelle e calde, appoggiate fiduciosamente sulle sue. La aiutò a salire sulla passerella. Lei aveva già viaggiato parecchie volte su veicoli, naturalmente, ma sempre su aeromobili a «bulbo», fragili e lente perché le cabine di vitrile a forma di bolla non consentivano più che tanto.

«Questo è un problema che i gruppi come Stormgate, i cui membri sono in gran parte cacciatori, dovranno risolvere», disse lui. «Claustrofobia. Si limitano troppo le possibilità del viaggio quando non si può fare a meno di essere circondati da un involucro trasparente».

La testa di Eyath si sollevò. «Se Vodan può soffrire ancora peggio, mi vergogno di aver esitato, Arinnian».

«In effetti, spero che riuscirai a vedere ciò che vede Vodan. A lui piace trovarsi nello spazio con questo, no?».

«S-sì. Me l’ha detto lui. Non tanto da scegliere la carriera di pilota, ma dopo la guerra avremmo intenzione di visitare altri pianeti».

«Oggi cercherò di convincerti che sia il viaggio che l’obiettivo sono qualcosa di speciale… M-m-mm, lo sai, Eyath, due coppie ben assortite che viaggiano insieme… Beh, eccoci qui».

Lui la aiutò a sistemarsi nella bardatura del sedile accanto al pilota, benché lei fosse solo una passeggera. «Di solito questo non sarebbe necessario», le spiegò. «Il "flitter" è adatto anche al volo spaziale — potresti raggiungere Morgana senza difficoltà, ed anche i pianeti più vicini, se necessario — perciò dispone di campi anti-accelerazione, oltre ad una gravità interna in caduta libera. Ma noi voleremo alti, ai limiti dell’atmosfera, per non creare un boom supersonico. Ed anche se al momento la guerra langue, e avremo sulla testa una bella protezione di fortezze orbitanti, nondimeno…».

Lei strofinò la cresta sulla spalla di Arinnian. «Certo», mormorò.

Lui si assicurò, controllò gli strumenti, ricevette l’autorizzazione a partire, e decollò. Le fasi iniziali furono controllate a distanza, per evitargli di imbattersi nella danza di proiezioni negagravitazionali che proteggevano lo spazioporto. Una volta al di là, salì il più velocemente possibile, finché, giunto nelle parti alte dell’atmosfera, diede al velivolo l’energia calcolata per ridurre al minimo il tempo di passaggio.

«O-o-o-oh», fece Eyath, ansimando. Filavano tranquilli. Gli schermi visori rimandavano l’immagine ripresa in molte direzioni. Al di sotto, Avalon era un oceano argentato. Tutt’intorno il crepuscolo porporino, il sole, la luna, poche stelle: l’immensità, fredda e serena.

«Avrai visto le fotografie», disse Arinnian.

«Sì. Ma non è la stessa cosa». Eyath gli strinse il braccio. «Grazie, caro compagno di vento».

E vado da Tabby, per riferirle di un piano di battaglia che potrebbe anche funzionare, e al quale sarà necessario che lavoriamo insieme. Com’è possibile tanta felicità?

Il loro volo proseguì in un silenzio Ythrano che può essere un compagno di gran lunga preferibile alle chiacchiere umane.

Il cielo si annuvolò, poco prima di giungere a destinazione, ma una volta attraversato il velo di foschia si trovarono davanti un cielo grigio perla, le acque indaco merlettate di bianco, e l’isola di un verde soffice. Il campo di atterraggio era piccolo, scavato sul fianco della montagna a pochi chilometri dall’insediamento dove abitava Tabitha. Quando Chris l’aveva avvisata del suo arrivo, lei gli aveva promesso di venirlo a prendere.

Si liberò della bardatura con le dita che tremavano un poco. Senza fermarsi ad aiutare Eyath, si affrettò verso il compartimento stagno. Si era aperto e la passerella sporgeva all’infuori. Un venticello gli scompigliò i capelli, caldo, umido, profumato dagli janie piantati intorno al campo.

Tabitha era lì sotto, che lo salutava con la mano.

Per salutarlo, usò la sinistra: con la destra stringeva la mano del terrestre.

Dopo mezzo minuto disse: «Hai intenzione di startene lì impalato per tutto il giorno, Chris?».

Lui scese. I due si sciolsero e tesero le mani alla maniera terrestre, mentre il piede di lei accarezzava quello di Rochefort. Tabitha non indossava nulla se non pochi disegni in una tinta color carne. Inclusa la lieta banalità del cuore trafitto da una freccia.

