19

Non ci furono intuizioni istantanee, né rivelazioni e riconciliazioni drammatiche. Ma Arinnian avrebbe ricordato una certa ora.

Il lavoro per suo padre aveva cessato di essere così pressante. E lui si rese conto che avrebbe dovuto utilizzare il tempo libero che aveva riguadagnato per riprendere i suoi studi. Poi decise che nulla era meno pratico della praticità fuori posto, e Tabitha fu d’accordo con lui. Lei si fece assegnare un incarico che non richiedeva molta attività. Alla fine, magari, avrebbe dovuto tornare alla sua isola a rimettere in ordine le sue cose, ma per il momento era ancora confinata a Gray. Lui chiamò Eyath al visifono nella stanza che aveva preso in affitto. «Ehm, che ne diresti di una gita in barca?».

, rispose lei con ogni penna.

Le condizioni erano poco meno che perfette. Ma quando la barca lasciò la baia, venne la pioggia. Lo scafo scivolava sulle onde increspate color oliva scuro, emettendo un rumore sordo; dal cielo nascosto scrosciava l’acqua a grandi sciabolate che si infrangevano sulla pelle, veniva giù in gelidi zampilli e schiumava dove toccava il mare.

«Andiamo avanti?», le domandò.

«Mi piacerebbe». Lo sguardo di lei cercò la terraferma, un’ombra verso poppa. Non c’erano altri vascelli in mare, né volatori in cielo. «È riposante starsene qui così soli».

Lui annuì. Si era spogliato, e la pulizia di quell’acqua gli riempiva i capelli e scorreva sulla sua carne.

Lei lo fissava dal suo posatoio in cima alla cabina, separata da lui dall’abitacolo di guida. «Avevi qualcosa da dirmi», gli espresse con due parole e con tutto il corpo.

«Sì». La barra del timore gli tremava fra le dita. «Ieri sera, prima che lei se ne andasse…». In Planha non ebbe bisogno di pronunciare altre parole.

«Compagno di vento, compagno di vento», ansimò lei. «Ne sono felice». Allungò a metà le ali verso di lui, trasalì e le ritrasse.

«Per sempre», le disse lui, in preda a un timore reverenziale.

«Per te non avrei potuto desiderare di meglio che Hrill», replicò Eyath. Poi, scrutandolo con più attenzione: «Ma sei ancora agitato».

Lui si morse le labbra.

Eyath attese.

«Dimmi», si costrinse a dire Arinnian, fissando il ponte. «Tu ci vedi dal di fuori. Sono in grado di essere ciò che lei merita?».

Lei non rispose subito. Perplesso per non aver ricevuto l’immediato «sì» che si aspettava, il giovane sollevò lo sguardo quasi a sondare il silenzio di lei. Non osò interrompere il suo pensiero. Le onde rimbombavano, la pioggia scrosciava ridendo.

Alla fine ella disse: «Io credo che lei sarà capace di renderti tale».

Arinnian rimase lì a leccarsi la ferita. Eyath stava per scusarsi, poi fece appello a tutta la sua risolutezza e si trattenne. «Da molto tempo sentivo», disse invece, «che avevi bisogno di qualcuno come Hrill per capire come ciò che è sbagliato per il mio popolo sia giusto, sia il fine e il significato della vita per il tuo».

Anche lui raccolse il suo coraggio per dire: «In teoria conoscevo già la seconda parte del tuo discorso. Ora si è trasformata in un fatto. Oh, prima ero geloso. Sono ancora incapace di assistere me stesso, e forse lo sarò finché vivo. Lei, tuttavia, vale qualsiasi prezzo io debba pagare. Ciò che sto imparando, Eyath, sorella mia, è che lei non è te e tu non sei lei, ed è bene che entrambe siate ciò che siete».

«Lei ti ha dato la saggezza». L’Ythrana si rannicchiò per proteggersi dalla pioggia.

Arinnian vide il suo dolore ed esclamò: «Lascia che io trasmetta quel dono. Ciò che ti è accaduto…».

Ella sollevò il capo e lo fissò con fierezza.

