18

La corsia era pulita e ben diretta, ma vi si dovevano affollare quaranta uomini e non c’era nemmeno uno schermo; del resto, i programmi locali non avrebbero interessato gran parte di loro. Comunque non avevano alcun passatempo se non leggere e lagnarsi fra loro. In gran parte preferivano il secondo. Dopo un po’ Rochefort aveva chiesto delle cuffie antirumore in modo da potersi dedicare alla lettura dei libri che gli erano stati prestati. E le teneva quasi tutto il giorno.

Perciò non udì il coro di battute salaci. Solo quando qualcuno gli toccò una spalla, si rese conto di qualcosa. Ehi, pensò. È già ora di pranzo? Sollevò gli occhi da Il popolo di Gaiila e vide Tabitha.

Il cuore gli esplose nel petto e prese a battere furiosamente. Le mani gli tremavano a tal punto che riuscì con difficoltà a togliersi le cuffie.

Lei se ne stava in piedi di traverso nella stanza che odorava di antisettici, e si stagliava contro una finestra alle sue spalle, aperta all’azzurro ed ai germogli della primavera. Una semplice tuta nascondeva le curve ed il portamento eretto. Le vide il volto che aveva perso qualche chilo. Le ossa sporgevano ancor più evidentemente di prima, sotto la pelle più scura ed i capelli resi chiari da un sole più forte di quello che brillava su Gray.

«Tabby», bisbigliò, ed allungò una mano verso di lei.

Lei gliela prese, senza stringere né sorridere troppo. «Ciao, Phil», gli disse con la familiare voce roca. «Hai un aspetto migliore di quanto mi aspettassi, quando mi hanno detto che avevi tre tubi dentro il corpo».

«Avresti dovuto vedermi prima». Senti che le sue parole tremavano. «Come va? Come stanno gli altri?».

«Io sto bene. E stanno bene anche molti di coloro che conosci. Draun e Neysslan sono morti».

«Mi dispiace», mentì lui.

Tabitha gli lasciò la mano. «Sarei dovuta venire prima», disse, «ma ho dovuto aspettare una licenza, e poi ci è voluto del tempo per controllare in quelle interminabili liste di pazienti e trovare un trasporto fin qui. C’è ancora tanta disorganizzazione e molte carenze». Gli occhi erano verdi e seri. «Non ero nemmeno sicura che fossi su Avalon, e se fossi vivo o morto. Mi ha fatto piacere, quando ho saputo che eri vivo».

«Come potevo restare lontano… da te?».

Lei abbassò le palpebre. «Come va la tua salute? Qui sono tutti troppo occupati per perdersi in dettagli».

«Beh, quando mi sarò rimesso un poco vogliono spedirmi su una regolare nave ospedale della marina Imperiale, togliermi il fegato e sostituirlo con uno nuovo. Forse potrebbe volerci un anno terrestre, per riprendermi del tutto. Ma mi hanno promesso che ce la farò».

«Splendido». Il suo tono era molto formale. «Ti trattano bene, qui?».

«Per quanto è possibile, sì, a pensarci bene. Ma i miei compagni di stanza non sono proprio il mio tipo, e i medici e gli assistenti, sia Imperiali che Avaloniani, non possono sospendere il lavoro per chiacchierare con me. Sono stato molto solo, Tabby, finché non sei venuta».

«Cercherò di tornare a farti visita. Ti renderai conto che sono in servizio attivo, e buona parte del tempo che mi rimane devo passarlo a St. Li».

La debolezza sembrò aggredirlo di nuovo. Si abbandonò contro i cuscini e lasciò cadere le braccia sulla coperta. «Tabby… hai intenzione di aspettare… per quest’anno?».

Lei scrollò il capo, lentamente, ed incontrò nuovamente il suo sguardo. «Forse dovrei fingere, finché non starai meglio, Phil. Ma non sono capace di fingere, e poi tu meriti di meglio».

«Dopo ciò che ho fatto…».