Arinnian si inchinò. «Abbiamo un argomento urgente da discutere», le disse in Planha. «Sarà meglio andare subito in volo a casa di Draun».

In realtà il socio ed ufficiale superiore di Tabitha attendeva a casa di lei. «A casa mia ci sono troppi adolescenti e servitori», borbottò. «Ritengo che la segretezza sia importante, altrimenti avresti semplicemente telefonato… malgrado ci sia quel tuo dannato fanfarone».

«I miei ospiti sono sempre i benvenuti», replicò asciutta la donna.

Arinnian si domandò se era solo la sua mente ad avvertire la tensione, o se invece era proprio nell’atmosfera. Draun, magro, pieno di cicatrici, non aveva le penne erette, ma sedeva sulla coda e sugli alettoni in un modo che suggeriva un evidente cattivo umore, e continuava ad accarezzare il suo pugnale. Lo sguardo di Tabitha sembrava soffermarsi su Rochefort con meno tenerezza di quanto aveva fatto al campo, ma quasi in senso di sfida.

Guardandosi intorno, Arinnian trovò il soggiorno leggermente cambiato. Fino ad allora gli era piaciuto. Era stata lei stessa a progettarlo. Il soffitto, un fluoropannello, era basso secondo la moda Ythrana, per armonizzare tutte le proporzioni. Alcune stuoie di susin giacevano sul pavimento di quercia levigata, tra le pareti in legno e rame dalle ampie finestre, e sotto le poltrone, le zampe dei tavoli ed un’urna di pietra colma di germogli. Anche se ogni cosa era lustra e risplendente, non mancava traccia del suo abituale disordine, qui un portapipe ed una borsa per il tabacco, là un libro, e più in là ancora un modellino di nave che stava costruendo.

Oggi, tuttavia, lui notò i testi che servivano a istruire uno straniero su Avalon, e una chitarra che doveva essere stata ordinata di recente, poiché lei non suonava quello strumento. Nel corridoio che portava alla sua stanza da letto non era stata tirata la cortina; Arinnian colse la visione di un nuovo letto matrimoniale in legno e pelle.

L’ala di Eyath lo toccò. A lei Draun non piaceva. Lui sentì il calore che si irradiava da quel corpo.

«Si», disse. «Dobbiamo tenere nascosta la faccenda». Posò gli occhi su Rochefort. «So che hai studiato il Planha. A che punto sei?».

Il sorriso del terrestre era stranamente timido per un nemico d’un altro pianeta che era riuscito ad abbagliare una ragazza di nome Hrill. «Non molto avanti», ammise. «Potrei anche provare a pronunciare qualche parola, a meno che voi non troviate il mio accento troppo atroce».

«Se la sta cavando benissimo», disse Tabitha, e gli si strinse addosso.

Con il braccio intorno alla vita della ragazza, Rochefort dichiarò: «Io non ho alcuna possibilità di rivelare i vostri piani ai miei compagni, se è questo che ti preoccupa, Cittadino… uh, voglio dire Christopher Holm. Ma sarà meglio che chiarisca la mia posizione. Io sono dalla parte dell’Impero. Quando ho accettato questo incarico, ho fatto un giuramento, ed ora non ho alcun motivo di rinnegarlo».

«Ben detto», commentò Eyath. «Così direbbe anche il mio fidanzato».

«Che cos’è l’onore per un terrestre?», disse con disprezzo Draun. Tabitha gli rivolse un’occhiata furiosa. Prima che lei potesse dire qualcosa Rochefort, il quale non aveva evidentemente capito la frase espressa in Planha, proseguì:

«Come potete vedere, io… voglio sistemarmi su Avalon, alla fine della guerra. Comunque vada a finire. Ma credo che possa finire solo in un modo. Christopher Holm, oltre ad innamorarmi di questa fanciulla, mi sono innamorato del suo pianeta. Potrei indurti a prendere in considerazione l’inevitabile, prima che l’orrore si abbatta su Tabby e su Avalon?».

«No», rispose Arinnian.

«Lo supponevo». Rochefort sospirò. «D’accordo, andrò a fare una passeggiata. Basterà un’ora?».

«Oh, sì», rispose Eyath in Anglico.

Rochefort sorrise. «Amo la tua gente».

Eyath diede una gomitata ad Arinnian. «Hai bisogno di me?», gli chiese. «Devi spiegare l’idea generale. Io la conosco già». Emise un rumore sibilante che esisteva solo nel dialetto Planha di Avalon… una specie di risatina. «Tu sai che le mogli non si concedono i passatempi dei mariti».

«Eh?», fece lui. «Cosa vuoi fare?».

