17

L’armata Imperiale accerchiò Avalon e l’attacco cominciò.

Una volta ancora navi e missili si lanciarono, dardi d’energia solcarono i cieli, globi infuocati esplosero e morirono, in uno spazio di migliaia e migliaia di chilometri quadrati. Stavolta quelli che guardarono da terra videro i bagliori risplendere, ora dopo ora, fino a che gli occhi nonne soffrirono, e videro il mondo diventare momentaneamente livido e gettare grandi ombre. La battaglia si spostava in avanti.


Nondimeno avanzò a passo misurato. Cajal aveva affrettato la sua decisione e scagliato la sua potenza con la massima velocità militarmente possibile — questione di giorni — per evitare che il nemico avesse il tempo di rafforzare quel suo punto vulnerabile. Ma adesso che era in ballo, non voleva correre rischi inutili. Bastavano quei pochi. E poi la situazione era del tutto diversa dalla precedente. Aveva a disposizione circa il triplo della forza, e non aveva preoccupazioni se anche i resti della marina avaloniana potevano agire di nascosto negli oscuri abissi del sistema di Laura. Le pattuglie riferivano, in base alle indicazioni strumentali, che essi si stavano raccogliendo alla distanza di una o due unità astronomiche. Poiché non mostravano alcuna intenzione di lanciarsi nella fornace, lui non vedeva il motivo di sprecare armi contro di loro.

Non ordinò nemmeno la demolizione definitiva dell’ammiraglia di Ferune, quando i robot all’interno riconobbero il nemico ed aprirono il fuoco. Fluttuava lontana, ed aveva scarse munizioni ed una portata di tiro troppo ridotta perché valesse la pena di perdere tempo con lek Era più semplice oltrepassare il povero vecchio scafo e le ossa che ne costituivano l’equipaggio.

Invece si concentrò sulla metodica riduzione delle difese planetarie. Il guscio più esterno era costituito dalle fortezze, alcune grandi, la maggior parte più piccole, in azione di pattuglia in centinaia di orbite inclinate a molti angoli rispetto all’eclittica. Rispetto alle navi spaziali vere e proprie avevano certi vantaggi. Potevano essere rifornite in continuazione dal basso. Quasi tutte interamente automatiche, erano meno versatili ma anche meno fragili dei nervi e della carne. Un certo numero delle più piccole non era nemmeno stato scoperto, finché non aveva avuto la ventura di strapazzare qualche terrestre di passaggio.

Tutto questo, comunque, era successo nel corso della prima battaglia. Di conseguenza la flotta assediante d’appoggio aveva potuto tracciare il grafico di ciascuna, distruggendone non poche ed impedendo ogni tentativo di rimpiazzarle. E nemmeno il lancio di salve da terra poteva più considerarsi una sorpresa. E nello spazio le navi avevano i loro vantaggi, per esempio la mobilità.

La tecnica generale di Cajal fu quella di spedire squadre ad alta velocità ed accelerazione. Non appena il bersaglio era a portata di tiro, esse sguinzagliavano tutto ciò di cui disponevano e poi applicavano immediatamente vettori imprevedibili per sfuggire al fuoco di risposta. Se la prima ondata falliva, seguiva subito una seconda, una terza, una quarta… finché la difesa non era saturata e la stazione esplodeva in vapori e frammenti. Non avendo adesso alcun motivo di proteggersi le spalle o le linee di rifornimento, Cajal poteva largheggiare con le munizioni, e infatti lo faceva.

Le navi spaziali, in tutto quel movimento, erano obiettivi virtualmente disperati per i missili che dovevano sollevarsi nell’atmosfera, vincendo la forza di gravità, partendo da velocità iniziale zero. Gli Avaloniani se ne accorsero ben presto e desistettero in seguito da quella manovra.

Il piano di Cajal non richiedeva la preventiva distruzione di ciascuna unità orbitale. Sarebbe stato talmente costoso che avrebbe dovuto fermarsi ed attendere ulteriori rifornimenti da parte dell’Impero; e invece lui aveva fretta. Decise perciò che era necessario neutralizzare la luna, e per un po’ Morgana fu circondata e tempestata a tal punto che le montagne crollarono e le valli si liquefecero.

Per il resto, nel complesso, gli Imperiali puntarono su quelle fortezze che, nelle loro orbite sempre mutevoli, avrebbero potuto minacciare la prima forza di sbarco nella data prevista dallo schema tattico. Limitando così il suo obiettivo, Cajal riuscì a concentrare efficacemente tutte le sue energie. Quelle ore brucianti, che raggiunsero i due giorni avaloniani, videro la più rapida penetrazione mai effettuata in difese così robuste.