«È forse peggio di ciò che è accaduto a lei?», la sfidò Arinnian. «Io non chiedo pietà — parola umana — per la passata stoltezza, ma penso che il mio destino fosse più duro del vostro, tutti gli anni sprecati ad immaginare l’amore del corpo come qualcosa di sporco, ad immaginare che ci fosse una reale differenza dal tipo d’amore che porto a te, Eyath. Adesso dobbiamo renderci giustizia l’un l’altra. Io voglio che tu divida le mie speranze».

Lei saltò giù dalla cabina, si avvicinò a lui e lo avvolse nelle ali, appoggiandogli la testa contro la spalla, mormorando. Le gocce di pioggia risplendevano sulla cresta come i gioielli di una corona.


Il trattato fu firmato a Fleurville in un giorno d’inverno avanzato. Il cerimoniale fu ridotto al minimo ed i delegati Ythrani se ne andarono quasi subito. «Non troppo arrabbiati», spiegò poi Ekrem Saracoglu a Luisa Cajal, la quale aveva declinato il suo invito ad assistere. «In genere prendono con molta filosofia le loro sconfitte. Ma non potevamo proprio chiedergli di rimanere fino al termine del nostro rituale». Prese una sigaretta. «Onestamente, ero troppo contento di essere uscito da quell’impiccio».

In realtà lui aveva semplicemente fatto una dichiarazione telestrasmessa, ed in seguito non aveva preso parte ai festeggiamenti. Una società come quella di Esperance era portata a celebrare la fine formale delle ostilità con marce noiose ed ancor più noiosi servizi di ringraziamento.

Questo era successo il giorno prima. Oggi il tempo aveva continuato ad essere favorevole e Luisa aveva accettato nel pomeriggio un invito a cena. Aveva detto che suo padre non si sentiva bene, il che, malgrado lui amasse e rispettasse quell’uomo, non aveva arrecato un grosso dispiacere a Saracoglu.

Passeggiavano nel giardino, insieme, come avevano fatto spesso in precedenza. Intorno a loro i sentieri erano stati ripuliti, e la neve ricopriva le aiuole, i rami ed i cespugli, la sommità del muro, ancora bianca benché già si stesse sciogliendo, qua e là tintinnando e gorgogliando dove si trasformava in acqua. All’esterno non c’erano più fiori, l’aria sapeva solo di umidità ed il cielo era di un uniforme grigio tortora. Il silenzio regnava pressoché assoluto, ed i piedi facevano scricchiolare rumorosamente la ghiaia del giardino.

«Inoltre», aggiunse lui, «è stato un sollievo vedere il portavoce di Avalon e la sua coorte che risalivano a bordo della loro nave. Gli uomini del Servizio Segreto che avevo predisposto alla loro protezione era assolutamente in estasi».

«Davvero?». Lei alzò lo sguardo, e ciò fornì a lui l’occasione di soffermarsi su quegli occhi luminosi, il nasino all’insù, e le labbra aperte come quelle di un bambino curioso. L’unico neo è che parlava seriamente, troppo seriamente, dannazione, per la maggior parte del tempo. «Sapevo che c’erano state delle minacce anonime di morte nei loro confronti. Lei era preoccupato?».

Lui annuì. «Conosco bene i miei amati abitanti di Esperance. Quando Avalon distrusse il loro originale entusiasmo… beh, hai certamente sentito parlare della questione sui "militaristi intransigenti"». Si domandò se il suo berretto di pelliccia nascondesse la sua calvizie o se invece gliela ricordasse meglio. Forse avrebbe dovuto smetterla di preoccuparsi e ricorrere a una parrucca.

Preoccupata, lei chiese: «Riusciranno mai a dimenticare… entrambe le parti?».

«No», rispose lui. «Ma penso che i rancori si placheranno. La Terra e Ythri hanno troppi interessi reciproci per trasformare una contesa di famiglia in un’ostilità sanguinosa. Lo spero».

«Noi siamo stati più generosi di quanto avremmo dovuto essere, non è vero? Come lasciare che si tenessero Avalon. Questo non conterà?».

«Dovrebbe». Saracoglu sorrise con il lato sinistro della bocca, emise l’ultimo sbuffo di fumo acre e gettò via la sigaretta. «Benché ognuno possa vedere i sottintesi politici connessi alla questione. Avalon si è rivelato un boccone impossibile da mandar giù. L’annessione avrebbe significato guai a non finire, mentre un Avalon semplice enclave non dà troppi grattacapi, non quanti ne avrebbe offerti una guerra combattuta per por fine ad essi. Inoltre, con questa concessione, l’Impero ha ottenuto degli obiettivi significativi per quanto riguarda il commercio, obiettivi che in altro modo forse non sarebbe stato possibile raggiungere».

