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Dove il possente Sagittario si getta nel Golfo dei Centauri, la seconda città di Avalon — l’unica oltre a Gray che meritasse il nome di città — era sorta come porto fluviale, marittimo e spaziale, come centro industriale e come mercato. E così Centauro era in prevalenza una città umana, come molte nell’Impero, affollata, agitata, rumorosa, allegramente corrotta, occasionalmente pericolosa. Quando vi si recava, per gran parte del tempo Arinnian doveva mutarsi in Christopher Holm, nel comportamento così come nel nome.

Adesso lo richiedevano gli impegni difensivi. Lui non si stupì di esser nominato ufficiale capo della guardia nazionale di Corona Occidentale… non in quella società in cui il nepotismo era una norma. Lo sorprese invece il fatto di cavarsela piuttosto bene, e perfino di divertirsi, in un certo senso un po’ sinistro, lui che aveva sempre disprezzato l’uomo che «si annullava nel gregge». In capo a poche settimane si fece una vasta istruzione girando qua e là per il distretto e si trovò a buon punto per quanto riguardava il regolamento, le comunicazioni ed i rifornimenti. (Naturalmente fu aiutato dal fatto che la maggior parte degli avaloniani erano cacciatori entusiasti, spesso impegnati in gruppi numerosi nelle battute; e che i Tumulti avevano lasciato una tradizione militare non difficile da resuscitare; e che c’era sempre il vecchio Daniel a disposizione per dargli dei consigli). Organizzazioni analoghe erano spuntate un po’ dappertutto. Avevano bisogno di coordinare i loro sforzi con le misure che erano state prese dalla Fratellanza dei Marinai. Fu indetta una conferenza, che svolse un duro lavoro e realizzò, dei suoi obiettivi, tutti quelli che era possibile sperare.

In seguito Arinnian disse: «Hrill, ti andrebbe di uscire e fare un po’ di festa? Forse non avremo più molte occasioni». Non aveva parlato impulsivamente; erano un paio di giorni che rimuginava dentro la domanda.

Tabitha Falkayn sorrise. «Certo, Chris. Lo faranno tutti».

Passeggiarono lungo Livewell Street. Lui teneva la mano di lei nella sua; nel calore subtropicale avvertì il trasudare della loro pelle.

«Io… beh, perché in genere ti rivolgi a me chiamandomi con il mio nome umano?», le domandò. «E parlandomi in Anglico?».

«Siamo umani, tu ed io. Non abbiamo le penne per esprimerci in Planha, come si dovrebbe fare. Perché ti preoccupi?».

Per un attimo lui si sentì impacciato. Una domanda così personale… un insulto, tranne che tra gli amici più intimi, quando si trasforma in segno d’affetto… no, immagino che abbia ragione lei a pensare ancora da umana. Si fermò ed agitò la mano libera. «Guarda là e smettila di far domande», le disse, per rendersi conto istantaneamente con paura che forse era stato troppo brusco.

Ma la grossa ragazza bionda obbedì. Questa parte della strada correva lungo un canale, oleoso e pieno di rifiuti, carico di chiatte, soffocato da costruzioni tutte attaccate tra loro, le cui squallide facciate si lanciavano verso il cielo notturno a dieci o dodici piani. Le stelle e il semicerchio bianco di Morgana si perdevano in mezzo alle luci abbaglianti, ammiccanti, saltellanti e striscianti di cartelloni a colori violenti. (TANA DEL GROG, DANZE, TAVERNA, PIACERI TERRESTRI GENUINI, CASA DEL DIVERTIMENTO, SPASSATEVELA CON MARIA JUANAS, GIOCO D’AZZARDO, RAGAZZE NUDE, PRESTITI, COMPRATE… COMPRATE… COMPRATE…). Cimici di terra riempivano le strade, pedoni i merciapiedi, un marinaio, un pilota, un guidatore di chiatte, un pescatore, un cacciatore, un contadino, una prostituta, un segretario, un ubriaco lì lì per svenire, un altro ubriaco che litigava con un monitor, un uomo grosso e peloso e malvestito che se ne stava in un angolo a blaterare di un’oscura salvezza, un fiume infinito di uomini che ribollivano, gridavano, chiacchieravano, attraverso il rombo dei motori, il trapestio dei piedi, gli altoparlanti che vomitavano suoni rauchi. L’aria puzzava di polvere, fumo, petrolio, acque di scolo, carne, era l’alito degli acquitrini circostanti che almeno là avrebbero avuto un sano aroma di decomposizione, ma che qui aveva un odore disgustoso.