Inevitabilmente subì delle perdite. Perdite che aumentarono quando le sue navi cominciarono a passare così vicine al di sopra dell’atmosfera che i proiettori e le postazioni di missili di stanza al suolo presero a funzionare con grande efficacia. Il passo successivo fu quello di rendere impotenti alcune di quelle armi, insieme a certe altre installazioni.


Il capitano Ion Munteanu, addetto al comando del tiro a bordo del Phobos, istruì i suoi ufficiali mentre la nave si lanciava in avanti.

«La nostra è una missione speciale, come dovete aver intuito dal tipo di vascello che ci è stato assegnato. Non stiamo andando a dare una ripulita ad un posto che dà fastidio ai ragazzi. Siamo diretti verso una città. Vedo una mano. Domande, guardiamarina Ozumi?».

«Sì, signore. Due. Come e perché? Noi possiamo lanciare siluri e missili da richiamo a sufficienza, ed abbastanza funzionali, al punto che se insistiamo abbastanza a lungo, qualcuno dovrà per forza attraversare o aggirare i negacampi, ed esplodere dove può fare un bel lavoro. Cioè contro bersagli militari. Ma senza dubbio le loro città avranno una protezione più efficace».

«Lei forse vuole insegnare a chi ne sa di più, guardiamarina? Certamente che l’avranno. Attrezzature potenti e complicate, più una protezione esterna costituita da missili terra-aria. Noi bombarderemo quanto più e quanto meglio possiamo, in modo che la detonazione avvenga ad alta quota substratosferica. Lo schema che sto per mettere in atto dovrebbe consentire ad almeno un’unità di raggiungere quel livello prima di essere intercettata. Se no, ricominceremo da capo».

«Signore, lei non intenderà distruggere un continente!».

«No, no. Si calmi. Si ricordi che questa nave non è nemmeno attrezzata per una cosa del genere. Abbiamo ordini di non danneggiare irreparabilmente i beni immobili di Sua Maestà. No, si tratterà di armi pesanti e crudeli, è vero, ma pulite, e regolate per scaricare il loro contenuto direttamente sul bersaglio, prevalentemente sotto forma di radiazioni. I disintegratori non servirebbero a molto, contro i negacampi. Daremo una spruzzata alla parte centrale della città, ed il Servizio Segreto mi riferisce che i settori periferici sono altamente infiammabili».

«Signore, non voglio annoiarla. Ma perché facciamo una cosa del genere?».

«Non per capriccio, Ozumi. Bisogna effettuare uno sbarco. La guerra dall’esterno potrebbe durare un bel po’. Questa particolare città, Centauro, come la chiamano loro, è il porto principale e la capitale industriale. Non lasceremo che continui a rifornire i nostri nemici».

La fronte di Ozumi era cosparsa di goccioline di sudore. «Donne e bambini…».

«Se hanno un po’ di buon senso, devono già aver evacuato tutte le persone non essenziali», scattò Munteanu. «Onestamente, non me ne importa un accidente. L’ultima volta ho perso un fratello, qui. E se ha finito di piagnucolare, possiamo metterci al lavoro».


Quenna volava lentamente al di sopra del canale di Livewell Street. Era caduta la notte, una notte chiara, contrariamente a quasi tutte le notti degli opprimenti inverni del Delta. Per quello, ed anche a causa dell’oscuramento, poteva vedere le stelle. La spaventarono; ce n’erano troppe, di quelle piccole cose fredde ed ostili. E non erano soltanto stelle, le era stato detto. Erano soli, e da essi veniva la guerra, quella guerra che aveva messo sottosopra il mondo.

Era stato bello dapprima, con tutto quell’andirivieni di Ythrani, e il tintinnio nei borsellini, e i momenti in cui dimenticava tutto tranne la bellezza del maschio e il suo amore; in mezzo a loro, poteva permettersi sbronze e droghe per sentirsi felice, soprattutto alle feste. Le feste erano un’idea umana, a quanto aveva sentito (chi era stato a dirglielo? Cercò di ricordarsi il volto, il corpo. E ci sarebbe anche riuscita, se l’uno e l’altro non si fossero confusi tra le voci, la musica ed il fumo che inebriava). Una buona idea. Come le era sembrata la guerra. Amore, amore, amore, risate, risate, risate, sonno, sonno, sonno, e se poi ti svegli con la lingua cattiva e gli aghi che ti trafiggono la testa, poche pillole ti rimetteranno subito in sesto.

Solo che poi era finita male. Niente più marinai. Il Nido vuoto, una caverna, notte dopo notte dopo notte. Anche molti umani se ne andavano, e quelli che rimanevano — lei non aveva disdegnato la loro compagnia — se ne stavano sottoterra. Le notti nere e tranquille, la ronzante solitudine del giorno, il denaro che diminuiva sempre più, a tal punto che poteva appena comprarsi da mangiare, lasciavano solo una bottiglia o una pillola, per scacciare i brutti sogni.

