V

Quando si riebbe era steso sul pavimento di una stanza. Un’unica lampadina brillava in alto, sul soffitto. Intorno, in piedi, c’era una mezza dozzina di ragazzi. Ragazzi neri. Un’altra banda.

Lou, lentamente, si alzò a sedere. Ogni centimetro del corpo gli doleva orribilmente.

L’unico mobile del locale era un vecchio tavolino di scuola con relativa seggiola, tutto tagliuzzato e con centinaia di iniziali incise sopra. Dietro il tavolino c’era un vecchio manifesto, che rappresentava un leone enorme nell’atto di balzare attraverso un cerchio di fuoco. La parte alta del manifesto era strappata. Lou riuscì a decifrare: …OR MANIFESTAZIONE DEL MONDO, DAL 15 AL 29 APRILE. Quelle parole non gli dicevano niente.

Finalmente la sua attenzione fu attratta dall’uomo seduto dietro il tavolino. Era enorme: l’uomo più grosso che Lou avesse mai visto. Doveva pesare centocinquanta chili, se non di più. Non era grasso, però: era semplicemente enorme, con muscoli giganteschi, su una struttura ossea immensa.

Appariva del tutto sproporzionato, rispetto al tavolino dietro al quale era seduto. L’unico indumento che Lou riusciva a vedere era il gilè aperto. La pelle nera luccicava al riflesso della lampadina.

Non era facile dire che età avesse; forse poco più di vent’anni, forse dieci di più.

Stava parlando con uno dei ragazzi, ignorando lo sguardo sorpreso di Lou.

— … l’unico modo è di riconsegnarlo. Altrimenti la pace tra noi e i Piedipiatti se ne va all’aria.

— Ma è nostro — rispose l’altro ragazzo, rabbioso. — Loro l’hanno perso e noi ce lo siamo preso. E così è nostro, non ti pare?

I ragazzi borbottarono, in segno di approvazione.

— E volete che i Piedipiatti vengano a riprenderselo? Siete disposti a combattere contro l’intera banda? Stanotte? E poi, non ha niente su di sé, non vale proprio la pena che ce lo teniamo.

Lou capì che stavano parlando di lui — Ehi, un momento!

— Chiudi il becco, faccia rosa! — La punta di una scarpa colpì la sua schiena indolenzita. Lou sussultò e tenne la bocca chiusa.

— Un momento — disse il gigante, dando un’occhiata a Lou. — Lo sai dove sei, bianco?

Lou scosse la testa.

Sorridendo da dietro il tavolo, il nero aggiunse: — Sei nel quartier generale segreto dei Gatti Selvaggi. Chiamami pure Felix per brevità. — Felix parlava adagio, con molta precisione, in un inglese puntiglioso, per farsi capire da Lou, come un maestro che si rivolge a un allievo un po’ zuccone.

— Evidentemente — proseguì — sei finito nel nostro territorio quando i Piedipiatti ti davano la caccia, poco fa. Stiamo discutendo se è il caso di restituirti ai Piedipiatti o se dobbiamo pensarci noi a sistemarti.

— Sistemarmi?

— Farti fuori — spiegò un ragazzo alto, allampanato. Felix scosse la testa e si afferrò con le grosse mani ai lati del tavolino. — Zonk, perché non tieni la bocca chiusa? — disse al ragazzo che aveva parlato poco prima. E, rivolgendosi a Lou: — Non puoi rimanere qui. Non puoi unirti alla nostra banda, per ovvi motivi. Se ti lasciamo andare, i Piedipiatti la considereranno un’offesa, e c’è il rischio che scendano in guerra contro di noi.

— Luride pelli bianche — borbottò Zonk.

— I miei amici non vogliono ammetterlo — disse Felix, alzando leggermente la voce, — ma non siamo in grado di fare guerra ai Piedipiatti. Sono molto più numerosi di noi e possono contare su una mezza dozzina di altre bande, come alleate.

— E noi abbiamo tutta la città alta con noi! — gridò Zonk.

— Già, vuoi che l’intera città diventi un campo di battaglia? — ribatté Felix — Basta con questa storia, stupido che non sei altro. Bisogna trovare qualcosa di meglio, finché non saremo abbastanza forti da tenere testa ai Piedipiatti.

— Sentite — disse Lou. — Io voglio soltanto arrivare all’aeroporto, prima che sia circondato dalla polizia.

— La polizia? — scattò Zonk. — Le teste di ferro? Li hai alle calcagna?

— Non le brigate locali, uno sceriffo federale… quelli del governo mondiale.

Lo fissarono tutti senza capire: non avevano la minima idea di che cosa stesse dicendo.

A eccezione di Felix. — E perché li hai alle calcagna?

Lou si strinse nelle spalle. — Non me l’hanno detto.

Zonk scoppio in una risata. — E quando mai le teste di ferro ti dicono perché ti sfondano il cranio? Te lo sfondano e buonanotte! E tu ti trovi all’ospedale, ammesso che ci arrivi!

— Se non raggiungo l’aeroporto prima dell’alba, probabilmente li troverò là ad aspettarmi — disse Lou.

Felix tornò a scuotere la testa. — Non andrai al JFK né prima né dopo l’alba. Non possiamo lasciarti libero, altrimenti i Piedipiatti se la prenderanno con noi.

— Sei una pecora! — gridò Zonk. — Un pulcino bagnato, che ha paura di quei dannati Piedipiatti!