Tabitha gli sorrise di nuovo. «Beh, per me questo è divertimento, Chris», gli disse. «Per che altro siamo venuti?».

«Tu non vorrai dire…», farfugliò lui. «Voglio dire, una come te?».

Si accorse di essere rimasto a bocca aperta davanti a lei. Entrambi indossavano delle camicette sottili con le maniche corte, dei gonnellini e dei sandali; gli indumenti aderivano ai corpi umidi. Ma, nonostante il corpo luccicante di sudore e il profumo di calore femminile che lui non poteva fare a meno di notare, lei si ergeva come una creatura del mare e dei cieli aperti.

«Certo, che c’è di male in un po’ di volgarità, di tanto in tanto?», gli disse, sempre accondiscendente. «Sei troppo puritano, Chris».

«No, no», protestò lui, pensando adesso che lei lo potesse giudicare ingenuo. «Pignolo, forse. Ma io sono stato qui più di una volta e, ehm, me la sono spassata. Quello che cercavo di spiegarti è che, ehm, io… io sono orgoglioso di far parte di un gruppo e non lo sono affatto che i membri della mia razza abbiano scelto di vivere in un porcile. Ma non lo vedi, questa è la vecchia vita, quella da cui i pionieri volevano fuggire».

Tabitha disse una parola, e lui ne fu colpito. Eyath non avrebbe mai parlato in quel modo. La ragazza sorrise. «O, se preferisci, un nonsenso», proseguì. «Ho letto gli scritti di Falkayn. Lui ed i suoi seguaci non desideravano nient’altro se non uno spazio libero». Gli diede una gomitata, per farlo muovere. «E quella cena che avevamo in programma?». Lui si mosse, stordito.

Si riprese un po’ nella compiacente oscurità della Phoenix House. Tra le altre cose, riconobbe tra sé e sé, il locale era fresco e gli abiti di lei non mettevano in risalto il suo corpo come facevano all’esterno.

Il loocale aveva servizio dal vivo. Lei ordinò un cocktail al fior di gatto. Lui no. «Dài», gli disse. «Esci dal tuo guscio».

«No, grazie, davvero». Trovò le parole. «Perché limitare le mie sensazioni ad un solo attimo di felicità?».

«Mi sembra di aver già sentito prima questa frase. È un detto di Stormgate?».

«Sì. Ma credevo che nemmeno ad Highsky facessero molto uso di droghe».

«Infatti è così. Tranne che nei sacri festeggiamenti. La maggior parte di noi pratica l’Antica Fede, lo sai». Tabitha lo fissò per un istante. «Il tuo problema, Chris, è che ci metti troppo impegno. Rilassati. Frequenta di più quelli come te. Di quanti umani sei amico? Dannatamente pochi, ci scommetterei».

Lui si risentì. «Ultimamente ne ho visti un mucchio».

«Già. E, emergenza o no, non fa bene, forse? Io non vorrei mai condizionare la vita di un altro, naturalmente, né sto insinuando che ciò valga per te… ma è indubitabile che un uomo o una donna che cerchino di essere Ythrani sono degli illusi e nient’altro».

«Beh, dopo tre generazioni si può anche avere il diritto di sentirsi insoddisfatti nel proprio gruppo», disse lui, misurando il sarcasmo con la maggior abilità possibile. «Hai passato un bel po’ di tempo a girovagare in territorio umano, no?».

Lei annuì. «Parecchi anni. Cacciatrice itinerante, trapper, navigante, cercatrice d’oro, su gran parte del territorio di Avalon. Ho guadagnato al gioco una buona fetta della quota che ha consentito a Draun e a me di metterci in affari… l’ho guadagnata ai tavoli da poker più disparati». Rise. «Accidenti, a volte è più facile esprimersi in Planha!». Poi, seria: «Ma ricordati che io ero giovane quando i miei genitori si persero in mare. Fui adottata da una famiglia Ythrana, che mi incoraggiò a fare un periodo di vagabondaggio; queste sono le usanze di Highsky. Semmai, la mia gratitudine e la mia lealtà al gruppo ne furono rafforzate. È solo che io, beh, io riconosco di essere umana, ecco tutto. E come tale, ho da offrire cose che…». Si interruppe e voltò la testa. «Ah, ecco il mio drink. Parliamo di cose più banali. A St. Li muoiono quasi di fame».