Un battito d’ali. Doveva esserci qualcuno in città, solo, ora che era ricominciata la battaglia. «Sono sola anch’io», gridò. «Chiunque tu sia, ti amo». La sua voce risuonò fin troppo alta in quell’aria calda e immobile, sopra le acque oleose e le strade deserte, in mezzo a quelle mura piene di ombre e sotto quelle terribili, piccole stelle.

«Vodan?», chiamò con voce più bassa. Era quello che ricordava meglio, fra i marinai, quasi come i primi che si erano serviti di lei, più anni addietro di quanti non volesse ricordare. Era stato gentile, e si era preoccupato della sua amata, che era rimasta a casa, come se quella stupidella lo meritasse. Ma si stava comportando da sciocca. Senza dubbio le stelle si erano ingoiate Vodan.

Drizzò la cresta. Aveva anche lei il suo orgoglio. Non avrebbe avuto paura, nelle strade di mezzanotte. Ben presto sarebbe giunta l’alba, e lei avrebbe potuto dormire.

Il sole sorse rapidamente.

Le fu concesso un attimo, prima che esso riempisse il cielo. Poi la notte la ghermì, mentre gli occhi le si scioglievano. Ma non se ne accorse, perché le sue piume bruciavano. Il suo grido affogò nel fragore, quando molecole d’aria superveloci scivolarono tra i negacampi, e non si rese conto nemmeno dei timpani che si schiantavano e dei capillari che si rompevano. Nel suo delirio di dolore non c’era altro che il canale. Si lanciò verso di esso, lo mancò, e andò a finire contro una casa che esplose in un’unica fiammata. Ma non fece gran differenza, perché anche le acque del canale stavano bollendo.


A parte le questioni morali e il potenziale bellico, l’attacco a Centauro impegnò gran parte delle risorse di Avalon in una gigantesca operazione di tamponamento e soccorso. Era stato ben calcolato. Appena tre ore più tardi, lo squarcio che era stato aperto nelle difese fu completato e la prima ondata d’assalto vi si infilò dentro.

Rochefort si trovava all’avanguardia. Lui ed il suo equipaggio riunito in tutta fretta non aveva avuto molte occasioni per far esercizio, ma erano uomini in gamba e la Meteora portò a termine la sua missione con un élan che lui desiderò davvero di poter provare. Essi estesero l’interferenza per permettere il passaggio delle cannoniere più pesanti finché quelle non si trovassero al di sotto della quota pericolosa. Di passaggio, bloccarono un paio di missili nemici. Benché nessun mezzo spaziale funzionasse efficacemente nell’atmosfera, un lanciasiluri offriva un’accettabile manovrabilità, un’ampia potenza di fuoco ed un’ancor più ampia disponibilità di gente preparata a bordo. Le macchine guidate da semplici robot non potevano competere.

Avendo visto che il suo incarico era prossimo al termine, Rochefort diresse il suo vascello, secondo le istruzioni, contro la fonte dei missili. Si trovava al di là delle montagne, nella gola di un verde intenso scavata da un fiume. Le lance terrestri rombarono una dopo l’altra, lanciarono raggi e siluri contro i negacampi e i bunker, virarono di coda e schizzarono in alto verso la stratosfera, per poi tornar giù di nuovo per il secondo assalto. Non ci fu bisogno di un terzo. Una serie di crateri si aprì in mezzo alle creste ridotte in frantumi dalle esplosioni soniche. Rochefort desiderò poter dimenticare com’era stato bello quel canyon.

Ritornando a Scorpeluna, trovò che l’intero convoglio era atterrato. Marinai ed ingegneri stavano scendendo a sciami dalle navi addette al trasporto del personale, e le macchine dei vagoni merci. In alto, i mezzi di pattuglia oscuravano il cielo. Seguirono alcuni giorni alacri. Sotto l’apparenza di un’attività frenetica era sempre presente il pericolo dell’isterismo. Chi poteva sapere con certezza cosa aspettarsi dal nemico?

Non successe nulla. I generatori di schermi energetici furono montati e messi in funzione. Furono messi in posizione i proiettori ed i missili difensivi. Furono costruiti dei capannoni per l’equipaggiamento, e in seguito per gli uomini. E non fu sferrato alcun contrattacco.

Gli esploratori e gli strumenti di rivelazione aerei riferirono una considerevole attività nemica sugli altri continenti e tra le isole. Senza dubbio stavano preparando qualcosa. Ma non sembrava esserci una minaccia immediata.

Si aprì il secondo squarcio, attraverso il quale, senza incontrare alcuna opposizione, si riversò la seconda ondata. La base di Scorpeluna si allargò a macchia d’olio.

Dal momento che la sua intenzione era ormai chiara, Cajal fece distruggere varie altre fortezze orbitali, in modo da aprire ulteriori squarci. Poi fece indietreggiare il grosso della flotta, e da lì cominciò a rifornire la base di uomini ed attrezzature.

