VI

Lou osservò attentamente Felix, che si limitò a ridacchiare tra sé, senza aggiungere altro. In quel momento, nel chiarore dell’alba si profilarono le strutture del JFK. Felix uscì dalla superstrada, e infilò una via d’accesso all’aeroporto.

— Dove vai? — chiese Lou.

— Dobbiamo farci belli per superare i cancelli dell’aeroporto.

Si infilarono nel posteggio di un centro vendite, aperto tutta la notte. Felix svegliò Zonk, e tutt’e tre si avviarono verso l’ingresso riservato ai clienti. Lou aveva il piede che gli faceva molto male.

Le porte d’accesso erano chiuse, ma su un lato c’era l’apertura di sicurezza. Lou disse forte, al ricevitore, il numero della propria carta di credito e si fece fotografare.

— Questo numero di credito è di Albuquerque nel Nuovo Messico — annunciò l’elaboratore del centro, impassibile. — Ci vorrà qualche minuto per il controllo.

Felix disse: — Aspetteremo.

— Se la polizia mi sta realmente cercando — disse forte Lou, preoccupato, — adesso hanno in mano la mia carta di credito e la fotografia e…

— Spiacente di avervi fatto attendere — disse l’elaboratore, senza ombra di rammarico. — Il controllo è finito. Entrate pure e acquistate quello che volete entro un limite di diecimila dollari.

Felix era raggiante. — Proprio quello che ho sempre cercato: un amico con un buon credito.

I viali e i negozi del centro vendite erano deserti. Felix spedì Zonk in un negozio di abbigliamento maschile, e, tenendo Lou per un braccio, si diresse verso una farmacia.

— Stai zoppicando. Il piede ha bisogno di cure.

— Poco fa, sulla macchina — disse Lou mentre entravano nel locale, — che cosa intendevi dire quando parlavi della mia fortuna?

Felix scoppiò a ridere. — Ah, sì. Be’, sei un uomo fortunato, ma non per quello che immagini tu. Non ti sei mai chiesto perché alla testa dei Gatti Selvaggi c’è un uomo della mia età? Ho più di trent’anni, sai?

— Ma di cosa stai partendo?

— Siediti qui — disse Felix, — mentre vado a cercarti qualcosa per il piede.

Lou si mise a sedere in una sedia di plastica, di fronte a uno scaffale che prendeva tutta la parete, pieno di articoli farmaceutici. Felix passò lentamente in rassegna lo scaffale, trovò quello che cercava in una delle vetrine e premette i pulsanti che spedivano i prodotti nel contenitore apposito. Dopo di che ritornò da Lou, carico di antibiotici e di bendaggi plastici spray.

— Ascolta — disse mentre spruzzava con un disinfettante il piede di Lou incrostato di sangue. — Io sono un insegnante. Lavoro per il Centro Riabilitazione. Cerco di far entrare un po’ di buon senso nelle teste di questi ragazzi. L’unico modo per riuscirci è di unirsi a loro, di guidarli, di cercare di portarli, piano piano, dove si vuole. È più di un anno che sono qui, nella città. Sono riuscito a stabilire collegamenti tra un territorio e l’altro. Mi sforzo di farli pensare a qualcosa che non sia solo sesso e guerra. Ci vorranno altri dieci o dodici anni, prima che si comportino da esseri civili, al livello dell’età della pietra.

— E loro non sanno…

Felix scoppiò a ridere. — Davvero, amico, se lo sapessero a quest’ora avrei già fatto la fine che per poco non hai fatto tu! — Si accigliò. — Alcuni miei colleghi sono stati scoperti. Non è piacevole pensare a che cosa gli è capitato.

— E perché lo fai?

Felix si strinse nelle spalle. — E chi lo sa? Ma non possiamo lasciare quei ragazzi abbandonati a se stessi. Troppe generazioni se ne sono lavate le mani, in passato. E ogni anno è stato sempre peggio, sempre peggio, finché siamo arrivati a questo punto. Qualcuno deve pure dargli una mano. In un certo senso, siamo in debito con loro. Non sono diventati selvaggi da soli. Sono stati spinti. E se qualcuno non interviene e spingerli nella direzione opposta, andranno avanti così, ammazzando e morendo.

