IX

Greg disse a Lou di andare a dormire in camera sua, una stanza da letto spaziosa, all’ultimo piano della villa. I due staccarono l’aria condizionata, lasciando le porte del balcone spalancate, e si addormentarono al mormorio della risacca.

Il mattino seguente il cielo era luminoso, senza nuvole. Lou scoprì nell’armadio della stanza alcuni capi di vestiario che gli andavano bene: una camicia a colori vistosi e un paio di calzoni corti. Faceva abbastanza caldo per andare scalzi.

— Nella villa c’è personale siciliano che ti procurerà altri abiti. Basta chiederli — disse Greg, mentre scendevano le scale. — E sapessi come cucinano! Non sappiamo perché siamo qui, ma bisogna dire che ci trattano bene…

La mattinata passò nello scambio di ipotesi. Erano stati sequestrati dal governo mondiale in vista di un progetto ultrasegreto. No, si minacciava una guerra tra Stati Uniti e Cina, e il governo mondiale aveva messo al sicuro i maggiori scienziati delle due parti, onde evitare che venissero eliminati. Sciocchezze, una guerra era impossibile, dato che tutte le nazioni erano disarmate; il governo mondiale non avrebbe mai permesso che scoppiasse una guerra… La verità è che sulla base di Marte è scoppiata un’epidemia di origine ignota e perciò ci manderanno lassù per cercare una cura, prima che la malattia spazzi via tutti da Marte… Ma no! Io ho un cognato su Marte e ho appena ricevuto da lui un lasergramma, la settimana scorsa…

Le voci e le ipotesi si facevano sempre più serrate e inverosimili via via che il sole saliva nel cielo del mattino. Nessuno, comunque, affrontò la spiegazione più semplice di tutte: e cioè che il governo mondiale aveva deciso di impedire che si completassero le ricerche di ingegneria genetica in corso. Era una spiegazione troppo semplice, troppo probabile e troppo penosa per essere prospettata.

Poco prima di pranzo, Lou gironzolava per il patio che dava sul mare. Alcuni degli scienziati più anziani, in compagnia delle mogli, stavano prendendo il sole. Lou, invece, non riusciva a stare fermo e tranquillo. Ci doveva pure essere qualcosa da fare.

Greg arrivò di corsa dalla scaletta di pietra che scendeva dal patio alla spiaggia, in basso.

— Ah, eccoti! — disse a Lou. — Senti, sono andato a dare un’occhiata laggiù, ai piedi di questo strapiombo pittoresco. Le mogli più giovani e le figlie più grandi hanno scovato dei costumi molto simpatici, e stanno divertendosi sulla spiaggia. Spettacolo magnifico. Compresa la figlia maggiore del capo. Che ne dici?

Il ricordo di Bonnie si affacciò alla mente di Lou. — No… grazie. Non ne ho voglia.

Greg si strinse nelle spalle. — Va bene, fa’ come vuoi. Io scendo a correre dietro… alle onde. Caso mai qualcuno mi cercasse.

— Sta’ tranquillo. — Lou si voltò e riprese a camminare avanti e indietro lungo il patio, sforzandosi di pensare a qualcosa di utile da fare. Ma non riusciva a scacciare dalla mente l’immagine di Bonnie in lacrime, sgomenta e disperata, spaventata soprattutto per la sua reazione: Lou lo capiva, adesso.

Dovrei cercare di mettermi in contatto con lei, per dirle che va tutto bene, che non ce l’ho con lei.

Si alzò e rientrò nella villa, cercando un domestico. Invece s’imbatté in Kaufman e Sutherland.

— Hai visto Greg Belsen? — chiese Kaufman. — Proprio in questo momento siamo stati convocati per una riunione dove ci spiegheranno di che si tratta, e possiamo portare tre persone. Dov’è?

Lou stava per rispondere, quando si ricordò che sulla spiaggia c’era la figlia di Kaufman. — Greg? Sì, era qui un momento fa. Ma adesso non so dove sia.

Sutherland assunse un’aria scontenta. — La macchina aspetta fuori, ci vogliono subito.

— Vengo io — disse Lou, quasi involontariamente.

— Voi?

— Verrò al posto di Greg.

— Ma…

— A meno che non preferiate cercarvi qualcun altro.