«Lo so», disse lei con un pizzico d’impazienza.

Lui ridacchiò. «Sai anche che a me piace sentirmi parlare».

Luisa si fece meditabonda. «Mi piacerebbe molto visitare Avalon».

«Anche a me. Per il suo interesse sociologico. Mi domando se quel pianeta non anticipi in qualche modo un futuro lontano».

«Come?».

Lui mantenne il suo passo lento e non si dimenticò del braccio della ragazza posato sul suo; ma guardò obliquamente davanti a sé e disse, in tono estremamente serio: «La civiltà birazziale che stanno creando. O che si sta creando da sola, non si può programmare o dirigere una nuova corrente della storia. Mi domando se quella non fosse la fonte della loro resistenza… come una lega, o un materiale bifase, molto più resistente di ciascuna delle parti che lo compongono. Abbiamo una galassia, un cosmo da riempire…».

Povero me, che miscuglio di metafore, inclusa quest’ultima, pensò con sarcasmo. E rise tra sé, mentre all’estero si stringeva nelle spalle, concludendo: «Beh, non credo che sarò presente per assistere agli sviluppi remoti. Non credo nemmeno che riuscirò a vedere le conseguenze ultime di aver lasciato Avalon ad Ythri».

«Quali potrebbero essere?», domandò Luisa. «Lei ha appena detto che era la sola cosa da fare».

«Senza dubbio è così. Ma forse il mio è semplicemente il naturale pessimismo di un uomo il cui pranzo nel Palazzo del Governo è stato tutt’altró che soddisfacente. Però, si può fare qualche ipotesi. Gli Avaloniani, entrambe le razze, arriveranno a sentirsi più Ythrani degli Ythrani stessi. Immagino che le future generazioni del pianeta forniranno al Dominio una quota non indifferente, forse gran parte dei suoi ammiragli. Speriamo che non lo riforniscano anche di tendenze revanchiste. Ed in condizioni di pace Avalon, un mondo unico in una situazione unica, ricaverà il massimo dai suoi commerci… soprattutto i cervelli, che sono la conseguenza più diretta di un tale stato di cose. Gli effetti di tutto ciò sono al di là di ogni previsione».

La stretta sul braccio si intensificò. «Lei mi fa sentire contenta di non essere uno statista».

«Quanto a questo, io sono contento due volte più di te», disse lui, pronunciando con enfasi l’ultima parte della frase. «Su, lasciamo perdere queste lugubri e importanti questioni. Parliamo… per esempio, della tua gita su Avalon. Sono sicuro che si può fare, entro qualche mese».

Lei distolse il volto dal suo. Dopo un minuto di silenzio, si fermarono entrambi. «Che succede?», le chiese, spaventato.

«Sto per partire, Ekrem», rispose Luisa. «Tra poco. E per sempre».

«Cosa?». Resistette all’impulso di afferrarla.

«Mio padre. Ha rassegnato oggi le sue dimissioni».

«Io so che lui… è stato tormentato da accuse ingiuste e maligne. Ti ricordi che ho scritto al Centro dell’Ammiragliato».

«Sì. È stato bello da parte sua». Di nuovo i loro occhi si incontrarono.

«Non ho fatto altro che il mio dovere, Luisa». La paura non lo aveva abbandonato, ma fu contento di vedere che riusciva a parlare con voce ferma ed a conservare quasi il suo miglior sorriso. «L’Impero ha bisogno di uomini in gamba. Nessuno avrebbe potuto prevedere il disastro di Scorpeluna, né fare in seguito più di quanto ha fatto Juan Cajal. Condannarlo, sottoporlo alla corte marziale è frutto di meschino dispetto, ed io ti assicuro che non gli succederà nulla».

«Ma è lui a condannarsi», gemette lei a bassa voce.

A questo non ho nessuna risposta, pensò Saracoglu.

«Torniamo su Nuevo Mexico», aggiunse lei.

«Mi rendo conto», disse lui tanto per dire qualcosa, «che tutto quello che succede deve farlo soffrire molto. Ma devi proprio partire anche tu?».

«Chi gli rimane?».