«E dopo ciò che ho fatto io». Lei si chinò e si insinuò in mezzo ai tubi per posargli le palme delle mani sulle spalle. «No, non ci siamo mai odiati per quello, vero? Nessuno dei due».

«E allora non possiamo dimenticare entrambi?».

«Credo che l’abbiamo già fatto. Non te ne accorgi? Quando il dolore si calmò e potei pensare, vidi che non era rimasto nulla. Oh, amicizia, rispetto, ricordi da serbare in cuore. Ma nient’altro».

«E non basta… per costruire qualcosa ancora una volta?».

«No, Phil. Ora capisco me stessa meglio di una volta. Se tentassimo, so già quello che ti farei, prima o poi. E non voglio. Ciò che abbiamo avuto, voglio che resti una cosa pulita».

Lo baciò dolcemente e si rialzò.

Parlarono un po’, con qualche imbarazzo, finché lui non la congedò con la scusa, non del tutto inventata, che aveva bisogno di riposare. Quando lei se ne fu andata, Rochefort chiuse gli occhi, dopo essersi applicato le cuffie che zittivano le voci terrestri.

Ha ragione, probabilmente, pensò. E la mia vita non finisce qui. Riuscirò a superare anche questo, immagino. Si ricordò di una ragazza di Fleurville, e sperò di venir trasferito in un ospedale di Esperance, se o quando il cessate il fuoco si fosse trasformato in una pace.


All’esterno, Tabitha si fermò per indossare la cintura gravitazionale che aveva ritirato al deposito. L’edificio era stato eretto in tutta fretta nei sobborghi di Gray. (Lei si ricordò delle proteste sollevate quando il Governatore Holm aveva indirizzato la produzione industriale dal ramo bellico a quello medico, in un momento in cui sembrava imminente una ripresa dei combattimenti. I commentatori avevano fatto notare che quanto aveva disposto era troppo poco per le vittime di un bombardamento a largo raggio, e troppo per quelle di una scaramuccia minore. Lui si era limitato a borbottare in risposta: «Facciamo quel che possiamo», ed aveva sollecitato la realizzazione del progetto, aiutato dal fatto che i più importanti ufficiali della guardia nazionale gli erano estremamente fedeli. Essi sapevano che cosa aveva realmente in testa… quegli uomini il cui dolore faticava a mantenere silenziose le armi). Da dove si trovava, il terreno si abbassava, coperto di susin color smeraldo, e adornato da cespugli e di calici di Budda, fino alla distesa della città con il contorno dei suoi giardini, alla ampia curva della costa che si rialzava verso l’interno, allo scintillio della Baia di Falkayn. Piccole nuvole vaporose vagavano sotto la spinta dei venti, che stormivano e profumavano di fonteviva.

Lei si riempì i polmoni di quella freschezza. Dopo Equatoria, era inebriante. O avrebbe dovuto esserlo. Si sentì stranamente vuota.

Un fragore di ali, e un’Ythrana atterrò davanti a lei. «Buon volo a te, Hrill», la salutò.

Tabitha strabuzzò gli occhi. Chi…? Poi la riconobbe. «Eyath! A te, buon atterraggio». Com’è smorto il suo tono, e come sono scialbe le sue piume. Non la vedevo più da quel famoso giorno all’isola… Tabitha le strinse la mano artigliata nelle sue. «È meraviglioso, cara. Stai bene?».

Il portamento, le penne e le membrane calate sugli occhi risposero per lei. Tabitha si abbassò verso di lei e l’abbracciò.

«Ti ho cercata», mormorò Eyath. «Per tutto il tempo della battaglia sono rimasta a casa; ed anche dopo, a pascolare le mandrie, perché avevo bisogno di stare sola e mi avevano detto che il pianeta aveva bisogno di carne». Posò la testa sul seno di Tabitha. «Ultimamente sono riuscita a liberarmi e sono venuta a cercare…».

Tabitha le accarezzò più volte la schiena.