«Andare a spasso con Ph… Phee-leep Hroash For. Lui è stato dove è stato Vodan».

Anche tu? pensò Arinnian.

«E poi lui è il compagno di Hrill, nostra amica», aggiunse Eyath.

«Vai pure, se lo vuoi», disse Arinnian.

«Un’ora, dunque». Gli artigli ticchettarono, le penne frusciarono mentre Eyath attraversava il pavimento verso il terrestre. Allungò una mano e lo prese per un braccio. «Vieni; abbiamo molto di cui parlare», gli disse nel suo Anglico cadenzato.

Lui sorrise di nuovo, sfiorò con le sue labbra quelle di Tabitha, ed accompagnò fuori l’Ythrana. Dietro di loro cadde il silenzio, fatta eccezione per il mormorio degli alberi al di fuori. Arinnian rimase in piedi dove si trovava. Draun rise sprezzante. Tabitha andò in cerca delle sue pipe, ne scelse una e cominciò ad accenderla, con lo sguardo intento su tale manovra.

«Non prendertela con me», disse Draun. «Gli avrei staccato la testa come ho fatto con il suo amico dalla pelle glabra, se Hrill non si fosse opposta. Sai che lei non ha voluto che io ricavassi un boccale da quel teschio?».

Tabitha si irrigidì.

«Beh, dimmelo, quando ti sarai stancata delle sue lusinghe», continuò Draun. «Gli aprirò il ventre sull’altare di Illirian».

Lei si girò di scatto e lo fissò. La cicatrice sulla guancia spiccava sulla pelle, bianca come un osso. «Stai forse chiedendomi di mettere fine alla nostra relazione?», le uscì fuori quasi in un ringhio. «O di sfidarti?».

«Tabitha Falkayn può disporre come vuole della sua vita, Draun», intervenne Arinnian.

«Ar-r-rkh, se avessi potuto fare come volevo», grugnì l’altro maschio, con le penne arruffate e i denti digrignati. «Comunque, per quanto tempo ancora dovremo starcene rinchiusi in questa gabbia di navi terrestri?».

«Finché sarà necessario», scattò Tabitha, ancora pallida e tremante. «Vuoi forse andare alla carica e morire per niente, come qualsiasi stupido eroe delle saghe? O dare il benvenuto alle testate nucleari che possono trasformare interi continenti in un oceano di fuoco?».

«Perché no? Alla fine tutto muore». Draun sorrise. «Che splendido finale pirotecnico, sarebbe! Certo, preferirei spedire la Terra in fiamme tra i venti infernali; ma dal momento che questo non si può fare, sfortunatamente…».

«Io preferirei perdere una guerra piuttosto che uccidere un pianeta, invece, qualsiasi pianeta», disse Tabitha. «Tanto più se ci sono esseri viventi. E preferirei perdere questo pianeta piuttosto che vederlo ucciso». Abbassò il tono della voce e fissò in volto l’Ythrano. «Il tuo problema è che l’Antica Fede rinfocola il desiderio di uccidere che la guerra ha suscitato in te… e tu non hai modo di soddisfarlo».

L’espressione di Draun diceva: Forse. Ma almeno non vado a letto con il nemico. Tuttavia rimase silenzioso, e Tabitha lo lasciò perdere. Si volse invece verso Arinnian. «Puoi cambiare la situazione?», gli chiese, con un sorriso quasi timido.

Lui non glielo restituì. «Sì», rispose. «Lasciate che vi spieghi che cosa ho in mente».


Poiché gli ornitoidi non passeggiavano volentieri per lunghi tratti, ed una conversazione prolungata in volo era impossibile, Eyath condusse Rochefort alle stalle. Dopo le numerose visite delle ultime settimane, conosceva bene la strada. C’erano pochi zirraukh, lì dentro, ed un cavallo per Tabitha. I primi erano più piccoli del secondo e gli rassomigliavano solo perché erano anch’essi quadrupedi a sangue caldo — non mammiferi, a stretto rigore di termini — ma svolgevano comunque le stesse mansioni. «Puoi equipaggiare il tuo animale?», domandò lei.

«Sì, ora che vivo qui da un po’. Prima, non ricordo di aver mai visto un cavallo fuori da uno zoo». La sua risatina fu meccanica. «Ehm, non avremmo dovuto chiedere il permesso?».

«Perché? I membri dei gruppi osservano in genere le abitudini dei loro ospiti, ed a Stormgate non chiedi qualcosa in prestito, quando ti trovi tra amici».

«Vorrei davvero che lo fossimo».

Lei fece leva con la mano contro il box della stalla per allungare l’ala e gli sfiorò dolcemente la guancia con i remiganti.

