XX

Era letteralmente un altro mondo.

Lou non vide mai il satellite dall’esterno. Lui, Bonnie e Kori furono stipati su un razzo-spola, totalmente privo di oblò. Erano seduti in seggiolini di plastica stampata in mezzo a bidoni di benzina, casse di viveri, motori, pompe, arredi vari. Secondo Lou, attraverso il portello che li collegava a un secondo modulo cargo, si sentiva belare una pecora, o forse una capra.

Il satellite era enorme, una vera città orbitante. All’interno, c’era un ambiente strano, diverso dal solito. Per esempio, si aveva l’illusione ottica di andare sempre in salita. I corridoi, in entrambe le direzioni, s’incurvavano perché il satellite era costituito da una serie di ruote gigantesche, sistemate una dentro l’altra. I quartieri residenziali si trovavano nella ruota più grossa, all’esterno, dove la forza centrifuga era quasi pari alla gravita terrestre. Lou detestò immediatamente quel posto, e subito non lo poté soffrire.

La sua cabina (non era possibile chiamarla stanza) era una meraviglia di sfruttamento dello spazio, tutta rifinita in plastica e rivestita di alluminio spray. Ma per Lou era una specie di cella. Un astronauta si sarebbe sentito a suo agio, uno scienziato distaccato per un mese sul satellite ci avrebbe fatto l’abitudine, ma Lou pensava che avrebbe dovuto viverci il resto della sua vita.

La cella di Edmond Dantes era più spaziosa di questa.

In quel piccolo mondo di plastica, la vita si trasformò presto in una routine monotona. Lou, Kori e Bonnie, quando sbarcarono dal portello del razzo, furono ricevuti da un comitato d’onore. Poi furono accompagnati alle rispettive residenze. Dopo aver disfatto la sua unica valigia, Lou ricevette una telefonata della signora Kaufman, che fungeva da segretaria del marito e lo pregava di recarsi al Consiglio di direzione il mattino successivo, subito dopo colazione.

Il tempo, ovviamente, era del tutto arbitrario a bordo del satellite, dove l’ora era stata uniformata al Tempo Universale. Perciò, quando a Greenwich in Inghilterra era mezzanotte, era mezzanotte anche a bordo del satellite.

Lou impiegò la prima sera a girovagare per i corridoi in salita. Non riusciva a trovare Bonnie, non sapeva dove abitasse né quale fosse il suo numero di telefono. Lo stesso per Kori. Anziché chiedere a qualcuno, imboccò il corridoio principale, un ambiente totalmente anonimo, dalle pareti nude di plastica, interrotte soltanto da porte di plastica tutte uguali, fatta eccezione per i numeri stampati su ogni porta.

In giro per i corridoi c’era altra gente, in gran parte sconosciuti, tranne pochi uomini e donne con cui aveva lavorato all’Istituto. Riconoscendolo, gli altri lo salutavano con un cenno o gli dicevano buongiorno. Comunque, non era possibile capire se erano sorpresi nel vederlo o se si chiedevano perché non l’avevano mai visto prima. Sulle loro facce, Lou leggeva soltanto un vago senso di colpa, una sfumatura di vergogna per essere prigionieri lassù.

Sono come morti viventi, pensava Lou.

L’unico diversivo nel lungo corridoio anonimo e in salita, era la scaletta a chiocciola che, ogni dieci minuti, portava alla ruota successiva, più vicina all’asse del satellite. Dopo averne superate un certo numero, Lou decise di salire di sopra per vedere che cosa c’era.

La scaletta finiva in un altro corridoio dal pavimento curvo, identico al primo, tranne che era più piccolo, più stretto e con le porte soltanto su un lato. Il lato sinistro con tutta probabilità è la paratia esterna. Lou immaginava che, al secondo piano, la gravita fosse minore, ma in realtà non avvertì nessuna differenza. Era evidente che le dimensioni del satellite erano molto maggiori di quanto avesse pensato. Lou cominciava a rendersi conto di quanto dovesse essere grande quella stazione spaziale, per ospitare a bordo duemila scienziati con le loro famiglie.