Le ultime navi avaloniane si fecero pian piano più vicine, azzardando qualche sortita per poi tornare subito a ritirarsi, ma erano lupi troppo malridotti per costituire una seria minaccia. Non fu fatto alcun serio tentativo contro di loro. L’essenziale era approfittare di quel tacito cessate il fuoco finché durava. Perciò ovunque gli Imperiali si astennero da azioni offensive. Lavorarono per fortificare le loro posizioni e per allargarle in modo che non dovessero soltanto difendersi, ma costituissero un vero e proprio maglio pronto a colpire tutto Avalon.


Dal momento che godeva il favore del grande ammiraglio, il tenente Philippe Rochefort (recentemente promosso senior) vide accolta la sua richiesta di un incarico continuato sul pianeta. E poiché non c’era più necessità di lanciasiluri spaziali, si trovò a guidare una pattuglia aerea volante a bordo di una bagnarola a due posti, una slitta gravitazionale carica di gloria.

Il compagno che gli era stato assegnato era un caporale di marina, Ahmed Nasution, diciannove anni standard, appena uscito da New Djawa ed appena arruolato nel corpo. «Sa, signore, tutti mi dicevano che questo pianeta era un paradiso», gli disse, esagerando il tono pietoso per assicurarsi che il suo superiore afferrasse il concetto. «Arruolati in marina e vedrai l’universo, eh?».

«Questa zona non è tipica», rispose un po’ bruscamente Rochefort.

«Quale lo è», aggiunse l’altro, «su un intero mondo?».

La bagnarola volava bassa al di sopra del pianoro di Scorpeluna. Il tettuccio era chiuso per evitare che entrasse l’aria bollente. Un sistema di tubi Hilsch ed il vitrile auto-oscurante facevano del loro meglio (inadeguato, in verità) per combattere quel calore, il cielo di ottone, il sole gonfio e abbagliante. Gli unici rumori erano il ronzio dei motori, e il sibilo del passaggio. All’orizzonte si stagliavano i picchi delle montagne, di un blu pallido ed irreale. In mezzo il vuoto. Cespugli, sempre le stesse specie basse, con le foglie rossastre, e dal profumo di medicinali, crescevano a perdita d’occhio e irregolarmente distribuite sulla terra rossa ed ostile. Il terreno non era proprio piatto. Si sollevava in spianate e monticelli capricciosi, o si apriva in grandi squarci brulli. Da lontano si potevano distinguere pochi animali a sei zampe, che pascolavano proteggendosi dal caldo per mezzo delle loro membrane parasole. Per il resto nulla si muoveva, tranne i tremiti dell’aria ardente e i mulinelli di polvere.

«Ha qualche idea di quando ce ne andremo di qui?», domandò Nasution, allungando la mano alla ricerca di una bottiglia d’acqua.

«Quando sarà il momento», rispose Rochefort. «E vacci piano con quell’acqua. Abbiamo ancora parecchie ore, davanti a noi».

«Perché il medico non si arrende, signore? Un gruppo di noi, nella mia tenda, ha captato una delle loro trasmissioni — non è proibito, no? -, una trasmissione in Anglico. Non sono riuscito a capire troppo bene, con quel buffo accento e, uh, frasi come "gli Imperiali ci hanno dato solo un’artigliata", bisogna fermarsi e cercare di capire l’immagine, e intanto il discorso va avanti. Ma per Gehenna, signore, noi non vogliamo far loro del male. Non possono essere ragionevoli e…».

«Sssh!». Rochefort sollevò il braccio. La sua radio di intercettamento aveva identificato un appello. Si sintonizzò su quella banda.

«Aiuto! Mio Dio, aiuto!… Ingegnere Gruppo Tre… animali selvaggi… distanza stimata trentaquattro chilometri nord-nord-ovest dal campo… Aiuto!».

Rochefort fece virare il velivolo.

Arrivò in pochi minuti. Il distaccamento, dieci uomini in autoblinda, era stato inviato in ricognizione geologica per determinare la possibilità di far esplodere e collegare con micce un grosso missile-silo. Erano armati, ma non si aspettavano altri problemi se non il disagio del viaggio. La mandria di bestie esapodali delle dimensioni di un cane li aveva sorpresi a parecchie centinaia di metri dal loro veicolo.

Due di essi erano a terra, e le bestie li stavano divorando. Tre erano fuggiti all’impazzata in preda al terrore, cercando di raggiungere la vettura, ed erano stati circondati uno per uno. Rochefort e Nasution ne videro uno sopraffatto dagli aggressori. Gli altri erano rimasti immobili, schiena contro schiena, e facevano fuoco senza posa. Eppure sembrava quasi impossibile uccidere quelle sagome squamose e setolose. Anche mutilati, essi si lanciavano in avanti con le mascelle spalancate.