«Ho saputo dove eri di servizio e che avevi fatto sapere che saresti passata a Gray, durante la tua licenza», proseguì Eyath. «Ho aspettato. Ho chiesto agli alberghi. Oggi in uno di essi mi hanno detto che eri arrivata e che te ne eri andata via subito dopo. Ho pensato che potevi essere venuta qui, e comunque tentare era meglio che star lì ad aspettare».

«Per quel poco che posso fare, compagna di vento, dimmi».

«È difficile». Eyath si strinse alle braccia di Tabitha, penosamente, senza sollevare la testa. «Qui c’è anche Arinnian. È stato un po’ di tempo a lavorare con gli uomini del padre. L’ho cercato e…». Un suono stravolto, benché gli Ythrani non piangessero.

Tabitha l’anticipò. «Ti sfugge».

«Sì. Cerca di essere gentile. E questo è il peggio, che debba cercare di esserlo».

«Dopo quello che è successo…».

«Ka-a-aah. Io non sono più la stessa per lui». Eyath fece uno sforzo di volontà. «E nemmeno per me stessa. Ma speravo che Arinnian avrebbe capito meglio di quanto non facessi io».

«È l’unico che può aiutarti? E i tuoi genitori, i tuoi fratelli, i tuoi compagni di gruppo?».

«Non sono cambiati nei miei confronti. Perché avrebbero dovuto? A Stormgate una sventura come la mia viene considerata come tale, una sfortuna, non una vergogna, non una menomazione. Essi non riescono ad afferrare quello che provo».

«E tu lo provi a causa di Arinnian, a quel che vedo». Tabitha osservò il giorno, spudoratamente bello. «Che cosa posso fare?».

«Non lo so. Forse nulla. Ma se potessi parlargli… spiegargli… chiedergli grazia per me…».

Avvampò di rabbia. «Chiedergli grazia? Dov’è?».

«Al lavoro, io… io credo. A casa sua…».

«Conosco l’indirizzo». Tabitha la lasciò e si tirò su. «Vieni, ragazza. Basta con le chiacchiere. Ce ne andiamo a fare un bel volo in questo tempo magnifico, ed io approfitterò del fatto di essere sorretta da una macchina per farti stancare ben bene, e alla fine del giorno ce ne andremo dove abiti tu, e ti guarderò crollare addormentata».

…Cadde il crepuscolo, sfumature color zafferano sull’argento delle acque, e per il resto blu intenso e il luccicare delle prime stelle. Tabitha atterrò davanti alla porta di Arinnian. Le finestre erano illuminate. Lei non toccò la piastra del campanello, ma picchiò col pugno sul pannello.

Egli aprì. Lei vide che anche Arinnian era dimagrito; i capelli color mogano erano annodati, il volto era tirato e le vesti arruffate. «Hrill!», esclamò. «Accidenti… Non avrei mai… Entra, entra».

Lo sfiorò ed entrò, guardandosi intorno. La stanza era in disordine, ovviamente usata soltanto per dormirci e consumare i pasti arrangiati in tutta fretta. Lui si mosse un po’ a disagio. Prima che la battaglia riprendesse i loro contatti erano stati fuggevoli, corretti, e telefonici. In seguito si erano preoccupati l’uno della sopravvivenza dell’altra, e nient’altro.

«lo… io sono contento di vederti, Hrill», farfugliò Arinnian.

«Non so se dire la stessa cosa, per quanto mi riguarda», rispose lei senza convenevoli. «Siediti. Devo ficcarti qualcosa in quella testaccia, cervello di gallina con l’aria da santarello».

Lui rimase perplesso per un attimo, poi obbedì. Ella vide che l’aveva colpito a fondo, e d’un tratto non seppe più cosa dirgli. Rimasero a guardarsi, in silenzio, per dei minuti.


Daniel Holm sedeva davanti agli schermi che mostravano Liaw dei Laghi, Matthew Vickery del Parlamento e Juan Cajal dell’Impero. Un quarto visore si era appena oscurato, dopo aver trasmesso una richiesta registrata da parte di Trauvay, Alto Wyvan di Ythri, perché Avalon si arrendesse prima che accadesse il peggio, e l’intero Dominio dovesse subire una pace più dura.