«Credo che berrò qualcosa anch’io», disse Arinnian.

Lo trovò molto utile. Ben presto presero allegramente a scambiarsi i ricordi. Lei aveva indubbiamente condotto una vita molto più avventurosa della sua, ma anche lui non aveva vissuto in modo monotono. C’erano stati dei momenti, come quando era scappato dai suoi genitori per andare a nascondersi nelle Isole Shielding tempestate dai marosi, o quando aveva dovuto affrontare uno spatodonte armato solo di una lancia perché il suo compagno giaceva a terra con l’ala spezzata, in cui forse si era trovato in pericolo più di quanto fosse mai successo a lei. Ma si accorse che lei era molto interessata ai suoi ricordi meno avventurosi. Lei non aveva mai lasciato il pianeta, tranne una breve vacanza su Morgana. Lui, figlio di un ufficiale di marina, aveva avuto ampie possibilità di visitare l’intero sistema Laurano, da Elisio bruciato dal sole, attraverso le lune multiple di Camelot, fino al tetro Utgard, bersagliato dalle comete. Mentre parlava della gelida e azzurra pace di Feacia, gli venne da citare alcuni versi omerici, e lei ne fu deliziata e ne volle sapere di più e gli domandò che cos’altro avesse scritto quell’Omero, e la conversazione si spostò sull’argomento libri…

Il cibo fu misto, come tendeva sempre più ad essere la cucina di entrambe le razze: zuppa di pesce e pomodoro, pasticcio di manzo e shua, insalata di foglie di grano a grappoli, pere, caffè di radice d’olmo. Una bottiglia di dago d’annata condì il tutto con allegria. Alla fine, avendola già vista prima indulgere al vizio, Arinnian non si stupì quando Tabitha si accese la pipa. «Che ne diresti di andare a dare un’occhiata al Nido?», propose lei. «Potremmo trovare Draun». Il suo collega era suo diretto superiore nella guardia; lei si trovava a Centauro come sua aiutante. Ma il concetto di rango del gruppo era nello stesso tempo più complesso e più elastico di qualsiasi definizione tecnica.

«Beh… d’accordo», assentì Arinnian.

Lei sollevò la testa. «Non sei convinto? Avrei giurato che tu preferissi un ritrovo Ythrano a qualsiasi altro posto in città». Si riferiva all’unico locale pubblico prevalentemente per ornitoidi, che lì non erano molto numerosi.

Lui si accigliò. «Non riesco a fare a meno di pensare che quella taverna non vada bene. Per loro», aggiunse frettolosamente. «Non è che mi vergogni, bada bene».

«Eppure non ti importa quando gli umani imitano gli Ythrani. Uh-uh. Non si può avere tutto, figliolo». Si alzò in piedi. «Diamo un’occhiata al bar del Nido, ci beviamo qualcosa se incontriamo un amico o se si esibisce un buon poeta, e poi ce ne andiamo in un locale da ballo, eh?».

Lui annuì, contento — mentre il cuore pulsava più forte — che l’umore di lei fosse ancora buono. Se pure non c’era alcun sussidio meccanico che consentisse loro di poter prendere parte alle danze aeree degli Ythrani, anche il muoversi su e giù per il pavimento tra le braccia di un altro uccello era abbastanza piacevole. E, benché non avesse mai avuto con lei contatti più stretti di quello, forse Tabitha — perché in quella notte vaporosa lei era proprio Tabitha, e non Hrill dei cieli…

Aveva sentito diversi zoticoni muscolosi parlare dei loro incontri con ragazze uccello, più con rispetto riverenziale che per vanteria. Per Arinnian e quelli come lui, le rispettive controparti femmine erano compagne, sorelle. Ma Tabitha continuava a mettere in rilievo l’umanità di entrambi.