Mentre gironzolava lungo il corridoio, arrivò in un settore scarsamente illuminato. Poche lampadine rosse rompevano l’oscurità, e si vedeva a stento dove mettere i piedi. Davanti a sé, Lou vide un’ombra immobile. Quando fu più vicino riconobbe l’uomo.

— Greg! Ehi, Greg!

Greg Belsen trasalì, poi si girò per vedere chi aveva chiamato.

— Greg! — disse Lou, sorridendo e posando una mano sulla spalla dell’amico, — come sono contento di vederti!

— Ciao, Lou — disse Greg, piano. — Ho sentito che ti hanno portato quassù, finalmente.

Il sorriso di Lou svanì. Non era più il Greg che aveva conosciuto all’Istituto. L’antica vitalità era scomparsa. Allora capì perché Greg era lì, in quel settore preciso del satellite. Sulla parete si apriva un oblò: un piccolo cerchio di plastiglass oscurato. Al di là dell’oblò, era sospesa la Terra. Ricca, azzurra, striata di nuvole bianche accecanti, straordinariamente vicina, viva. Girava attorno in un cerchio lento, riflesso del movimento di rotazione del satellite.

— È solo a poche centinaia di chilometri — disse Greg con una strana voce incolore che Lou non gli aveva mai sentito prima. — Meno della distanza tra Albuquerque e Los Angeles. Se ti butti da uno dei portelli, praticamente in un salto sei dritto a casa.

Lou si sentì gelare.

Ritrovò Bonnie e Kori l’indomani mattina, dopo poche ore di sonno agitato, pieno di sogni. Arrivarono assieme alla tavola calda automatica e si ritrovarono tutti e tre, davanti al menu che era poi un pannello irto di pulsanti selettori. In quel momento, erano accesi solo i pulsanti della colazione. Il locale era in grado di accogliere una cinquantina di persone intorno ai suoi tavoli lunghi e stretti. A quell’ora era quasi deserto.

— Per lo meno, non ci sono ore di punta — disse Kori, cercando di mostrarsi allegro.

Ma né Bonnie né Lou gli risposero; e allora, scrollando le spalle ossute, lo scienziato si rivolse al quadro selettore per esaminare che cosa c’era di buono per colazione.

— Stamane siete attesi da Kaufman e dal Consiglio? — chiese Lou.

Bonnie scosse la testa in un cenno negativo, mentre Kori rispondeva: — Sì, alle nove e mezzo.

Lou, sorpreso, disse a Kori: — Hanno convocato anche te? Ma tu non sei dell’Istituto. Che cosa vuole da te Kaufman?

— Il vostro dottor Kaufman è stato eletto capo della colonia — rispose Kori. — Non lo sapevi?

— No, non lo sapevo. Credevo che fosse il professor DeVreis…

Kori scosse lentamente la testa. — DeVreis è morto di un attacco di cuore, il giorno che è arrivato qui.

— Oh! — Lou aveva l’impressione che fosse morto qualcuno di molto vicino a lui. Conosceva appena DeVreis, ma gli sembrava profondamente ingiusto che un uomo che aveva vissuto una vita così ricca e utile fosse stato cacciato in esilio per andare a morire lì, in quel posto così triste.

Kori si voltò verso il quadro selettore e premette i pulsanti: succo d’arancia, uova, panini, salse e caffè. Quasi immediatamente, una sezione del quadro scivolò via, lasciando apparire un vassoio fumante con l’ordinazione.

— Se non altro — disse Kori, — si mangia bene.

Ma certo che si mangia bene, pensò Lou. Che fortuna finire in questa galera! Rivolgendosi a Bonnie, chiese: — Kaufman non ti ha mandato a chiamare?

Lei scosse la testa. — No, non mi hanno avvertita che c’era una riunione del Consiglio. Con tutta probabilità mi ignoreranno, a meno che non decida di fermarmi per sempre quassù.

Lou annuì. — Già, invece io devo andarci stamane, alle nove.

Arrivò con cinque minuti di ritardo. Aveva impiegato più del previsto per trovare l’ufficio di Kaufman, sulla seconda ruota. Era un ambiente lungo e stretto, così lungo che il pavimento era leggermente incurvato. A un’estremità c’era il tavolo di Kaufman e, dall’altra, una lunga tavola da conferenze. L’arredamento era tutto in plastica e leghe leggere, e in complesso l’ambiente aveva un aspetto provvisorio e triste.

