XI

Il nuovo laboratorio era situato su un’isola, non c’era dubbio. Un’isola del Pacifico, pensò Lou, vedendo il numero di orientali che si aggiravano sul posto. Buona parte del personale era costituito da cinesi o malesi. Una metà dei programmatori del calcolatore era giapponese.

Lou aveva raggiunto l’isola il giorno stesso in cui aveva avuto il colloquio con il Ministro Bernard. Non avevano perso tempo. Sull’aereo con lui c’era Anton Kori, e nessun altro. Buona parte del volo avvenne di notte, di modo che né Kori né Lou furono in grado di capire dov’erano diretti, a parte il fatto che al tramonto avevano puntato in direzione sud-est. L’equipaggio, due piloti arabi e un motorista nero, non aveva comunicato loro la rotta.

Lou e Kori, all’atterraggio, furono separati. Un cinese prelevò Lou all’aeroporto, a bordo di una turboauto aperta, avviandosi lungo una strada stretta e buia, che sembrava aperta nella giungla. Si fermò davanti a una costruzione prefabbricata in plastica e accompagnò Lou in una stanza a pianterreno. Non c’erano molti mobili, ma il letto era comodo, e Lou, prima ancora di essersi sfilato le scarpe, si era già addormentato.

Il mattino dopo, lo stesso cinese gli servì la colazione.

— Il direttore del laboratorio vi porge i suoi saluti — disse. — Vi prega di impiegare la mattinata come meglio credete. Avrà il piacere di conoscervi a pranzo. A mezzogiorno preciso.

Lou diede un’occhiata all’orologio.

— Mi sono preso la libertà di mettervelo a posto.

Guardandolo dritto negli occhi, Lou chiese: — Mentre dormivo?

Il cinese annuì e sulla faccia impassibile apparve l’ombra di un sorriso.

Lou impiegò la mattinata a gironzolare per l’isola. Era piccola, lunga appena sei chilometri, e larga meno di tre. In realtà, era formata da due alture, coperte da una fitta vegetazione, che spuntavano dal mare. C’erano palme e altre specie tropicali che Lou non conosceva.

Il sole era caldo, ma la brezza oceanica era molto gradevole. Insomma, un vero paradiso tropicale.

Tutto attorno all’isola si aprivano spiaggette bianche e più lontano, dove si frangeva l’oceano, la barriera corallina si stendeva all’intorno, a eccezione di una piccola baia, a un’estremità dell’isola. Lou scoprì un grosso battello a cuscino d’aria che si dondolava pigramente nella baia. In quel punto c’erano un molo e alcune palazzine bianche e basse. A poca distanza dagli edifici, era situata la spianata d’atterraggio dei jet, un quadrato erboso, ben tenuto. L’aereo era già ripartito. Non esisteva un’altra pista per reattori pesanti, e perciò potevano atterrare solo jet di tipo verticale.

Le abitazioni si trovavano esattamente dalla parte opposta dell’isola, ed erano collegate con la baia dall’unica strada, tagliata nella giungla. Al centro dell’isola, nella zona pianeggiante tra le due alture, si notavano gli edifici del laboratorio.

Le costruzioni si annidavano all’ombra di alberi giganteschi. In tutto, erano sei edifici pieni del brusio e dell’andirivieni frenetico degli uomini che sballavano pezzi enormi di attrezzature e lavoravano senza un attimo di sosta per montarli il più in fretta possibile. Le grida e il trambusto degli operai indussero Lou ad allontanarsi in fretta. Si fermò solo il tempo necessario per accertarsi che non rovinassero i pezzi che stavano maneggiando. Ma gli uomini non combinavano guai: sapevano quello che facevano.

Poi, mentre passava tra due palazzine del laboratorio, Lou sentì una voce rauca e aspra che chiamava: — Zio Lou!

Alzò gli occhi e vide il Grande George in piedi, con le enormi braccia alzate, in modo che le mani erano posate in cima alla barriera di rete metallica alta due metri e settanta, che li separava. Sotto il peso del gorilla, la rete s’incurvava paurosamente.

— Ehi, Georgy! — Lou, mentre correva verso il recinto, aveva ritrovato il sorriso di un tempo.

Il gorilla saltava su e giù battendosi i fianchi per l’eccitazione. — Zio Lou! Zio Lou!

— Stai bene, Georgy? — gli chiese Lou, quando raggiunse il recinto.

— Sì, sì. Gli sconosciuti mi hanno fatto paura, prima, poi sono stati molto gentili con me. Ma era triste, senza te e nessuno dei vecchi amici.

— Bene. Adesso sono di nuovo qui. Andrà tutto bene, Georgy. Vieni al cancello, che ti tiro fuori di qua dentro.

Il Grande George caracollò lungo la barriera, correndo a quattro zampe. Lou si accorse che il cancelletto non era chiuso a chiave, ma soltanto con un saliscendi, e immediatamente lo aprì.

George si precipitò fuori e prese Lou tra le sue braccia.

— Ehi! Piano! — disse Lou ridendo, mentre George lo sollevava da terra, con una forza che sarebbe bastata a schiacciarlo, e con una presa così delicata da poter maneggiare senza rischio della nitroglicerina.