Presero un cimice-taxi per recarsi al Nido, che era l’edificio più alto della città, e salirono fino in cima servendosi di un pozzo gravitazionale, dal momento che nessuno dei due si era portato l’occorrente per volare. Con le pareti a forma di U, la taverna era protetta dalla pioggia mediante una copertura di vitrile attraverso la quale, a quell’altezza, si potevano scorgere le stelle a dispetto dell’illuminazione elettrica sottostante. Morgana stava affondando ad occidente, ma continuava ad inargentare il fiume e il golfo. Verso est si vedevano dei cumuli ammonticchiati, ed un vento insistente portava il brontolio dei lampi che tremolavano dentro di essi. Il debole globo al fluoro sopra ogni tavolo era circondato da insettoidi. C’era poca attività, qualche sagoma indistinta sul suo scanno davanti ad un bicchiere o ad un narcobraciere, un robot di servizio che rotolava su e giù, gli accordi registrati di un’arpa d’acciaio.

«C’è solo feccia», disse Tabitha, contrariata. «Ma possiamo fare un giro».

Si fecero strada in mezzo ai tavoli finché Arinnian si fermò ed esclamò: «Hoy-ah! Vodan, ekh-hirr».

Il suo compagno di gruppo sollevò lo sguardo, chiaramente preso alla sprovvista. Era seduto davanti ad un bicchiere, ed aveva a fianco una femmina dalle piume malridotte, che indirizzò ai nuovi venuti un’occhiata cupa.

«Buon volo a te», salutò Arinnian in Planha; ma ciò che seguì, per quanto automatico, era troppo ovvio per non esprimerlo in Anglico. «Non mi aspettavo di trovarti qui».

«Ed a te, buon atterraggio», rispose Vodan. «Dovrò tornare alla nave tra poche ore. Il mio trasporto parte dalla base dell’Isola Alcione. Sono venuto qui in anticipo per non rischiare di essere trattenuto da una tempesta; vicino casa abbiamo già avuto tre turbini uno dopo l’altro».

«Sei pronto per la battaglia, cacciatore», disse Tabitha con la maggior cortesia possibile.

È vero, pensò Arinnian. È ansioso di combattere. Solo… se non avesse potuto rimanere con Eyath fino all’ultimo minuto, almeno avrei potuto immaginare che fosse andato in volo notturno da qualche parte, a meditare, o, comunque, con gli amici… Fece le presentazioni.

Vodan indicò la sua accompagnatrice. «Quenna», disse. La sua mancanza di formalità era un insulto non voluto. Lei si piegò tra le ali, con le penne erette in un gesto di trascurata autoaffermazione.

Arinnian non riuscì a trovare nessuna scusa per non unirsi ai due. Lui e la ragazza si sedettero come meglio poterono. Quando arrivò rotolando il robot, ordinarono della birra di Nuova Africa, densa e forte.

«Come ti soffia il vento?», domandò Tabitha, emettendo grossi sbuffi dalla pipa.

«Bene; come mi auguro per voi», rispose Vodan in modo corretto. Poi si volse verso Arinnian e, con un entusiasmo un po’ forzato ma indubbiamente reale, gli disse: «Saprai certamente che in queste ultime settimane sono stato impegnato in manovre di addestramento».

Sì. Me l’ha detto Eyath, più di una volta.

«Questa è stata una breve licenza. Il mio mestiere richiede abilità. Lascia che te ne parli. Uno dei nuovi lanciasiluri, piuttosto simile ad una Meteora terrestre, ah, una bellezza, un dardo! Sono stato orgoglioso di decorarne lo scafo con le tre stelle d’oro».

«Eyath» significa «Terza Stella».

Vodan continuò a parlare. Arinnian lanciò un’occhiata a Tabitha. Lei e Quenna si stavano scambiando degli sguardi. Tra le penne serpeggiavano e si accavallavano espressioni diverse; perfino lui riusciva a leggere gran parte di quel mezzo linguaggio non espresso a parole.

Sì, mia cara bionda Terricola, Quenna è ciò che è: e chi sei tu per storcere il naso a quel modo? Cos’altro avrei potuto essere io che, crescendo, ho scoperto di poter comandare a volontà i miei periodi di calore? E che non c’era per me, in tutto l’universo, un sol posto decente per rifugiarmi? Oh, sì, sì, l’ho sentito dire già, non preoccuparti: «Cure mediche; consulti»… Beh, carne floscia, per tua informazione, i gruppi non accolgono volentieri i malatini, e non sarò certo io a mendicare aiuto. Quenna percorrerà la sua strada meglio di te, che in verità sei come sei… non è vero che lo sei, femmina umana?