Rochefort gridò nella trasmittente perché gli mandassero dei soccorsi, piombò al suolo e si scatenò. Anche Nasution, tra le lacrime, fece un buon lavoro con il suo fucile. Tuttavia, prima che riuscissero ad avere ragione dei licosauroi, altri due umani perirono.

Dopo quell’episodio, ciascun gruppo che lasciava il campo fu fornito di una scorta aerea, il che rallentò le operazioni altrove.


«No, dottore. Non credo più che sia psicogeno». Il maggiore diede un’occhiata fuori dalla finestra della baracca del dispensario, verso un tramonto innaturalmente rapido che una tempesta di sabbia colorava di rosso sanguigno. La notte avrebbe portato sollievo all’orribile calore… sotto forma di un gelo che ti logorava dentro. «Dapprima ero disposto a crederlo. Comunque le tue psicodroghe non servono più a nulla. E sempre più alto è il numero degli uomini che rivelano questi sintomi, come lei sa meglio di me. Dolori di pancia, diarrea, fitte muscolari, e più sete di quanto non giustifichi questa dannata aridità. Inoltre tremori e pesantezza di testa. Non voglio nemmeno dirle in che condizioni ho lavorato oggi».

«Anch’io ho i miei problemi, nel cercare di capire». L’ufficiale medico si passò una mano sulla tempia, dove lasciò una striscia di polvere, malgrado l’aria infuocata facesse evaporare il sudore prima che potesse trasformarsi in gocce. «Anche vista annebbiata, spesso? Sì».

«Ha preso in considerazione un avvelenamento dell’ambiente?».

«Certamente. Lei non era nella prima ondata, maggiore. Io sì. Il Servizio Segreto, così come la storia, ci hanno assicurato che Avalon è sufficientemente pulito. Eppure, mi creda, non avevamo nemmeno finito di sistemare il campo che la squadra scientifica era già al lavoro».

«Si potrebbero interrogare i prigionieri Avaloniani?».

«Mi è stato assicurato che l’hanno fatto. In effetti, sono state effettuate delle successive azioni di commando proprio per averne di più a tale fine. Ma non è verosimile che essi, a parte pochi specialisti, siano al corrente dei particolari riguardanti la regione più proibita di un intero continente, per di più disabitata».

«E naturalmente gli Avaloniani hanno tenuto ben nascosti quegli esperti». Il maggiore respirò pesantemente. «E che cosa ha scoperto la sua squadra?».

L’ufficiale medico frugò nella scatola aperta sul suo scrittoio alla ricerca di una pillola stimolante. «C’è una, ah, alta concentrazione di metalli pesanti nel terreno. Ma nulla di cui preoccuparsi. Si potrebbe respirare per anni la polvere prima di aver bisogno di una cura. I cespugli qui intorno utilizzano quegli elementi nel loro metabolismo, come c’era da aspettarsi, e noi abbiamo avvisato di non masticare o bruciare alcuna parte di essi. Non ci sono composti organici che si siano rivelati allergeni. Senta, la biochimica umana e quella Ythrana sono così simili che le due razze possono nutrirsi in gran parte degli stessi cibi. Se questa zona nascondesse qualcosa di così terribilmente mortale, non crede che il colono normale ne avrebbe almeno sentito parlare? Io vengo dalla Terra, costa centro occidentale del Nord America…: oh, Signore…». Per un poco distolse lo sguardo da Scorpeluna, scuotendo le spalle. «Vivevamo in mezzo agli oleandri. Li coltivavamo per i loro fiori. Gli oleandri sono velenosi. Bisogna starci attenti».

«Dev’esserci un’altra causa», insisté il maggiore.

«Stiamo studiando», disse il medico. «Se qualcuno avesse previsto che questo pianeta poteva valere qualcosa dal punto di vista militare… avrebbe dovuto essere studiato prima ancora che scatenassimo la guerra, con la massima cura… Troppo tardi».


Piccole lance occasionali, rimasugli della flotta avaloniana, guizzarono tra gli assedianti terrestri ad alta velocità ed alla massima accelerazione variabile. Circa la metà furono distrutte; le altre riuscirono a passare e tornarono verso lo spazio. Era noto che scambiavano messaggi con il suolo. Con codici e raggi laser appropriati, bastavano uno o due secondi per passare una gran quantità di informazioni.

«Evidentemente stanno preparando una mossa», disse con voce dura Cajal al suo staff. «Altrettanto evidentemente, se tentiamo di inseguirli, si sparpaglieranno e svaniranno a distanza, sulle lune e sugli asteroidi, come hanno fatto in precedenza. Ed avranno dei piani d’emergenza. Io propongo di non separarci, signori. Terremo qui tutta la nostra forza».

Perché un numero crescente di informazioni indicava che, per terra e per mare, sotto il mare e nei cieli, i coloni si stavano finalmente preparando a contrattaccare.