Montarono in sella e marciarono fianco a fianco lungo una pista attraverso il bosco. Le foglie stormivano alla brezza marina, con una sfumatura argentata in quella luce chiara e senza ombre. Gli zoccoli toccavano terra con un tonfo, ma l’aria umida impediva alla polvere di sollevarsi.

«Sei gentile, Eyath», disse infine Rochefort, un po’ a disagio. «Molti lo sono stati. Più di quanti, temo, un prigioniero di guerra non umano potrebbe incontrarne su un pianeta umano».

Eyath cercò le parole. Si serviva dell’Anglico più per esercizio che per cortesia. Ma qui il suo problema era quello di trovare i concetti. La semplice frase che le venne in mente le sembrò pura tautologia: «Non bisogna odiare per combattere».

«Invece aiuta. Se sei umano, almeno», replicò lui con disappunto. «E quel Draun…».

«Oh, lui non odia te. È sempre cosi. Io provo… pietà?… per sua moglie. No, non pietà. Ciò significherebbe che la ritengo inferiore, no? E invece lei resiste».

«Perché rimane con lui?».

«I figli, naturalmente. E forse non è infelice. Draun deve avere i suoi lati buoni, se sta insieme a Hrill. Eppure, il mio matrimonio sarà molto più fortunato».

«Hrill…». Rochefort scosse la testa. «Penso di aver meritato l’odio del tuo, uh, fratello Christopher Holm».

Eyath gorgheggiò. «È evidente. Tu hai ottenuto quello che lui desiderava più d’ogni cosa. È ferito, e si può sentire il sangue sgocciolare».

«Non t’importa? Considerando come siete vicini?».

«Beh, non gioisco al suo dolore. Ma lui riuscirà a dominarlo. E poi mi domandavo se lei non avrebbe costituito un vincolo troppo stretto». Dacci un taglio, amico. Eyath soffermò lo sguardo sull’uomo. «Ma stiamo cianciando di cose che non ci riguardano. Volevo chiederti delle stelle che hai visto, degli spazi che hai attraversato, e di che cosa significhi far la guerra lassù».


«Non lo so», disse Tabitha. «Sembra dannatamente incerto».

«Indicami uno stratagemma che non lo sia», replicò Arinnian. «Il fatto è che, sia che riesca o no, avremo cambiato i termini del combattimento. Gli Imperiali non avranno motivo di bombardare, avranno anzi un’ottima ragione per non farlo, ed Avalon sarà salvo». Guardò Draun.

Il pescatore rise. «Se mi piace o no, akh?», disse. «Beh, penso che sia buono qualunque piano che ci consenta di uccidere personalmente i terrestri».

«Sei sicuro che atterreranno dove si pensa?», domandò Tabitha.

«No, naturalmente non siamo sicuri», rispose rabbiosamente Arinnian. «Faremo tutto il possibile per far sì che quella zona si riveli la scelta più logica, per loro. Tra le altre mosse, stiamo progettando qualche diserzione. I terrestri non dovrebbero sospettare che sono opera nostra, perché in effetti non è difficile lasciare questo pianeta. Le sue difese non riguardano oggetti che volino verso l’esterno».

«Hmmm». Tabitha si strofinò il mento… la grossa mano ben sagomata sulla mascella robusta, sotto la bocca massiccia… «Se fossi un ufficiale del servizio segreto terrestre e mi si presentasse qualcuno che affermasse di essere scappato da Avalon, lo sottoporrei ad una… come lo chiamano, quell’aggeggio osceno? Una ipnosonda».

«Senza dubbio». Arinnian annuì con un vigoroso cenno del capo. «Ma avremo dei fuggiaschi genuini. Mio padre ha incaricato uomini in gamba di prendersi cura della cosa. Non conosco i particolari, ma posso immaginarli. C’è tanta gente in preda al panico, o che vorrebbe che ci arrendessimo perché è convinta che perderemo comunque. E c’è ancor più gente che la pensa così, ma con minore convinzione, e della quale i primi si fideranno. Immaginate… beh, immaginate, per esempio, di convincere il presidente Vickery a far partecipare un potenziale traditore ad una discussione segreta. Vickery spiega che ha intenzione di mollare, che per lui agire apertamente equivarrebbe ad un suicidio politico, ma che può darsi da fare per far sì che certe persone riferiscano le sue proposte ai terrestri. Non capite? Io non voglio dire che le cose andranno realmente in questo modo. In effetti non so nemmeno fino a che punto ci si può fidare di Vickery. Ma possiamo lasciare agli uomini di mio padre il compito di pensare ai dettagli».