Kaufman diede un’occhiata imbarazzata a Sutherland, che guardava la camicia vistosa e i pantaloni corti di Lou. Anche loro erano in abiti sportivi, ma portavano colori scuri e tradizionali.

— Vado e mi cambio in due minuti — propose Lou.

— Non c’è tempo per cambiarsi — disse Kaufman. — La macchina è fuori che aspetta. Andiamo. — Lou, con un leggero sorriso di soddisfazione, li seguì verso l’auto. Sui sedili anteriori c’erano due uomini che indossavano una divisa scura, senza nessun segno distintivo. Entrambi erano bruni, olivastri. Non dissero una parola.

Sutherland aggrottò la fronte, quando la macchina si avviò, lasciando la villa. — Che cosa pensi di tutta questa faccenda?

Il dottor Kaufman scosse la testa. — Qualunque sia la spiegazione, sarà sicuramente più fantastica di tutte le voci che sono corse finora.

Filarono per quasi un’ora, lungo una strada tortuosa e polverosa. Per quasi tutto il percorso, la rotabile s’inoltrava in mezzo alle colline, e non c’era niente da vedere tranne il fogliame verde, che frusciava al passaggio dell’auto. Ogni tanto, però, raggiungevano la sommità di un colle, che aveva da un lato, a perdita d’occhio, il mare scintillante sotto il sole e dall’altro i campi ricchi di ulivi e di agrumeti.

Nel frattempo, nuvoloni scuri si erano addensati in cielo, e quando superarono il cancello di un’altra villa antica con le solite sentinelle in divisa che salutavano sull’attenti, le nuvole incombevano minacciose, tra il brontolio di tuoni e il balenare dei lampi. Era scuro come se fosse sera, sebbene fossero appena le prime ore del pomeriggio.

Decine di macchine erano ferme davanti all’ingresso principale della villa. All’interno, l’antico edificio era gremito di uomini e donne che si aggiravano per le sale.

Appena varcata la soglia, Lou, Kaufman e Sutherland si fermarono sbalorditi davanti a quella folla.

— Ma è Margolin, dell’Accademia di Parigi — disse il dottor Kaufman. — Che cosa viene a fare qui?

— Liu, di Tokio — aggiunse Sutherland.

— Guarda! Rosenzweig… e anche Yossarian!

— Dio mio, ci sono tutti i pezzi grossi nel nostro campo!

Lou riconobbe alcuni dei genetisti e biochimici più famosi del mondo. Non vide, però, altri tecnici di elaboratori.

— Adrian! — disse un ometto fragile, con un ciuffo di capelli bianchi. — Lo sapevo che avrebbero preso anche te.

Kaufman si voltò e riconobbe subito il vecchio. Commosso, e insieme contento, gli andò incontro, tendendogli le mani: — Max… anche tu qui.

In quel momento Lou lo riconobbe: era il professor DeVreis, il decano dei genetisti viventi, l’uomo che era stato il maestro dei maggiori scienziati del ramo: di Kaufman, per esempio, quando era sui banchi dell’università.

Il dottor Sutherland si unì ai due, e in breve intorno a loro si riunì una piccola folla di personaggi dall’aria grave, perplessa. Lou, rimasto solo, rimase in piedi accanto all’entrata.

— Conoscete qualcuno di questi signori?

Lou alzò gli occhi e vide un individuo all’incirca della sua età, alto, allampanato, con la mascella sporgente, che si era fermato vicino a lui. Indossava una giacca sformata, un paio di pantaloni lunghi e quel genere di scarpe che si trovano esclusivamente nelle città dell’emisfero settentrionale. Osservandolo meglio, Lou si accorse che faceva uno sforzo violento per apparire tranquillo e non spaventato.

— Personalmente non ne conosco molti — rispose Lou. Poi fece il nome di diversi scienziati, indicandoli.

Il suo nuovo compagno scosse la testa, preoccupato: — Genetisti? Biochimici? Ma io, perché sono qui? Sono un fisico nucleare!

Parlava con un leggero accento che Lou non riuscì a identificare.

Adesso Lou si sentiva altrettanto perplesso. — Se può servirvi da consolazione, io sono un tecnico dei calcolatori. Mi chiamo Lou Christopher.

Con un largo sorriso, l’altro strinse la mano tesa da Lou.

— Anton Kori. Dell’Università di Praga.

— E io lavoro all’Istituto Watson, di Genetica… anzi, lavoravo.