Rochefort udì le grida per quasi un minuto prima di registrarle consciamente. Gesù, si disse cercando di superare la pesantezza, cosa mi succede? I suoi muscoli protestavano nel guidare il velivolo, mentre le dita erano come salsicce sul quadro di comando. Accanto a lui Nasution sedeva accasciato senza dire una parola, ed era così da giorni (settimane? anni?). Le guance imberbi avevano ceduto ed erano coperte da una barba nera e disordinata.

Eppure il velivolo di Rochefort riuscì a giungere in aiuto di coloro che dall’alto cercavano di proteggere una pattuglia di terra. Purtroppo non si poteva fare molto più di loro. Le armi ad energia inceneriscono in un lampo centinaia di quegli affari simili a scarafaggi, lunghi venti centimetri, la cui moltitudine anneriva il terreno in mezzo ai cespugli. Ma non poterono salvare gli uomini che erano stati già raggiunti dagli insetti e con i quali essi stavano banchettando. Rochefort si astenne prudentemente dal guardare coloro ai quali i piloti, dall’alto, davano il colpo di grazia. Si abbassò anche lui e fece salire a bordo i superstiti. Dopo quello che aveva visto, e nelle attuali condizioni fisiche, Nasution era troppo malconcio per essere di qualche aiuto.

Avendo evidentemente captato l’odore della carne portato dal vento, in quella terra affamata, i kakkelak cominciarono a sciamare verso la base principale. Non potevano volare, ma avanzavano in modo incredibilmente veloce. L’unico tentativo che si poteva fare era quello di formare un cordone infuocato intorno a loro.

Nel frattempo gli Avaloniani atterrarono su tutta Equatoria, sparpagliandosi per ogni dove con tale velocità — dato l’equipaggiamento leggero — che bombardarli sarebbe stato inutile. Tutti coloro che si addentrarono in Scorpeluna erano Ythrani.


Gli alti ufficiali medici e i planetologi si incontrarono col loro comandante. All’esterno un vento equinoziale mugghiava e sibilava nella notte senza stelle; la polvere frusciava contro le pareti di metallo che vibravano. Il calore sembrava giungere a raffiche, enormi e aride.

«Sì, signore», disse il comandante medico. Appartenendo alla marina vera e propria più che ai «marines», era inferiore di grado rispetto all’ammiraglio. «Ne abbiamo avuto le prove al di là di ogni ragionevole dubbio». Sospirò, e il suono si sparse nel vuoto. «Se avessimo avuto un equipaggiamento migliore, maggior personale… Beh, se ne occuperà la commissione d’inchiesta, o la corte marziale. Il fatto è che la scarsità di informazioni ci ha attirato in una trappola mortale».

«Troppi mondi». Il planetologo civile scrollò la grossa testa. «Ed ognuno troppo grande. Chi poteva saperlo?».

«Mentre voi state lì a blaterare», disse il comandante, «gli uomini muoiono in preda al delirio ed alle convulsioni. Sempre più ogni giorno che passa. Parlate». La sua voce era roca per la rabbia e per un pianto non del tutto sfogato.

«Sospettavamo un avvelenamento da metalli pesanti, naturalmente», disse l’ufficiale medico. «Abbiamo fatto ripetuti esami. La concentrazione è sempre sembrata entro limiti accettabili. Poi, dall’oggi al domani…».

«Non importa», lo interruppe il planetologo. «Ecco i risultati. Questi cespugli che crescono dovunque, qui intorno… sapevamo che assorbono elementi come l’arsenico e il mercurio. Ed anche l’arbusto infernale, che emette vapori letali, era stato descritto e fotografato. Quello che non sapevamo è che qui c’è una particolare specie di arbusto infernale. Ha un aspetto assolutamente diverso dagli altri. Immagini le rose e le mele. Inoltre, non avevamo idea di come agisse la tossina del genere descritto, si immagini questo! Dev’essersi evoluto dopo che furono pubblicate le descrizioni originali, quando si era dato per certo un composto puramente organico. Il volume di informazioni in ogni scienza è tale da sommergere…». Si interruppe, senza sapere più che cosa dire.

Il comandante attese.

L’ufficiale medico riprese il discorso. «I vapori portano i metalli in stretta combinazione con… una serie di molecole di cui nessun testo autorevole che io abbia letto aveva mai sentito parlare. La loro azione è… beh, bloccano certi enzimi. In realtà, vengono distrutte le difese del corpo. Nessun atomo metallico viene più espulso, ed ogni microgrammo di essi penetra fino agli organi vitali. Nel frattempo la vittima è ancor più indebolita dal fatto che una parte della sua chimica proteica non funziona come dovrebbe. Gli effetti sono sinergici ed esponenziali. All’improvviso si supera un certo limite».