Tabitha si chinò in avanti, diede un buffetto su una di quelle braccia senza far caso agli artigli, sorrise a quegli occhi arrossati e mormorò: «Buon tempo a te, fanciulla».

Stupita, Quenna fece uno scatto all’indietro. Per un attimo sembrò lì lì per scagliarsi contro la ragazza, e la mano di Arinnian scese ad abbrancare il coltello. Poi si rivolse a Vodan: «Sarà meglio che andiamo».

«Non ancora». L’Ythrano aveva superato brillantemente il suo imbarazzo. «Solo le nuvole decideranno quando io rivedrò il mio fratello».

«È meglio andare», ripeté lei a voce più bassa. Arinnian colse il primo leggero profumo di muschio. Al tavolo accanto, un altro maschio sollevò la cresta e girò la testa nella loro direzione.

Arinnian poteva immaginare il conflitto che doveva esserci in Vodan — allontanarla, sfidarla, colpirla; ucciderla no, perché era disarmata — eppure già quello sarebbe stato un arrendersi vero e proprio, non tanto alla tradizione quanto alla semplice convenzionalità… «Dovremo andare, non appena avremo finito queste birre», disse l’umano. «Felice di averti visto. Ti auguro venti favorevoli per sempre».

Il sollievo di Vodan fu evidente. Borbottò qualche formalità di rimando e se ne andò in volo con Quenna. La città li inghiottì.

Arinnian cercò invano qualcosa da dire. Ringraziò dentro di sé la luce fioca; si sentiva il volto più caldo di quanto non lo fosse l’aria. Guardò al di fuori.

Con voce dolce, alla fine Tabitha disse: «Povera anima perduta».

«Chi, la volatrice notturna?». D’un tratto si sentì furioso. «Ho già incontrato qualcuna come lei. Degenerate, piccole criminali. Prega che Vodan non debba rovinarsi, in quel lurido letto in cui lo sta portando. So come devono essere andate le cose. Lui se ne andava in giro da solo, ad ali sciolte, un montanaro che probabilmente non si era mai imbattuto in una come lei. Lei l’avrà puntato, colpendolo con quel tanto di feromone che bastava per eccitarlo… ugh!».

«Perché ti preoccupi? Voglio dire, certo, lui è un tuo amico, ma non riesco a credere che quella patetica creatura oserà tentare qualcosa di più che strappargli una mancia con qualche lusinga». Tabitha inalò il fumo. «Lo sai», continuò in tono pensoso, «questo è un caso di arretratezza culturale Ythrana. Sono stati influenzati dalle idee umane al punto di non offrire l’opportunità di una morte rapida ai loro anormali. Ma ancora non si preoccupano di garantirne la riabilitazione, curandoli o usando la semplice carità. Un giorno…».

Lui aveva appena udito l’ultima osservazione. «Vodan sta per sposare Eyath», disse attraverso il groppo che gli stringeva la gola.

Tabitha aggrottò la fronte. «Eh? Quella di cui mi hai parlato? Beh, non credi che se lei lo venisse a sapere, sarebbe contenta che lui si fosse goduto un attimo di piacere e che se ne dimenticherebbe subito?».

«Non è giusto! Lei è troppo pulita. Lei…». Arinnian deglutì. All’improvviso pensò: Perché poi non correre il rischio? Adesso ho bisogno di dimenticare me stesso. «Per te è una cosa da nulla?», disse senza pensarci. «In tal caso, facciamo la stessa cosa».

«Hm?». Lei lo studiò per un tempo interminabile. I lampi si avvicinavano, trasportati da violente raffiche. La sua rabbia scemò, e lui dovette lottare per non abbassare gli occhi, per non farsi piccolo.

Alla fine: «Sei proprio amareggiato, vero, Chris?». Una risatina. «Ma sei anche fiducioso».

«Mi dispiace», farfugliò lui. «Non avrei mai v-voluto mancarti di rispetto. Volevo darti un… un esempio immaginario… farti capire perché sono sconvolto».

«Potrei anche risentirmi, se lo definisci immaginario», disse lei sorridendo, malgrado il suo tono fosse diventato più compassionevole che ironico. «A meno di presumere che in realtà non lo fosse. La risposta è no, grazie».