— Americano?

Lou annuì. In quel momento si accorse che molti dei presenti avevano in mano bicchieri e salatini. — A quanto pare stanno servendo un rinfresco. Non avete fame?

Kori si strinse nelle spalle. — Adesso che me ne parlate…

Si scambiarono informazioni, passando per le sale affollate, finché scoprirono il tavolo del rinfresco.

— Da trent’anni non è più capitata una cosa del genere in Cecoslovacchia — disse Kori prendendo un panino. — Arrestati in piena notte e portati via dalla polizia… un po’ come nelle storie che raccontava mio nonno.

Di colpo si illuminò tutto. — Finalmente due che conosco!

Lou lo seguì, mentre l’altro si precipitava incontro a due uomini più anziani di lui, che parlavano e mangiavano tranquillamente, in piedi accanto alle porte-finestre. Uno dei due era un tipo grosso, calvo, con la pelle chiarissima, in calzoni corti e maglione. L’altro, a quanto pareva, era un indiano: scuro, magro, con occhi profondi, tipicamente orientale. Il completo grigio che indossava sottolineava l’aspetto esotico.

— Clark! Janda! — chiamò Kori, precipitandosi verso i due.

— Anton — disse il tipo più grosso. — Ma tu, che cosa fai qui? O meglio, che cosa ci stiamo a fare tutti? Lo sai? — L’accento era inequivocabilmente inglese.

Kori presentò Lou a Clark Frederick e a Ramash Jandawarlu, ingegneri missilistici.

— Ingegneri missilistici? — ripeté Lou. I due annuirono.

— Noi due lavoravamo assieme, quasi sempre per telefono — disse Frederick, — a un nuovo razzo a fusione.

— Per navi interstellari — disse Kori.

— Interstellari… del tipo delle sonde che sono state lanciate verso la metà del secolo? — Intanto Lou si sforzava di capire se il suo interlocutore si chiamava Clark Frederick o Frederick Clark.

— Sì, come le sonde, ma molto meglio — disse Jandawarlu con la sua voce sottile. — Si trattava di razzi propulsori destinati a navi con equipaggio a bordo, e non soltanto a piccole sonde cariche di strumenti.

— Navi con uomini a bordo, dirette alle stelle?

— Sì. Un progetto meraviglioso.

Clark protestò: — Parli come se per noi ormai tutto fosse finito.

L’indiano allargò le braccia. — Ci troviamo qui. Non credo che ci lasceranno riprendere il lavoro.

— Ma chi ci ha arrestati? — chiese Kori.

Lou disse: — Quelli del governo mondiale. Per motivi loro, hanno prelevato e portato qui tutti i maggiori genetisti e biochimici del mondo… oltre ad alcuni scienziati missilistici.

— Ma perché?

Come in risposta, da un altoparlante invisibile venne una voce: — Signore e signori, per cortesia vogliate riunirvi nel salone principale, dove avrà inizio la conferenza.

Per un secondo o due, la grande sala piombò nel silenzio assoluto, e tutti i presenti rimasero immobili. Non si sentiva, nell’intero palazzo, un solo rumore, a eccezione del brontolio sordo del tuono, in lontananza. Poi, tutti ripresero a parlare e a muoversi, nello stesso istante. Ci fu un momento di tremenda confusione quando un centinaio di uomini e donne defluirono nell’atrio d’ingresso, dirigendosi verso il salone principale della villa.

Non era difficile trovare il salone. Era situato in fondo all’atrio ed era un ambiente enorme, con drappeggi azzurri e oro. Alle pareti, c’erano tre candelabri scolpiti, e una mezza dozzina di specchi, che andavano dal pavimento al soffitto. Il pavimento era di legno lucidato a cera, per il ballo. Attualmente era occupato da file di sedie pieghevoli. L’estremità della sala era libera, a eccezione di uno schermo enorme, in quel momento oscurato, grande come quello di un teatro.

Quando tutti furono entrati, le porte si richiusero con uno scatto sordo.

Non si vede nessuno, ma sicuramente ci tengono d’occhio, pensò Lou, con un brivido.

Lou, con Kori, Frederick e Janda, prese posto in una delle ultime file. In prima fila c’erano Kaufman e Sutherland, vicino al professor DeVreis.