«Io. Probabilmente, ehm, otterrò una convocazione definitiva per la Terra…».

«Mi dispiace, Ekrem». Le ciglia si abbassarono su quelle guance delicate. «Non andrebbe bene neanche la Terra. Non permetterò che si logori il cuore da solo. A casa, in mezzo alla sua gente, starà meglio». Sorrise, un sorriso non troppo fermo, e scosse il capo. «La nostra gente. Confesso di provare anch’io un po’ di nostalgia. Ci venga a trovare qualche volta».

Scelse con cura le parole: «Senza dubbio mi sposerò. Io penserei, se non le dispiace, penserei di dare il suo nome ad un figlio».

«Perbacco, ne sarei onorato più di qualsiasi patacca l’Imperatore mi ponesse su questo petto che tende a scivolare verso il basso», disse automaticamente. «Vogliamo entrare? Forse è un po’ presto per bere; ma d’altra parte questa è un’occasione particolare».

Ah, bene, pensò cercando di dominare il dolore, il sogno ad occhi aperti è stato un ospite gradito, ma penso di essere libero, ormai, da impegni di ospitalità. Posso rilassarmi e godere dei piaceri di un governatore, di un cavaliere, di un nobile di alto rango, di un Lord consigliere, di uno statista in pensione che detta interminabili e menzognere memorie.

Domani vedrò che cosa offre questo luogo per quanto riguarda signore brillanti e compiacenti. Dopo tutto si è di mezza età soltanto una volta.

Era piena estate, a Gray, quando la notizia raggiunse Avalon. C’era stata un po’ di tensione — chi poteva davvero fidarsi dell’Impero? — e così la felicità esplose tra la popolazione umana come una festa.

Christopher Holm e Tabitha Falkayn lasciarono in anticipo tutta quell’allegria. Annunci, cerimonie e festeggiamenti potevano aspettare; essi avevano deciso che la notte della pace finale sarebbe stata la loro notte di matrimonio.

Nondimeno non avevano alcuna fretta. Quella non era l’usanza dei gruppi. Piuttosto, la coppia cercava di diventare tutt’uno con il suo mondo, il suo destino, ed i suoi morti — nell’attesa del periodo dell’amore e dell’amore stesso — finché non si erano risolti tutti i problemi ed essi potevano liberamente concedersi l’uno all’altra.

Al di là del promontorio settentrionale le colline erano ancora disabitate, benché le piante i cui semi ancestrali erano arrivati insieme ai pionieri avessero da molto tempo cessato di essere straniere. Chris e Tabby atterrarono in un tramonto il cui rosso ed oro impazzava sul mare tranquillo. Rizzarono la tenda, mangiarono, bevvero un piccolo bicchiere di vino e si scambiarono un lungo bacio; in seguito, mano nella mano, passeggiarono lungo un sentiero che seguiva la cresta.

Sulla loro sinistra, mentre la luce del giorno si affievoliva, erbe come il trifoglio a grappoli e la spada-del-dolore precipitavano a capofitto verso le acque, le quali brillavano immense, fino ad un orizzonte che si confondeva con un cielo i cui toni andavano dal violetto al nero cristallino. La stella della sera spiccava come una candela in mezzo alle costellazioni che stavano per fare la loro apparizione. Sulla loro destra c’era la foresta, nereggiante, ancora dolce per gli odori di pino. Una leggera brezza calda faceva risuonare i rampicanti ad arpa e faceva balenare il chiarore tra le foglie-gioiello.

«Eyath?», domandò lei una volta.

«Torna a casa», rispose lui.

Questo, ed il suo tono e la sua bocca che sfiorava i capelli appena visibili di lei, significava: Facendomi capire che dovevo guarirla, e come dovevo farlo, tu hai guarito me, amore mio.

Il tocco delle labbra di lei che gli baciavano delicatamente la guancia rispose: Per la mia stessa felicità, che è cresciuta e continua a crescere.

Nondimeno lui sentì che in lei c’era una domanda. E pensò di sapere quale fosse. Gli era sorta spesso dentro ma lui, lettore, filosofo, poeta, sapeva interrogare i secoli meglio di lei, il cui dono era quello di capire l’adesso.

Non la forzò ad esprimerla a parole. Per il momento bastava che lei fosse lì, e fosse sua.

