29.

Horton s’inginocchiò accanto allo Stagno e calò la fiasca nel liquido. Il liquido gorgogliò, riempiendola. L’aria spostata si sollevò in mille bollicine.

Quando la fiasca fu piena, si alzò, e l’infilò sotto il braccio.

«Addio, Stagno,» disse, e si sentiva ridicolo mentre lo diceva, perché non era un addio. Stagno se ne andava con lui.

Era uno dei vantaggi di essere come Stagno, pensò. Stagno poteva andare in molti luoghi, pur senza lasciare mai il suo punto di partenza. Come se, pensò, lui avesse potuto andare con Elayne e nel contempo con Nave… e fosse rimasto sulla Terra e fosse morto da molti secoli.

«Stagno,» chiese, «cosa ne sai tu della morte? Tu muori? Morirai mai?»

Ed anche questo era ridicolo, pensò, perché tutto deve morire. Un giorno, forse, l’universo sarebbe morto, quando l’ultimo guizzo di energia si fosse esaurito: e allora il tempo sarebbe rimasto solo ad aleggiare sulle ceneri di un fenomeno che forse non si sarebbe mai ripetuto.

Futile, pensò. Era tutto futile?

Scosse il capo. Non riusciva a pensarla così.

Forse l’ora di Dio conosceva una risposta. Forse quel grande pianeta azzurro sapeva. Un giorno, forse tra molti millenni, Nave, nell’abisso nero di un lontano settore della galassia, avrebbe ricevuto o scovato la risposta. Forse, nel contesto di quella risposta poteva esserci la spiegazione dello scopo della vita, del flebile lichene aggrappato, talvolta senza speranza, ai minuscoli grumi di materia fluttuanti in un’immensità inesplicabile che non sapeva e non si curava che vi fosse qualcosa chiamata vita.

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