Kaufman era seduto a capo-tavola.

La faccia, ancora orgogliosamente bella, mostrava alcune rughe nuove, e i capelli folti erano più bianchi che in passato. Greg Belsen, Kurtz, Sutherland e altri due sconosciuti occupavano le sedie rimanenti, a eccezione di una. Lou prese posto a un’estremità del tavolo.

Dopo aver presentato i due sconosciuti, che rappresentavano i laboratori europei, il dottor Kaufman disse: — Stiamo cercando di abituarci al nuovo ambiente. Ti abbiamo fatto chiamare stamane per invitarti a scegliere un progetto per il tuo lavoro.

— Un progetto? — ripeté Lou.

— Sì — disse il dottor Kaufman. — Non ritengo che si debba rimanere con le mani in mano, a fare niente. Il governo non ci concede l’attrezzatura necessaria per le ricerche di un tempo…

— Non abbiamo un elaboratore a bordo?

Greg per poco non rise. — Niente elaboratore, Lou. Nessun gingillo importante per noi. Niente microscopi elettronici, niente ultracentrifughe, niente attrezzatura per microchirurgia, niente di tutto questo, c’è solo un po’ di roba che risale agli inizi del ventesimo secolo: microscopi ottici e becchi Bunsen: quegli oggetti, tanto per intenderci, che si regalano ai bambini per Natale.

Lou strinse le labbra, in una linea dura. Il dottor Sutherland spiegò: — Il governo non vuole che ci occupiamo di ingegneria genetica. Neppure quassù. Hanno paura che se riprendiamo le ricerche, trasmetteremo l’informazione sulla Terra. Ed è precisamente quello che i capi non vogliono.

— Ma allora… che cosa vogliono che facciamo, quassù? Che ci lasciamo arrugginire? — chiese Lou.

— No — rispose Kaufman. — Manchiamo, è vero, di attrezzatura moderna, ma ci è ancora possibile svolgere una buona attività scientifica. Ci limiteremo a essere più ingegnosi, più inventivi e a combinare qualcosa di buono con l’attrezzatura elementare di cui disponiamo.

L’attrezzatura di cui disponiamo, pensò Lou. Insomma, questa è una prigione, non c’è altro modo di chiamarla.

— Per esempio — disse Ron Kurtz, protendendosi in avanti sulla tavola leggera. — Non ho mai avuto il tempo di mettere per scritto tutto il lavoro che ho fatto negli ultimi tre o quattro anni. Finora ho pubblicato poche note nelle riviste scientifiche, ma adesso ho la possibilità di sedermi a tavolino e di stendere il lavoro accuratamente, come va fatto.

E dove verrà pubblicato? si chiese Lou. Nelle cronache del tempo perduto?

— È evidente che non ci sarà possibile mandare avanti le ricerche d’ingegneria genetica — disse Kaufman, riprendendo l’argomento iniziale. — Per lo meno, non ci sarà lecito seguire la via di un tempo, che richiedeva un’attrezzatura su larga scala. Di conseguenza, ci proponiamo di sviluppare alcune idee al fine di condurre una ricerca utile per cui basti l’attrezzatura di laboratorio di cui disponiamo attualmente. Vorremmo che tu pensassi a un eventuale lavoro e a come conteresti di svolgerlo.

Un tecnico di elaboratore senza elaboratore, pensò Lou, mentre gli veniva in mente il laboratorio di Greg all’Istituto, con attrezzature per analisi chimiche automatiche che valevano milioni di dollari.

Non c’è da meravigliarsi se pensa di buttarsi fuori dalla nave.

Poi disse forte: — Va bene, cercherò qualcosa.

Fece il gesto di alzarsi dal tavolo.

— Ah, sì — aggiunse Kaufman. — Avrai molte cose interessanti da raccontarci sulle vostre avventure delle settimane scorse. Non ti spiacerà, spero, riferirne agli abitanti del satellite, sulla Tri-Vi a circuito chiuso.