Il grande schermo si accese, diffondendo una luce fioca. Una voce disse: — Signori, vi parlerà sua eccellenza Vassily Kobryn, Ministro della Sicurezza.

Sul video comparve la faccia tozza e austera di Kobryn.

— Un russo — mormorò Kori.

— Signori — disse Kobryn, lentamente, — mi è stato affidato lo spiacevole incarico di spiegarvi perché siete stati strappati al vostro lavoro e alle vostre case e portati qui. Vi prego di credermi, ma il Consiglio dei Ministri ha studiato a lungo e a fondo la questione, prima di giungere a questa drastica decisione.

Le cose si mettono male, pensò Lou. Ci sta preparando a qualcosa di peggio di quanto ci è capitato fino adesso.

— Come sapete — continuò Kobryn, con la faccia estremamente grave, — il governo ha lavorato per più di trent’anni per rendere il pianeta pacifico e abitabile. I nostri sforzi sono stati resi estremamente ardui da due fattori: il nazionalismo e l’aumento della popolazione. Riteniamo di avere raggiunto risultati positivi su entrambi i fronti. Attualmente non esistono più eserciti nazionali e, di conseguenza, non sono più possibili guerre tra nazioni. Negli ultimi dieci anni l’aumento della popolazione mondiale è stato contenuto. Dobbiamo ammettere che venti miliardi di abitanti rappresenta una cifra molto alta e ben lontana dall’optimum, comunque stiamo cercando di fornire un ambiente decente all’intera popolazione mondiale.

— E le metropoli? — disse forte qualcuno.

— Silenzio!

— Lasciatelo venire al punto.

Kobryn sembrava quasi contento dell’interruzione. Rispose: — Sì, le metropoli. Riconosco che le maggiori città del mondo sono in uno stato completamente selvaggio… del tutto inabitabili, almeno in termini civili. Per dirla in breve, per quanto riguarda le megalopoli siamo stati battuti, e in realtà abbiamo cominciato troppo tardi. Comunque, non abbiamo ceduto le armi. Una parte notevole del nostro lavoro è dedicata a programmi a lunga scadenza per riportare le città a un livello civile.

— Perché ci troviamo qui? — chiese una voce vibrante. Annuendo, Kobryn disse: — Ci sto arrivando. Viviamo, come sapete, in un mondo pericolosamente sovrappopolato. Secondo molti, ormai abbiamo superato il limite critico, e la popolazione mondiale è decisamente troppo numerosa. C’è chi è convinto che i barbari delle metropoli, prima o poi, prenderanno il sopravvento su noi tutti. Anche gli ottimisti sono d’accordo nel pensare che la popolazione mondiale è troppo alta, che ci troviamo costantemente sull’orlo del disastro. Nell’eventualità di una carestia su scala mondiale o di un terremoto o di un ciclone che sfuggano al nostro controllo, le ripercussioni sarebbero tragiche per il mondo intero. Siamo riusciti a eliminare le guerre e a prevenire la fame. Ma di stretta misura. Siamo in grado di amministrare una popolazione di venti miliardi di individui, a patto però che la società mondiale sia assolutamente stabile.

La voce di Kobryn nel pronunciare quelle parole ebbe una vibrazione metallica. — Abbiamo assoluto bisogno della stabilità. A qualunque costo. Le previsioni degli elaboratori e dei nostri migliori pianificatori sociali giungono tutte alla stessa conclusione: se non abbiamo la stabilità questo nostro mondo sovraffollato precipiterà nel caos, con tutte le conseguenze: fame, malattie, guerre, barbarie. Senza stabilità, ci autodistruggeremo e inoltre avveleneremo totalmente questo pianeta.

Seguì un lungo silenzio, mentre Kobryn fissava l’auditorio dal teleschermo, aspettando che i presenti assimilassero le sue parole. Il silenzio era rotto solo da qualche colpo di tosse o dallo strisciare nervoso di piedi.

— Il prezzo che dobbiamo pagare per avere la stabilità è il progresso. Voi e il vostro lavoro siete parte di quel prezzo.

Adesso tutti si agitavano. La sala fu attraversata da una specie di sospiro collettivo, quasi un ansito. I presenti, più che irritati o sconvolti, erano soprattutto preoccupati e spaventati.