«Me l’aspettavo. Noi uccelli…». Non riusci a finire, ma abbassò lo sguardo sul suo boccale, poi lo sollevò per berne una rapida, lunga sorsata.

«Che cosa vuoi dire, con quel "noi"?», lo provocò lei.

«Beh, noi… la nostra generazione, almeno…».

Mentre lei annuiva, i suoi riccioli riflettevano l’illuminazione del locale. «Lo so», disse in tono serio. «Quel tipo di comportamento, promiscuo come nei kakkelaks quanto a mancanza di rispetto del partner, ma estremamente timido verso gli uccelli di sesso opposto. Sei un ragazzo in gamba, Chris; gli Avaloniani non sono portati all’introspezione, ma tu devi avere qualche idea del perché. Non sogni mai di avere una moglie e dei figli?».

«Certamente. Io… certamente che lo voglio».

«Molti di loro lo vogliono, ne sono sicura. Molti dei primi lo fecero, alla fine, una volta venuti a patti con se stessi. Per di più, la situazione non è universale. Noi uccelli abbiamo questo in comune, che tolleriamo meno la curiosità rispetto all’uomo medio. Perciò non sono possibili statistiche comparate. Il problema è anche diventato più evidente in questi giorni. E infine, Chris, la tua esperienza è limitata. Quanti individui conosci, tra le migliaia, abbastanza bene da parlare della loro vita privata? Dovresti tendere per natura ad un maggiore approfondimento coi tuoi simili, specie considerando che noi uccelli abbiamo imparato molto bene a controllare le espressioni del volto e del corpo».

La pipa di Tabitha si era spenta. Lei la ricaricò e concluse: «Te lo dico io, il tuo caso non è così singolare come pensi, e nemmeno così serio. Ma io vorrei che il diventare uccelli non significasse, per i più sensibili, una perdita di anni a tormentarsi da soli».

La rabbia lo invase di nuovo. Che diritto aveva di trattarlo da inferiore? «Ora stammi a sentire…», cominciò.

Tabitha scolò la sua birra e si alzò. «Torno al mio albergo», disse.

Lui la fissò, sbalordito. «Cosa?».

Lei gli scompigliò i capelli. «Mi dispiace. Ma ho paura che stanotte, se andiamo avanti, ci faremo una litigata coi fiocchi. Io ho troppa stima di te per volere una cosa del genere. Se ti va, trascorreremo insieme un’altra serata, presto. Adesso ho voglia di mettermi a letto e di guardarmi sullo schermo della Biblioteca Centrale qualcosa di quell’Omero».

Lui non riuscì a dissuaderla. Forse si risentì troppo nel vedere come le sue repliche la lasciassero indifferente. Dopo averla gratificata di un freddo «buonanotte», si diresse svogliatamente alla più vicina cabina videofonica.

La prima donna che chiamò era al lavoro. La produzione difensiva marciava al ritmo di sette ore lavorative, con quindici minuti e rotti di intervallo, più lo straordinario. La sua seconda conoscenza femminile gli disse concitatamente che aveva il marito in casa, se era quello il tipo di intrattenimento che desiderava; lui si scusò per aver sbagliato numero. La terza era disponibile. Era eccessivamente piena, chiacchierava senza posa, e aveva il cervello di un barisauro. Ma che importava?

…Si risvegliò all’incirca al tramonto seguente. Lei sudava nel suo letto, con l’alito che puzzava di alcool. Si domandò come mai l’aria fosse diventata così appiccicosa e soffocante. Un guasto al condizionatore? Oppure, hmmm, avevano annunciato che se si dovevano alzare gli schermi di energia, l’impoverimento elettrico conseguente avrebbe costretto il Controllo Ambientale a bloccare…

Schermi di energia!

Arinnian balzò dal letto. La pioggia aveva fatto posto ad una bassa coltre di nubi, ma attraverso quella scura uniformità riuscì a scorgere dei bagliori. Brancolò in mezzo al polveroso disordine della stanza ed accese l’olovideo.

Un nastro registrato, che scorreva in continuazione, la voce stridula di un uomo e il suo volto deformato: «…dichiarata la guerra. Un corriere di Ythri ha portato a Gray la notizia che la Terra ha presentato la dichiarazione di guerra».

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