Lou batté affettuosamente sulle spalle massicce e pelose del gorilla. Il calore e l’odore penetrante di quel corpo davano l’impressione di un’enorme forza della natura. E se il gorilla avesse potuto ridere, senza dubbio in quel momento lo avrebbe fatto.

Un colpo di pistola risuonò lì vicino. George, spaventato, sussultò e per poco non lasciò cadere Lou. Lou vide la paura affacciarsi negli occhi del gorilla, si voltò e scoprì una specie di guardiano in divisa, che teneva la pistola puntata contro di loro.

— Fermati! Metti giù quell’uomo — gridò la guardia tenendosi prudentemente alla larga. Portava una camicia cachi e un paio di calzoni corti; aveva un berretto in testa e una grossa pistola in pugno.

— Piantatela — scattò Lou. — E mettete via quella stupida arma. Noi due siamo vecchi amici.

La guardia rimase a bocca aperta.

— Mettimi giù — disse Lou al gorilla, piano. George lo posò a terra, con estremo riguardo.

Avvicinandosi al guardiano sbalordito, Lou disse: — Mettete via l’arma e non fatevi mai più sorprendere a fare del male al gorilla, e nemmeno a fargli paura. Avete capito bene?

— Ma, credevo…

— Credevate male. Il Grande George non farebbe del male a una mosca, a meno che non si spaventi al punto da farsi prendere dal panico.

— Ma stavo soltanto…

— Facevate male. E adesso, andatevene.

— Sissignore. — Il guardiano si allontanò, infilando l’arma nella fondina che gli pendeva sul fianco.

Lou rimase con il Grande George fino all’ora di pranzo, tenendosi però all’interno della rete metallica che circondava il recinto del gorilla. C’è troppa gente influenzata da cattivi film. E ci sono troppe armi in giro. Lou constatò che il recinto di George era molto vasto e intatto. George aveva a disposizione molto spazio, alberi ad alto fusto, un corso d’acqua e il pendio di una collina su cui arrampicarsi.

— È meglio che tu non esca — disse Lou, quando lasciò il gorilla al cancello. — Almeno finche non ti conosceranno meglio. Non voglio che ti metta nei guai.

— Lo so — gli sussurrò George. — Starò buono.

Lou affrettò il passo verso casa, sapendo che George avrebbe passato buona parte del pomeriggio a procurarsi cibo. Ci voleva una quantità enorme di frutta e di verdura per saziare un gorilla. Mentre si avvicinava agli edifici bianchi prefabbricati, Lou si sentiva sudato e a disagio. La brezza era caduta e adesso faceva molto caldo.

Il turbocar era fermo davanti agli alloggiamenti, e l’autista indossava la stessa divisa cachi del guardiano con la pistola.

Sul sedile posteriore, un uomo di mezza età stava leggendo alcuni giornali. Aveva una faccia mite e rosea, con la fronte altissima e capelli radi color sabbia, che cominciavano a diventare grigi. Era magro e leggermente miope, a giudicare da come teneva il giornale vicino al naso. Portava una camicia bianca inamidata con le maniche corte, e pantaloni lunghi.

Alzò gli occhi dal giornale, quando i sandali di Lou scricchiolarono sulla ghiaia del viale.

— Ah… il signor Christopher.

Sorrise mentre Lou saliva in macchina.

— Sono Donald Marcus, capo del laboratorio. — Tese la mano e Lou gliela strinse. Era molle, quasi viscida.

— Salite. Andiamo al laboratorio. Voglio che vediate il montaggio dell’elaboratore, prima di andare a pranzo.

Lou salì in macchina, sedendosi a fianco del nuovo capo.

— Tra l’altro — disse Marcus, mentre la macchina si metteva in moto, — sapevate di essere in ritardo di tre minuti?

Senza battere ciglio, Lou ribatté: — Probabilmente la mia guardia non mi ha rimesso a posto molto bene l’orologio.

Marcus sembrò un po’ sorpreso, ma non disse niente.

L’elaboratore era sistemato in un edificio a parte, di fianco al laboratorio, non lontano dal recinto del Grande Gorge.

Dentro l’edificio a un piano, regnava il caos. Alcuni operai estraevano grosse mensole dalle casse e toglievano gli involucri protettivi di plastica, lasciando tutt’attorno sul pavimento enormi pezzi di poliestere. I falegnami, da parte loro, stavano montando le pareti divisorie, tra lo stridere delle seghe e il sibilo dei trapani. Qualcuno picchiava su un muro. Tutti parlavano forte, chiamandosi da una parte all’altra, gridando ordini e risposte, per lo più con la cantilena cinese. Lou per poco non venne travolto da quattro uomini che a testa bassa e con la schiena curva trascinavano l’enorme quadro di controllo, facendolo passare quasi di corsa attraverso le grandi porte spalancate, in fondo alla sala.

Faceva caldo e umido, e nel locale regnava un odore di plastica nuova e di olio da macchina. Lou ormai era tutto sudato.

— La maggior parte di questi pezzi — gridò Marcus, superando il frastuono, — proviene dal vostro elaboratore che si trovava all’Istituto di Genetica.