La faccia di Felix s’irrigidì paurosamente. Gli occhi divennero una fessura, come quelli dei gatti. Si alzò dalla sedia, lentamente, pesantemente, e uscì da dietro il tavolino piantandosi sulle gambe grosse come tronchi d’albero. Zonk guardò i compagni in giro, poi fece un passo indietro.

— Siamo stati amici — disse Felix, avanzando come un maroso, riempiendo tutta la stanza. Parlava a voce bassa, minacciosa. — Per questo motivo ti do la possibilità di ritirare quella parola. Subito!

— Mi… mi… mi spiace — balbettò Zonk. — Avevo perso la testa.

— Sono una pecora? — Felix incombeva sul ragazzo tutto ossa, che era appena a un centimetro da lui. Sembrava che stesse per schiacciare Zonk.

— No, non sei una pecora.

— Ho paura di qualcosa o di qualcuno sulla Terra?

— No. Di niente e di nessuno.

Prima ancora di rendersi conto di quello che diceva, Lou disse: — Perciò non hai neanche paura di portarmi al JFK.

Tutti si irrigidirono. La stanza piombò in un silenzio assoluto. Si sarebbe detto che nessuno osasse respirare, e meno di tutti Lou. Era ancora seduto sul pavimento, circondato dai ragazzi che lo guardavano a bocca aperta. Felix era rimasto voltato a metà verso l’impietrito Zonk.

Lentamente, molto lentamente, Felix si girò verso Lou. Le tavole sudicie del pavimento scricchiolarono sotto il suo peso. Felix aveva la faccia inespressiva e dura come il leone del manifesto.

— Come hai detto?

Sono morto comunque, pensò Lou. Poi disse forte: — Se non hai paura di niente e di nessuno, non avrai paura di aiutarmi a raggiungere l’aeroporto. Stanotte. Adesso.

Felix, per un minuto abbondante, fissò Lou, cupo, senza battere ciglio. Poi lentamente aprì la bocca e scoppiò a ridere. Il sogghigno si trasformò in una risata profonda, fragorosa, che faceva tremare la stanza. Anche i ragazzi si misero a ridere.

— Sei un bel tipo, uomo bianco, davvero un bel tipo, a parlarmi così. — Felix, ridendo sgangheratamente, tornò vicino al tavolo. — Hai del fegato. Non molto cervello, forse, ma del fegato sì. — Si lasciò cadere sulla seggiola con tale violenza che Lou temette di vederla andare in pezzi.

Felix scosse la testa, sempre ridendo. — E così, tu mi sfidi a darti una mano. Che colpo, questo, che colpo magnifico!

Lou si alzò in piedi. — E va bene, visto che fa tanto ridere. O mi aiuti, o mi ammazzi, o mi lasci libero. Scegli.

Felix, con un gesto della mano, disse: — Devi avere un po’ di sangue nero nelle vene, tu. Hai del fegato, e va bene. Ma adesso ascoltami: se ti lascio andare, ti fanno fuori prima dell’alba, lo sai? Se ti do una mano, scateno una guerra. Ma… zitto bamboccio, non sarà facile farti la pelle, se hai avuto il fegato di sfidarmi.

Si voltò verso Zonk. — Va’ a prendere la macchina.

— Vuoi…

— Il tipo vuol dare un’occhiata al JFK — disse Felix. — Da anni non l’ho più rivisto neanch’io. E tu ci sei mai stato?

Zonk, con gli occhi sbarrati, scosse la testa.

— Sei pronto a fare la guerra, al nostro ritorno?

Zonk annuì. Gli altri fecero altrettanto.

— Bene, va’ a prendere la macchina allora. Al ritorno, ci fermeremo alla città alta, a cercare rinforzi. Faremo vedere ai Piedipiatti che sarà bene che ci pensino due volte, prima di scatenare una guerra.

— Questo si chiama parlare — disse Zonk, andando verso la porta.

La macchina era una due porte decrepita, coperta di ruggine, scrostata, con i sedili sfondati, il cambio automatico da tempo fuori uso, le luci guaste e senza radio. Comunque, funzionava. Tra sussulti, rantoli e gemiti, funzionava.

Filarono sferragliando lungo la superstrada, con l’aria che fischiava dai finestrini difettosi. Zonk era raggomitolato sul sedile posteriore, semiaddormentato. Anche Lou aveva voglia di dormire. Dalla punta del cranio ai piedi scalzi, era tutto pesto e indolenzito. Gli faceva male il piede che si era ferito senza neppure accorgersene. Comunque, non riusciva a dormire. Dentro, era teso come in un urlo di terrore.

Una volta superato il ponte, la superstrada correva sopraelevata. Di fronte, l’orizzonte si tingeva di grigio. In quel quartiere, gli edifici erano più bassi e meno ammucchiati che a Manhattan.

Felix era quasi schiacciato dietro il volante. Rise sottovoce. — Certa gente nasce proprio con la camicia. Tu hai del fegato, non c’è dubbio, ma soprattutto hai una fortuna sfacciata.

Lou lo guardò. Nella luce scialba e fredda delle prime ore del mattino, Felix sembrava diverso.

— Ma non hai ancora capito? — gli chiese Felix.

— Non so…

Il nero si girò faticosamente sul sedile troppo stretto per un gigante come lui e diede un’occhiata a Zonk, che dormiva profondamente.

Poi disse a Lou: — Credi che siano bastate le tue parole per salvare la pelle dalla furia di un branco di decenni? Lo credi davvero? — E scoppiò a ridere.

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