«Io… capisco», disse il comandante.

«Noi alti ufficiali non siamo ancora in condizioni troppo brutte», gli disse il planetologo. «E nemmeno il nostro personale. Gran parte del tempo ce ne stiamo al riparo. Ma gli uomini…». Si strofinò gli occchi. «Non che io possa definirmi un uomo in buona salute», borbottò.

«Che cosa consigliate?», domandò il comandante.

«L’evacuazione», rispose l’ufficiale medico. «E non mi limito a consigliarglielo, le dico che non abbiamo alternativa. I nostri uomini hanno bisogno immediatamente delle cure adatte».

Il comandante annuì. Ammalato anche lui, e mostruosamente stanco, già da qualche giorno si aspettava una risposta del genere ed aveva cominciato pian piano a fare i preparativi.

«Non possiamo decollare domani», disse con voce strascicata. «Non abbiamo i mezzi; in gran parte sono tornati nello spazio. E poi un volo in preda al panico farebbe di noi degli ottimi bersagli per gli Avaloniani. Cercheremo di trasportare i casi più gravi, e richiameremo tutti al campo principale. Se faremo le cose con ordine e con calma, riporteremo giù la maggior parte delle navi». Non riuscì a controllare il tremito del labbro superiore.


Mentre gli Imperiali si ritiravano, i nemici attaccarono.

Non lanciarono missili terra-terra. Però i loro contingenti umani costruirono basi che avessero tale possibilità, in punti scelti per tutto il continente di Equatoria. Non fu difficile. A loro interessavano soltanto armi a breve gittata, che richiedevano poco più che una rastrelliera di lancio, e mezzi aerei, che richiedevano poco più che una baracca di assistenza per se stessi e per gli equipaggi. L’impresa più importante fu l’installazione di possenti proiettori di energia sui picchi che sovrastavano Scorpeluna.

Nel frattempo gli Ythrani scatenarono la guerriglia sull’altopiano. Essi, assai meno vulnerabili a quelle piante velenose, erano in piena forma e non ostacolati dalle tute, i respiratori ed i fazzoletti con i quali gli uomini cercavano freneticamente di proteggersi. Già provvisti di ali, non avevano bisogno di starsene seduti in macchine che i radar, i gravar e i magnetoscopi potevano individuare in un raggio di chilometri. Potevano invece colpire da qualsiasi rifugio offrisse il terreno, spruzzare di fuoco e metallo una colonna in marcia faticosa, scagliare granate contro un veicolo, riempire di pallottole qualsiasi velivolo, e sparare prima che fosse possibile qualche reazione efficace.

Inevitabilmente, anche essi subirono le loro perdite.

«Hya-a-a-ah!», gridò Draun di Highsky, e si lanciò giù da una rupe attraverso l’abbagliante vampa del sole. In fondo ad un burrone inaridito, un contingente di terrestri avanzava pesantemente verso il campo, proveniente da una postazione quasi terminata. La polvere rendeva ogni uomo più anonimo di quanto non facesse quel poco che rimaneva dell’uniforme. In mezzo a loro arrancavano le autoblindo, mentre qualche mezzo aereo volava sopra le teste. Una slitta gravitazionale trasportava i cadaveri che si mummificavano rapidamente, e che erano stati ammucchiati in pile.

«Gettateli ai venti infernali!». Il lanciaproiettili tremava nella stretta di Draun. Il rinculo continuava a fargli perdeve l’equilibrio, in mezzo a quelle correnti ascensionali così violente. Si era sempre vantato che le sue ali erano troppo robuste e veloci per risentire di un effetto del genere.

Gli Ythrani schizzavano a bassa quota, facevano fuoco, e risalivano verso l’alto. Draun vide gli uomini cadere come sacchi vuoti. Mentre roteava oltre la portata di tiro, vide che i loro compagni formavano un quadrato, nascondendosi dietro le vetture e l’artiglieria, mentre i velivoli cercavano di proteggerli dall’alto. Combattono ancora con coraggio, pensò, e si domandò se non fosse meglio lasciarli stare. Ma l’idea era proprio quella di costringerli ad una formazione chiusa, per poi lanciargli addosso, in un secondo passaggio, una bomba alla tordenite.

L’assalto, le pallottole e i dardi d’energia, poi i gemiti alle sue spalle, orrendamente familiari. Draun frenò, tornò in zona, e vide Nyesslan, il suo primogenito, la speranza della sua casa, che scendeva a spirale verso il terreno su un’ala e mezza. Lo squadrone Ythrano lo fiancheggiava nel pieno impeto dell’attacco. «Eccomi, ragazzo!». Draun scivolò giù accanto a lui. Nyesslan giaceva a terra svenuto, con il sangue che macchiava la polvere. Il secondo attacco fallì, e degenerò in un confuso svolazzare prima ancora di giungere a portata di tiro. Fedeli all’insegnamento per cui dovevano riunirsi in gruppo, gli Ythrani batterono in ritirata, sparendo alla vista. Un plotoncino si diresse verso Draun. Lui rimase in piedi sopra Nyesslan, e sparò finché ne fu capace.