Kobryn proseguì: — Siete, per la maggior parte, genetisti e biochimici. In esperimenti recenti, avete dimostrato di essere in grado di alterare il materiale genetico di un uovo fecondato, per cui vi è possibile controllare le caratteristiche fisiche e mentali del nascituro. Professor DeVreis, mi avete detto voi stesso che nel giro di pochi anni sarete in grado di produrre un superuomo.

— Sì — disse DeVreis, con la sua voce da vecchio. — Un superuomo… o un idiota, uno schiavo con grossi muscoli enormi e quel tanto d’intelligenza sufficiente per obbedire agli ordini.

— Proprio così — disse Kobryn, impassibile. — In entrambi i casi, l’equilibrio sociale ne rimarrebbe sconvolto. Noi non permetteremo che questo avvenga. Non possiamo.

— Ma che cosa vuol dire?

— Non si può fermare la scienza!

— Signori, prego! — Kobryn alzò la voce. — Riflettete un momento! Per quanto l’idea di produrre un superuomo sia affascinante, rendetevi conto che non vi permetteremo mai di realizzarla. Chi sarà il primo superuomo? Come lo selezionerete? Ma non vi rendete conto che venti miliardi di persone si precipiterannno su di voi, vi calpesteranno a morte perché voi trasformiate i loro bambini in altrettanti dèi? O, peggio ancora, spinti dalla paura e dalla gelosia, trucideranno i primi superuomini che usciranno dalle vostre mani!

— No, non sarà così.

— Noi non permetteremmo…

— Comunque voi consideriate il problema, è indubbio che qualsiasi manomissione su vasta scala del patrimonio genetico dell’umanità distruggerà la società così come noi la conosciamo. Credetemi! Abbiamo dedicato più di un anno a studiare il problema. I migliori elaboratori, i maggiori esperti sociali si sono dedicati alla questione. Il nostro mondo ha bisogno di stabilità. L’ingegneria genetica è un elemento destabilizzante, un fattore pericoloso, che finirà col distruggere la società. Il governo non può permetterlo.

— Ma sorgerà una società migliore! Un mondo di superuomini!

Kobryn scosse la testa. — No! Si creerà il caos. Riflettete su quanto è accaduto nel secolo scorso, quando vasti gruppi di popolazioni si sono resi improvvisamente conto che erano in grado di scrollarsi di dosso i sistemi sociali che li avevano ridotti in schiavitù. Quando gli ultimi resti degli imperi europei furono eliminati dall’Asia e dall’Africa, quando i neri d’America e la gioventù mondiale capirono di disporre di un potere politico, che cosa accadde? Ci fu forse una marcia pacifica verso una società felice? No, niente del genere. Si ebbero guerre e rivoluzioni, rivolte e massacri, e ci volle quasi tutto il secolo ventunesimo per ritrovare l’equilibrio. E in tutto quel periodo, la popolazione mondiale era inferiore ai cinque miliardi! Adesso abbiamo in mano la possibilità di attuare un’ingegneria genetica, la possibilità di fare dei nostri figli altrettanti dèi, o altrettanti schiavi. E voi credete che la popolazione mondiale se ne starà pazientemente nei ranghi ad aspettare che voi realizziate il miracolo? Ma non vi rendete conto che tiranni in potenza si servirebbero della vostra scienza per produrre gli idioti di cui ci parlava il professor DeVreis? In un mondo di venti miliardi di individui, non ci riprenderemmo mai più da uno sconvolgimento così violento dell’ordine sociale. Non troveremmo più un nuovo equilibrio, ma unicamente il caos. Il nostro mondo piomberebbe nell’anarchia e nella dissolutezza. I vostri laboratori verrebbero distrutti e voi stessi sareste fatti a pezzi dalla folla.

Ci furono poche proteste, non del tutto convinte, da parte del pubblico.

Alla fine, Kobryn disse, severo: — Il governo ha deciso che ogni ricerca nel campo dell’ingegneria genetica debba essere sospesa. Di conseguenza, i maggiori scienziati sono stati fatti partecipare a questa riunione. Voi e i vostri colleghi, duemila scienziati in tutto, sarete mandati in esilio.

— In esilio!

— Ma come!

— Non potete!

— In esilio permanente, insieme con i vostri familiari più stretti, a bordo di un satellite orbitale che è stato messo a punto appositamente per voi.

Kaufman scattò in piedi. — Non potete farlo! Siamo cittadini del mondo e abbiamo dei diritti riconosciuti dalla costituzione!