Lou fu colto alla sprovvista. — Veramente, io non so…

— Ma certo che riferirai — disse Kaufman. Il colloquio era finito.

Lou rimase là per un momento, sbalordito. Nel frattempo gli altri si stavano alzando. Lou si voltò, e si diresse verso la porta. Nel momento di uscire in corridoio, Greg, dietro di lui, disse:

— Non preoccuparti troppo per il tuo debutto in Tri-Vi, mio caro.

Lou si voltò verso di lui. — Si fa in fretta a dirlo.

Greg gli passò il braccio attorno alle spalle e si avviarono insieme lungo il corridoio. — Sta’ tranquillo. Sarai seduto con me e uno o due altri tipi e faremo una chiacchierata. Tutto qui. Non ti accorgerai nemmeno di avere la telecamera puntata. È facile.

— La mia grande occasione nel mondo dello spettacolo.

Greg gli sorrise, ma con una punta di tristezza. — Senti, cercavamo disperatamente qualcosa da fare, qualcosa da dire. Non è stato facile, e poi di colpo abbiamo scoperto che anche tu eri finito ingabbiato in questa stia.

Stavano dirigendosi verso il settore del corridoio in penombra, dove si apriva l’oblò esterno.

Lou chiese: — E qual è il tuo progetto di ricerca scientifica per i prossimi cinquant’anni?

— Non vorrai mica vedere un uomo adulto piangere! Quei tipi là dentro sono assolutamente patetici. Parlano di rifare il lavoro di Calvin sulla protosintesi o di scrivere le loro memorie. Può andare bene tanto per occupare il tempo, prima di tirare le cuoia.

— Sarebbe molto patriottico da parte loro — disse Lou.

— Non c’è dubbio che il governo sarebbe altamente soddisfatto se passassimo tutti a miglior vita, tranquillamente, senza far baccano. È esattamente quello che vogliono laggiù, sulla Terra.

— Già.

In quel momento si trovavano nella zona oscurata del corridoio. Greg si fermò davanti all’oblò. Laggiù la Terra dondolava lentamente, maestosamente, in ritmo con la rotazione del satellite.

— È questo che rende tutto così difficile — disse Greg, guardando il pianeta. — Vederla laggiù. Sapere che si trova soltanto a poche centinaia di chilometri…

Lou lo afferrò per un braccio. — Vieni via, lascia perdere. Andiamo a prendere un caffè. Torni dentro per parlare con Kori? Sarà in Consiglio alle nove e mezzo.

Staccandosi a fatica dall’oblò, Greg disse: — Lo so, ma non tornerò là dentro. Quei tipi mi fanno venire in mente ogni giorno più una conventicola di becchini. Ho la netta sensazione che diventerò matto, e anche molto presto.

Lou tento di ridere, ma la risata suonava falsa.

Fu una giornata completamente vuota. Lou la impiegò gironzolando lungo i vari piani del satellite, ruota dopo ruota. Scovo una biblioteca, un piccolo auditorium, alcuni telescopi e altri apparecchi astronomici, sparsi qua e là. C’era anche, in uno degli anelli più piccoli e più interni, un giardino idroponico, che occupava l’intero spazio della ruota. Il grande evento della giornata fu assistere all’attracco, a uno dei portelli principali del satellite, di un razzo-spola che portava viveri freschi e medicinali.

Lou chiamo Bonnie per andare a pranzo e si recarono assieme alla tavola calda.

— Sai dov’è Kori? — chiese Bonnie, quando ebbero posato i vassoi sulla tavola.

Lou scosse la testa. — E non andrò a cercarlo. Per una volta tanto desidero averti con me, da sola.

Lei gli sorrise.

Mangiarono, senza avere molte cose da dirsi. Alla fine, mentre giocherellava con il budino, Lou sbottò: — Ma è tremendo! Deprimente! Veramente orrendo… Come è possibile che in nome del buon senso siamo costretti a sopportare questo? A passare il resto della nostra vita in questo modo!

Lei gli prese le mano. — Lou… ti stanno guardando.

— Bonnie, va’ via di qui. Di’ che te ne vuoi andare, con il primo razzo. Non rimanere quassù. Vattene finché puoi.