Lou annuì, senza distogliere gli occhi dagli operai più vicini, che si davano da fare per stendere un grosso cavo attraverso il pavimento.

— Abbiamo trasportato qui i circuiti logici e l’intera memoria dell’elaboratore.

— E i circuiti vocali e il sistema di immissione dei dati? — gridò Lou.

Marcus abbassò la voce fino a un sussurro. — No, non abbiamo trasportato i circuiti voce e neanche le unità di entrata vocali. Dovrete battere direttamente i dati da immettere, e riceverete le risposte sullo schermo o stampate, come in una normale macchina.

— Come? E perche?

Marcus evito lo sguardo di Lou. — Non abbiamo avuto il tempo e nemmeno la possibilità di portare via tutto. E poi… — abbassò la voce al punto che Lou dovette chinarsi per sentire, — con tutti quei cinesi in giro, tra operai e tecnici, se sentono un elaboratore che parla, c’è il rischio che si spaventino e perdano la testa. Penserebbero che è il diavolo o qualcosa di soprannaturale.

Lou lo guardo in faccia. — Volete scherzare. Non c’è nessuno che…

Marcus lo fermo, alzando la mano. — No, dico sul serio. Beninteso, abbiamo tra i tecnici qualche tipo in gamba, ma il personale di servizio arriva direttamente dalla campagna, credetemi. Il mio autista, per esempio, che pure è un ottimo meccanico, porta al collo un sacchetto, con dentro polvere di ossa. Secondo lui, serve a tener lontani gli spiriti malvagi.

Al momento di uscire dal laboratorio e di risalire in macchina, Lou osservo attentamente l’autista. Effettivamente, l’uomo portava al collo una striscia di cuoio, a cui era appeso un sacchetto.

Pranzarono sulla veranda a casa di Marcus. L’edificio era costruito in pietra e legno, con un tetto di tegole rosse, che sporgeva di parecchio dal muro, in modo da creare una zona d’ombra quanto mai riposante contro il riverbero del sole. La casa era situata in cima a una collina che dominava la piccola baia azzurra, e la brezza dell’oceano rendeva piacevolissimo il soggiorno in veranda. Lou si appoggiò all’indietro sulla seggiola di vimini, osservando il vetro del suo bicchiere gelato che si appannava, e tendendo l’orecchio al canto degli uccelli tra i cespugli fioriti che circondavano la casa.

— Un mese fa — gli stava dicendo Marcus, — questa era l’unica casa dell’isola. Alla fine della settimana, ci saranno più di cento persone, tra cui venti scienziati, come voi.

— Non sono uno scienziato — disse Lou, — Sono un tecnico d’elaboratore.

Marcus sorrise appena. — Sì, lo so. Ma, per me, chiunque è addetto al problema della genetica è uno scienziato. Di professione, io sono ingegnere civile. Eppure in questo momento faccio, per così dire, il capo squadra.

Il giovane autista malese servì il pranzo su un tavolo rotondo di bambù, e ogni volta che si chinava per posare qualcosa sulla tavola il suo sacchetto magico penzolava fra Lou e Marcus.

— Secondo il piano del Ministro Bernard — disse Marcus, mentre mangiavano, — dobbiamo continuare il lavoro che era in corso nei laboratori di genetica più avanzati.

Lou scosse la testa. — Venti uomini non sono in grado di fare il lavoro di duemila. Soprattutto quando quei duemila erano i migliori nel loro campo.

Marcus masticò un boccone e deglutì, poi disse: — Lo so che non sarà facile. Abbiamo qui alcuni ottimi scienziati ma, e in questo avete perfettamente ragione, non sono i migliori. E non possiamo neppure farne venire troppi, col rischio che il governo voglia ficcare il naso in quello che stiamo facendo.

— E che cosa state facendo, precisamente?

— Quello che vi ho detto prima — disse Marcus, concentrando l’attenzione su una foglia d’insalata che non riusciva a infilzare con la forchetta. — Continueremo le ricerche che stavate conducendo all’Istituto. Intendiamo portare a termine e mostrare al mondo intero che siamo in grado di modificare, deliberatamente e senza rischi, un embrione umano. Una volta diffusa la notizia e annunciato a tutti che il governo aveva tentato di impedire che si portasse a buon fine questa impresa, il governo sarà costretto a lasciare liberi i vostri amici, e a permettere loro di fare ritorno alle loro case e al loro lavoro.

Lou ritrovò l’entusiasmo di un tempo. — Un altro passo nell’evoluzione — disse quasi in un sussurro. — Il miglioramento consapevole, da parte dell’uomo, del proprio corpo e della propria intelligenza.

Marcus si appoggiò allo schienale.

— È un vero crimine — sbottò Lou — che il governo cerchi di bloccare questa ricerca! Nel giro di una generazione o due, saremmo in grado di produrre individui fisicamente e mentalmente perfetti!

Marcus disse, sorridendo: — Sì, siamo in grado di farlo. E ci riusciremo, se voi farete la vostra parte in questo lavoro. Vi rendete conto, immagino, di essere la persona più importante che esiste sulla Terra?

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