«Avete sentito, signori?», domandò Cajal.

«Abbiamo sentito», rispose Liaw.

Holm sentì che il cuore gli batteva più forte nel petto e nelle tempie, non più veloce, ma come un pulsare più insistente e sostenuto. Desiderò un sigaro (non disponibile), o un drink (non consigliabile), o un anno di sonno ininterrotto. Quanto a questo, registrò la sua mente, siamo più in forma dell’ammiraglio. Se mai ho visto la testa della morte, eccola lì sulle spalle di quell’uomo.

«Che cosa dite?», mormorò Cajal, ormai un vecchio.

«Non abbiamo desiderio di combattere», dichiarò Liaw, «o di peggiorare la sofferenza dei nostri fratelli. Però non possiamo cedere ciò che il nostro popolo si è guadagnato a caro prezzo».

«Governatore Holm?».

«Lei non rinnoverà il suo attacco finché abbiamo qui i suoi uomini», rispose a bruciapelo l’uomo. «Non li terremo per sempre. Gliel’ho già detto, noi non negoziamo sulle spalle degli esseri viventi. Però il momento ed i modi del loro rilascio dovranno essere discussi».

Lo sguardo di Cajal si trasferì sull’ultimo schermo. «Presidente Vickery?».

La risposta fu accompagnata da un sorriso da politico. «Gli eventi mi hanno costretto a mutare la mia opinione riguardo al quadro strategico, ammiraglio. Rimango saldo nella mia opposizione alle tendenze assolutiste. Il mio stimato collega, il Governatore Saracoglu, mi ha sempre fatto l’impressione di essere un individuo estremante ragionevole. Lei è appena ritornato da un prolungato colloquio con lui, al quale hanno preso parte senza dubbio molte persone intelligenti e ben informate. Non è emersa alcuna possibilità di compromesso?».

Cajal si chinò, quasi fosse oppresso da un peso. «Potresti discutere e mercanteggiare per giorni», disse. «A che serve? Mi servirò dei miei poteri discrezionali e metterò subito davanti a voi il massimo che sono autorizzato ad offrirvi».

Holm abbrancò i braccioli della poltrona.

«Il governatore ha fatto notare che Avalon ha già soddisfatto gran parte dei termini dell’armistizio», disse a fatica l’ammiraglio. «Le sue fortezze orbitanti non esistono più. La sua flotta è ridotta in frammenti il cui sequestro, come richiesto, non farebbe per voi alcuna reale differenza. Cosa più importante, le unità imperiali si trovano ora sul vostro pianeta.

«Non rimane nulla se non qualche particolare tecnico. Ai nostri feriti ed ai nostri medici deve essere conferito il nome riconosciuto di forze di occupazione. Deve essere stabilito un comando sulle vostre attrezzature militari; uno o due uomini per stazione saranno sufficienti per soddisfare a questa richiesta e non costituiranno alcuna minaccia, per quanto concerne un’eventuale presa di potere nel caso che la tregua venisse meno. Eccetera. Potete vedere qual è l’idea generale».

«Salvare la faccia», grugnì Holm. «Uh-huh. Perché no? Ma che succederà in seguito?».

«Rimane da stipulare il trattato di pace», disse la voce, sempre più prosciugata. «In confidenza, posso dirvi che il Governatore Saracoglu ha inviato all’Impero la sua più viva raccomandazione perché Avalon non venga annesso».

Vickery fece per farfugliare qualcosa. Liaw rimase impassibile. Holm respirò pesantemente e si appoggiò contro lo schienale.

Ce l’avevano fatta. Ce l’avevano fatta davvero.

Le chiacchiere sarebbero continuate, sarebbero continuate all’infinito, insieme ad un gran numero di insignificanti particolari e di interminabili pignolerie. Ma non importava. Avalon sarebbe rimasto Ythrano… sarebbe rimasto libero.

La sua prima felicità, tranquilla ed intensa, fu di sapere che quella sera avrebbe potuto tornare a casa da Rowena.

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