— Adesso è brutto, Lou — disse lei, tranquillamente, cercando di calmarlo. — Ma poi andrà meglio. Sono sicura che sarà così. Adesso sono ancora tutti scossi, non sono ancora abituati a questa vita. Poi andrà meglio.

— No, andrà peggio. Lo sento. Sono tutti così disperati… Non hanno più uno scopo, non hanno niente per cui vivere!

— Si adatteranno — disse Bonnie. — Anche noi ci abitueremo.

— Noi?

In quel preciso momento, Kori, dinoccolato, allampanato, entrò nel locale e li vide. Si diresse lentamente al loro tavolo, con un largo sorriso. — Vi ho cercato dappertutto.

Alzando gli occhi a guardarlo, Lou sbottò: — Ma come fai a essere così allegro?

Kori si strinse nelle spalle. — Ecco… ho buone notizie per te. Secondo Greg Belsen, sarai contento di sentirle. Però, se non vuoi che te le dica…

— Sì… sì, va bene. Accomodati e dammi le buone notizie. — Lou suo malgrado, sorrideva a Kori. — Chissà che non ne faccia buon uso.

— Dunque… a bordo del razzo di oggi, c’erano i miei ologrammi. Quelli dello Starfarer. Il dottor Kaufman ha detto che potrei proiettarli stasera, così tu non avrai da parlare delle tue gloriose avventure.

— Magnifico! — disse Lou. — La notizia migliore della giornata.

— Greg mi ha detto che ti avrebbe fatto piacere.

Lou accompagnò Bonnie alla sua cabina, mentre Kori andava a cercare il compartimento speciale trasformato in studio Tri-Vi.

— Non puoi restare qui, in prigione — disse Lou, mentre percorrevano il corridoio. — Non te lo permetterò.

— Ma non posso tornare sulla Terra sapendo che tu e gli altri siete intrappolati quassù. Non posso, Lou.

— E credi che io stia meglio, sapendo che tu rimani quassù perché ti dispiace per me?

Erano arrivati alla porta di lei. — Non lo so — disse Bonnie. — È una brutta faccenda, da qualunque parte la si prenda.

Lou annuì.

— Hai voglia di venire a vedere le riprese di Kori? — chiese la ragazza.

— Sì, oggi pomeriggio ho cercato di guardare lo spettacolo Tri-Vi trasmesso dalla Terra. Tutte cose che facevano star male: commedie, storie d’amore, attualità, e tutto si svolgeva tra città, alberi, montagne, venti e…

— Basta! — gridò Bonnie.

Lui la guardò. — Fa male — disse.

Lei gli passò un braccio attorno e gli posò la testa sulla spalla.

— Lo so che fa male, Lou. Lo so.

Un altoparlante dal soffitto annunciò: — La trasmissione speciale delle fotografie scattate dalla missione Starfarer avrà inizio tra cinque minuti.

Bonnie si raddrizzò, diede rapidamente un’occhiata a Lou, poi si voltò per aprire la porta.

Si sedettero uno vicino all’altro sul divano letto, l’unico posto in cui fosse possibile sedersi in quell’ambiente troppo piccolo, e rivolsero l’attenzione allo schermo sulla parete opposta alla porta. Sentirono la voce di Kori che spiegava le varie immagini, e ammirava le stelle, le miriadi di stelle. Rividero Alpha Centauri, ammirarono il grosso pianeta verde e giallo con le sue nuvole candide.

Improvvisamente, Lou scattò in piedi, gridando: — Le stelle! Ecco la via di scampo! Le stelle!

Gli pareva che una maschera pesante gli fosse caduta dagli occhi.

Bonnie era in piedi, accanto a lui, con gli occhi sgranati per la sorpresa. — Che cosa c’è, Lou? Cosa c’è che non va?

Lui l’afferrò, la sollevò da terra e la baciò.

— Le stelle, Bonnie! È questa la nostra via di scampo, il nostro scopo. Invece di rimanere qui, in esilio, potremo andarcene! Dritto verso le stelle! Questa prigione sarà la prima nave spaziale dell’umanità!

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