— La costituzione mondiale dà all’assemblea legislativa il potere di sospendere le garanzie costituzionali in caso di estrema necessità — ribatté Kobryn. — La settimana scorsa, l’Assemblea ha votato e approvato il vostro esilio. La Corte costituzionale mondiale ha preso in esame il vostro caso, decretando che abbiamo agito nel rispetto della piena legalità.

Kaufman, per un momento, rimase in piedi, con la mano alzata, come se volesse ancora dire qualcosa. Poi, lentamente, come una bambola gonfiabile che si affloscia all’improvviso, crollò sulla sedia.

— Il Consiglio dei Ministri deplora con profondo rammarico questa azione drastica — disse Kobryn ai presenti, ammutoliti. — Voi, uomini e donne, siete i più grandi scienziati del mondo. Ma per assicurare stabilità e sicurezza ai miliardi di abitanti della Terra, è necessario che poche migliaia siano sacrificati. A bordo del satellite, benché alquanto affollato, vi abbiamo assicurato condizioni di vita buone e anche lussuose, nei limiti del possibile. Non intendiamo farvi alcun male. Abbiamo cercato un’altra soluzione del problema. Non ce n’è. Ed è assolutamente necessario che il vostro lavoro nel campo dell’ingegneria genetica non sconvolga l’umanità. Tentiamo di evitare un disastro. Spero che comprenderete.

— Brutto bugiardo — borbottò Kori.

Si alzò Frederick.

— Sono Clark Frederick. Non sono un genetista né un biochimico, ma un ingegnere missilistico. Ci sono qui anche alcuni miei colleghi. Siamo compresi anche noi, tra gli esuli? E in tal caso, perché?

Kobryn guardò da un’altra parte, verso qualcuno o qualcosa fuori dal campo della telecamera. Poi abbassò gli occhi, come per leggere rapidamente qualcosa.

— Ah, il dottor Frederick. Voi e alcuni ingegneri che lavoravano ai razzi interstellari siete compresi nella lista, mi spiace dirlo. È stato stabilito che anche il vostro lavoro rischiava di sconvolgere la stabilità sociale e… — Kobryn si strinse nelle spalle, come per dire: Il resto lo sapete.

La faccia di Frederick divenne rossa di rabbia. — Ma come diavolo è possibile che razzi diretti ad Alpha Centauri o alla Stella Barnard sconvolgano l’equilibrio sociale della Terra?

— Ve lo spiego subito — disse Kobryn. — Se le masse terrestri ritengono che esistano navi spaziali capaci di trasportare su nuovi mondi, su nuovi pianeti di altre stelle, succederà che milioni di persone tentino di raggiungere queste nuove frontiere. Come sapete meglio di me, soltanto un gruppetto sparuto ha la speranza di salpare a bordo di una nave spaziale. Ed è un mezzo troppo costoso per pensare a una vera colonizzazione.

— Certo. Questo lo sanno tutti — disse Frederick.

— No, non tutti. Le masse si aspetteranno sempre che le vostre navi spaziali le trasportino verso nuovi mondi, dove cominceranno una vita nuova, libere dalla Terra. E quando noi diremo loro che questo è impossibile, loro non crederanno alle nostre parole. Come risultato, avremo proteste, rivolte e tumulti. — Kobryn scosse la testa. — Non possiamo permettere che questo avvenga. Sono sinceramente addolorato.

Frederick si rimise a sedere.

— E poi — gli disse Kori, — spenderanno a proprio beneficio il denaro che serviva a noi.

Il professor DeVreis era di nuovo in piedi. — Ministro Kobryn, avete condannato all’esilio perpetuo migliaia di uomini, donne e bambini. Naturalmente, noi respingiamo in blocco questa decisione. Essa è assolutamente antitetica allo spirito del governo mondiale e della libertà umana. Chiediamo un dibattito libero e aperto, davanti al Consiglio dei Ministri, all’Assemblea e alla Corte Costituzionale Mondiale.

La faccia di Kobryn s’indurì. La sua figura gigantesca dominò, dagli schermi, la fragile persona del vecchio scienziato. — Non mi avete capito. La decisione è già stata presa. È definitiva. Senza appello. Domani sarete trasportati sulla stazione orbitale.

Il quadro si spense e gli astanti, sbigottiti, rimasero seduti, in silenzio.

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