2.

Shakespeare disse a Carnivoro: «È quasi giunto il momento. La vita svanisce rapida: la sento sfuggire. Devi tenerti pronto. Le tue zanne debbono trafiggere la carne nel breve momento che precede la morte. Non devi uccidermi, ma divorarmi mentre muoio. E sicuramente ricorderai tutto il resto. Non dimenticare tutto ciò che ti ho detto. Devi essere il surrogato della mia gente, poiché nessuno di loro è qui. Come migliore amico, come unico amico, non devi essere per me motivo di vergogna, mentre abbandono la vita.»

Carnivoro si acquattò e rabbrividì. «Non l’ho chiesto io,» disse. «Non voglio farlo. Non è mia abitudine uccidere i vecchi ed i moribondi. Le mie prede debbono essere sempre piene di vita e di forza. Ma da essere vivente ad essere vivente, da intelligenza a intelligenza, non posso rifiutarti. Tu dici che è una cosa sacra, che io compio una missione sacerdotale, e questo nessuno può ricusarlo, benché ogni mio istinto grida per la ripugnanza di divorare un amico.»

«Spero,» disse Shakespeare, «che la mia carne non sia troppo tigliosa, il sapore troppo forte. Spero che ingerirla non ti causi conati di vomito.»

«Non vomiterò,» promise Carnivoro. «Sarò d’animo forte. Mi comporterò impeccabilmente. Farò tutto ciò che tu chiedi. Eseguirò tutte le istruzioni. Potrai morire in pace e dignità, sapendo che il tuo ultimo e più fedele amico provvederà a compiere le mansioni della morte. Tuttavia permettimi di farti osservare che questa è la cerimonia più strana e più macabra di cui ho sentito parlare nella mia esistenza lunga e mal spesa.»

Shakespeare ridacchiò, fiaccamente. «Te lo concedo,» disse.

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