Morgana sorse, piena, macchiata di tenebre e meno luminosa di una volta, tanto era stata butterata e riempita di cicatrici. Tabby si fermò.

«Ne valeva la pena?», disse, e lui avvertì il lento incedere dell’angoscia.

«La guerra, vuoi dire?», suggerì Chris.

«Sì». La ragazza sollevò il braccio libero. «Guarda lassù. Guarda dovunque — in tutto questo globo, verso quei soli — morte, mutilazioni, agonia, lamenti funebri, rovina, perdite come quella lassù, tutte cose di cui abbiamo privato i nostri figli… per un semplice punto di vista politico!».

«Me lo sono domandato anch’io», confessò lui. «Ricordati, comunque, che abbiamo conservato per i nostri figli qualcosa che altrimenti avrebbero perso. Abbiamo conservato il loro diritto di essere se stessi».

«Vuoi dire di essere ciò che siamo. Ma immagina che fossimo stati sconfitti. E ci siamo andati vicini. La prossima generazione sarebbe cresciuta in una soddisfatta sudditanza all’Impero. Non sarebbe stato così? E allora che diritto avevamo noi di fare quello che abbiamo fatto?».

«Ho deciso che l’avevamo, questo diritto», replicò lui. «Non che esista alcun principio semplice, né che io non possa sbagliarmi. Ma a me sembra… beh, che ciò che noi siamo, la nostra società o civiltà o comunque vuoi chiamarla, abbia una vita ed un diritto che sono soltanto suoi».

Tirò un sospiro. «Amore mio», riprese poi, «se le comunità non si opponessero agli abusi ed alle sopraffazioni, finirebbero subito in pasto al più forte ed al più avido. Non credi? Ed alla fine, una mortale, monotona uguaglianza. Niente sfide, niente aspirazioni a ciò che può offrire qualcun altro. Cosa diamo alla vita, se lasciamo che le cose accadano senza il nostro intervento?

«E poi, lo sai, le ostilità non devono durare in eterno. Magari, tanto per fare un esempio, il Governatore Saracoglu e l’ammiraglio Cajal avranno avuto degli antenati che hanno combattuto a Lepanto in due parti opposte». Vide che lei non aveva capito la sua citazione storica. Ma non importava, Tabitha seguiva il significato del suo discorso. «Il punto è che entrambi abbiamo lottato, entrambi abbiamo resistito, entrambi siamo sopravvissuti per offrire qualcosa alla razza, qualcosa di speciale che nessun altro avrebbe potuto offrire. Non credi che qui ad Avalon noi abbiamo salvato una parte del nostro futuro?».

«Un futuro macchiato di sangue», disse lei.

«Certo, sarebbe stato meglio farne a meno», acconsentì lui. «Eppure, noi sofonti siamo quel che siamo; era inevitabile. Forse un giorno ci sarà qualcosa di meglio. Forse perfino questo nostro vivere ambiguo, alati e non alati insieme, sarà di qualche aiuto. Naturalmente dobbiamo continuare a tentare».

«E per un po’ potremo contare sulla pace», mormorò lei.

«Non ci basta per essere felici?», le domandò.

Poi Tabitha gli sorrise attraverso le lacrime illuminate dalla luna e disse: «Sì, Arinnian, Chris, il più caro di tutti», e lo cercò.


Eyath lasciò Gray prima dell’alba.

A quell’ora, dopo la baldoria della notte, aveva il cielo tutto per sé. Sollevandosi, cavalcò il vento e se ne fece trasportare ancora più in alto. Scorreva, l’aria, e cantava. Le ultime stelle, la luna calante ammantavano di mistero il mare e la terra; più avanti, nitide attraverso il biancore del cielo, si ergevano le montagne di casa.

Faceva freddo, ma quel freddo le faceva scatenare il sangue dentro il corpo.

Lei pensò: Colui che si è preso cura di me e colui che mi ha posseduta dividono lo stesso onore. È abbastanza.

I muscoli danzavano, le ali battevano, vive fin nei remiganti più esterni. Il pianeta ruotava verso il mattino. Mio fratello e mia sorella hanno trovato la loro felicità. È ora che vada in cerca della mia.

I picchi innevati fiammeggiarono, mentre il sole si sollevava in un trionfo di luce.

Alto è il cielo, e santo.


FINE
Загрузка...