«E lo stesso sarà per le disposizioni militari che renderanno plausibile la storia. Buono, buono», disse Draun, con malcelata esultanza.

«È per questo che sono venuto», disse Arinnian. «La mia missione consiste nell’impartire istruzioni ai capi delle guardie nazionali e nel coordinare i loro sforzi».

Si alzò dalla poltrona e cominciò a camminare su e giù davanti a Tabitha, senza mai guardarla in faccia. «Nel vostro caso la missione include un extra», proseguì, con distacco. «Sarebbe utilissimo se un terrestre tornasse dai suoi a confermare le false informazioni».

L’alito uscì come un sibilo dalle labbra della ragazza. Draun spostò il suo peso in avanti, dagli alettoni ai pollici del piede.

«Sì», disse Arinnian. «Il tuo caro Philippe Rochefort. Digli che sono qui perché sono preoccupato per Equatoria». E entrò nei dettagli. «Io inventerò qualche impegno nelle isole vicine, e me ne andrò in volo insieme ad Eyath. Il nostro apparecchio è qui dietro, custodito con negligenza. Tu lo lasci girovagare liberamente, no? Il comportamento del terrestre non potrà che essere uno».

Il cannello della pipa di Tabitha le si ruppe tra le dita. Non si accorse nemmeno del fornello che cadeva a terra, sparpagliando cenere e pezzi di tabacco infuocato. «No», disse.

Arinnian scoprì che non gli costava molto fermarsi e fissarla in volto, come fece. «Lui è più importante del tuo mondo?».

«Che Dio mi incenerisca se accetterò mai di servirmi di lui», disse la ragazza.

«Be’, ma se il suo nobile spirito non si sogna nemmeno di dubitare di te, cosa temi?».

«Non permetterò mai che il mio onore sia indegno del suo», replicò Hrill.

«Quel lurido individuo?», la schernì Draun.

Gli occhi della ragazza corsero a lui, mentre la mano si allungava verso il tavolo vicino sul quale giaceva un pugnale.

Lui fece un passo all’indietro. «Ne ho abbastanza», disse fra le labbra.

Fu un sollievo, quando il successivo silenzio venne interrotto bruscamente. Qualcuno bussava alla porta, facendo un gran fracasso. Arinnian, che era il più vicino, la aprì. Dietro c’era Rochefort, ed alle sue spalle un cavallo ed uno zirraukh. Respirava a fatica, e sembrava che il sangue fosse defluito dalla sua carnagione abbronzata.

«Non dovresti essere già qui», gli disse Arinnian.

«Eyath…», esordì Rochefort.

«Che cosa?», Arinnian lo afferrò per le spalle. «Dov’è?».

«Non lo so. Io… stavo andando a cavallo, chiacchierando… Tutto d’un tratto lei si è messa a gridare. Cristo, non riesco a togliermi quel grido dalla testa. E poi ha preso il volo, con le ali che battevano come un mantice, ed è scomparsa al di là degli alberi prima che potessi richiamarla. Io… io ho aspettato, finché…».

Tabitha gli si avvicinò. Fece per spingere da parte Arinnian, poi vide come se ne stava lì tutto deciso, con le dita affondate nella carne di Rochefort, e si trattenne. «Phil», gli disse a voce bassa. «Tesoro, pensaci. Deve aver sentito qualcosa di terribile. Che cosa era?».

«Non riesco ad immaginarlo». Il terrestre fremeva sotto la stretta di Arinnian, ma rimase dov’era. «Mi aveva chiesto, beh, di parlarle della guerra nello spazio. Delle mie esperienze. Ed io le stavo raccontando dell’ultimo scontro prima del nostro naufragio. Ti ricordi, ne ho parlato anche a te».

«Un particolare di cui non ti ho chiesto?».

«Beh, io… mi è successo di dirle che avevo notato l’insegna sullo scafo avaloniano, e lei mi ha chiesto com’era».

«E poi?».

«Gliel’ho detto. Non avrei dovuto?».

«Com’era?».

«Tre stelle dorate lungo una curva iperbolica».

Arinnian lasciò andare Rochefort. Il pugno colpì in pieno il volto dell’uomo. Rochefort barcollò all’indietro e cadde al suolo. Arinnian tirò fuori il coltello, si mosse per colpire, poi si dominò. Rochefort si mise a sedere, stupefatto, con la bocca che sanguinava.

Tabitha si inginocchiò accanto a lui. «Non potevi saperlo, mio caro», gli disse. Anche il suo autocontrollo era vicino alla rottura. «Ma tu le hai detto che il suo amante è morto».

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