«Spazzate via tutto quanto hanno ancora in orbita», disse Cajal. «Abbiamo bisogno di campo libero per spostare in continuazione i nostri trasporti».

Il capo del personale si schiarì la gola. «Hr-r-m, l’ammiraglio sa delle navi nemiche?».

«Sì. Stanno accelerando verso l’interno. È piuttosto chiaro che tutte quelle che possono, cercano di dirigere verso il pianeta in caduta libera; le altre fanno azione di disturbo».

«Non dovremmo cercare di intercettarle?».

«Non possiamo sprecare mezzi. Spazzare via quelle fortificazioni esaurirebbe buona parte delle nostre sforze. Il nostro primo compito è quello di tirar fuori gli uomini dal vicolo cieco in cui noi… io… li ho cacciati». Cajal si irrigidì. «Se si possono ragionevolmente risparmiare alcune unità di lavoro orbitale, sì, che vadano pure a caccia di tutti gli Avaloniani che possono, purché usino le munizioni con molta parsimonia, e si servano soprattutto delle armi a energia. Io dubito che riusciranno a farne fuori molti. Gli altri dovremo lasciarli andare per i fatti loro, forse con qualche rimpianto da parte nostra». Emise una risatina metallica. «Come diceva sempre all’Accademia il vecchio professore Wu-Tai, ti ricordi, Jim? "La prova migliore che si può sempre prendere una decisione è la nostra stima fallace delle probabilità"».


Le tempeste tropicali su Avalon erano più furiose di quanto potesse immaginare chi proveniva da un pianeta con minore irradiazione e rotazione più lenta. Per un giorno e una notte, l’imbarco degli uomini più gravi dovette essere rimandato. Oltre alla possibilità di perdere il vagone-trasporti, c’era la certezza che quelle piogge brucianti avrebbero ucciso qualcuno mentre veniva trasportato dalle baracche alle passerelle.

Quelli più o meno sani, atterrati di recente, dovettero lottare per erigere degli argini. I rapporti, appena udibili e gracchianti in mezzo alle scariche di elettricità statica, riferivano che da ogni ruscello si riversava un’ondata dirompente.

Nessuna di queste condizioni riguardava Rochefort. Lui si trovava a uno stadio intermedio, troppo malridotto per lavorare, troppo sano per richiedere un trasporto immediato. Seduto su una sedia, era accalcato in mezzo a centinaia di suoi compagni, in un bunker puzzolente ed esalante vapori, cercando di dominare i brividi e la nausea che lo attraversavano ad ondate successive, e talvolta pensava indistintamente a Tabitha Falkayn e talvolta ad Ahmed Nasution, che era morto tre giorni prima.


Le navi avaloniane che erano riuscite a passare attraverso lo sbarramento discesero su Equatoria, dove ufficiali della guardia nazionale assegnarono loro le rispettive posizioni.

La tempesta ebbe un’ultima sfuriata prima di cessare. I primi vascelli imperiali decollarono dalla base semidistrutta. Erano navi da guerra, che sondavano il terreno per le improvvisate navi-ospedale imbottite di uomini che dovevano seguirle. Dei caccia giunsero in appoggio abbandonando la loro orbita.

Daniel Holm era seduto di fronte ad un analizzatore, che inviavia le sue parole ed il suo volto ossuto alle trasmittenti più potenti del pianeta, collegate fra loro. Una trasmissione che non si poteva fare a meno di sentire:

«… Stiamo bloccando la loro rotta di fuga. Non potete far fuoco su di noi in tempo utile per salvare un numero di uomini che, secondo i nostri calcoli, ammonta ad un quarto di milione. Anche se non resistessimo, forse la metà di loro non ce la farebbe mai a sopravvivere per ricevere le cure adeguate. E non voglio neppure pensare agli altri… danni agli organi, ai nervi, al cervello, ben oltre le possibilità di rigenerazione della moderna medicina.

«Noi possiamo salvarli. Noi di Avalon. Abbiamo a nostra disposizione le attrezzature, su tutto il pianeta. Letti, équipe di infermieri, equipaggiamento per le diagnosi, droghe adeguate, trattamenti di sostegno. Le vostre squadre d’ispezione ed il vostro personale medico saranno i benvenuti. Il nostro desiderio non è quello di far manovre politiche sulla pelle di esseri umani. Nel momento in cui voi accetterete di rinnovare il cessate il fuoco e di far indietreggiare la vostra flotta garantendoci la sicurezza, le nostre squadre di salvataggio prenderanno il volo per Scorpeluna».

Загрузка...