Lou disse: — Ci vorranno cento anni prima che ragazzi come quelli si rinciviliscano.

— E noi ci daremo da fare per cento anni — rispose Felix, con veemenza. — C’è voluto più di un secolo perché le metropoli finissero in questo stato. E vale la pena di impiegare un secolo per rimetterle in piedi. Perché, se non interveniamo noi e se lasciamo che quei ragazzi continuino a riprodursi e a degenerare come negli ultimi cento anni, tra non molto traboccheranno dalle città, travolgendo ogni cosa. Le orde mongole ci sembreranno una sciocchezza, in confronto a quello che combineranno questi ragazzi.

Lou rabbrividì.

— E c’è qualcosa di più — continuò Felix. — Questi ragazzi hanno diritto a un po’ di felicità. Non hanno chiesto loro di nascere in questa giungla. Non hanno mai avuto niente di meglio. E non conosceranno mai niente di meglio, a meno che qualcuno di noi tagli i ponti con la nostra società e cerchi di aiutarli. Questi ragazzi rappresentano l’avvenire. Che senso ha tutta la nostra civiltà, così grande e così potente, se perdiamo questi ragazzi? A che servono tutta la tecnologia e la scienza, se nelle viscere delle metropoli alleviamo dei cavernicoli? Se non diamo una mano a questi ragazzi perché il loro avvenire sia migliore, non ci resta molto da sperare, te lo assicuro.

— Dovresti essere membro del Congresso o fare il prete — disse Lou.

Felix scoppiò a ridere.

— E tutte quelle minacce di farmi la pelle!

— Oh, era tutto vero — disse. — Stavo cercando come tirare fuori di là la tua pelle bianca. Ma non riuscivo a trovare il modo. O lasciavo che ti portassero fuori…

— E li avresti lasciati fare?

Un’altra scrollata di spalle. — Non mi veniva in mente niente di utile, finché non ti sei messo a fare la voce grossa. Mi hai dato il pretesto che stavo cercando.

— Allora, grazie.

— Non è il caso di parlarne — rispose Felix, con un sorriso.

Lou, nel giro di mezz’ora, camminava senza quasi più zoppicare. Fece una doccia, si rase e si infilò un completo estivo e un paio di mocassini che prelevò nel settore abbigliamento. Anche Felix e Zonk si erano rimessi a nuovo. Felix aveva scelto un completo importante con mantello e stivali. Zonk, da parte sua, prediligeva i colori elettrici e gli abiti all’ultima moda, attillatissimi.

— Sei quasi presentabile — disse Felix a Lou. — Hai ancora la bocca gonfia e ti sta venendo un livido intorno all’occhio. Comunque, andrà tutto bene.

Felix superò i cancelli dell’aeroporto nel momento preciso in cui il sole spuntava dietro l’orizzonte lontano. Le due guardie di servizio ai cancelli, con gli elmetti bianchi, guardarono incuriositi la vecchia auto scassata, ma la lasciarono passare. I tre affrontarono la grande rampa dell’aerostazione, un tempo imponente, mentre Felix, per evitare le buche, era costretto a guidare con estrema attenzione.

Bloccò davanti al terminal per far scendere Lou, che una volta a terra infilò la testa nel finestrino e posò la mano sulla enorme zampa di Felix.

— Grazie di tutto. E buona fortuna.

— Non c’è di che — disse Felix, sorridendo. — Spero che vada tutto bene. — Si voltò a Zonk, dicendo: — Andiamo laggiù. Voglio vedere che aspetto hanno gli aerei, da vicino.

La macchina si allontanò, sferragliando. Lou si fermò ancora un momento, nella luce crescente dell’alba, a guardarla sparire dall’altro lato della rampa. Poi si voltò ed entrò nel terminal decrepito.

Il primo volo per Albuquerque era alle sette. Un’ora di attesa. Lou, con lo stomaco che protestava per la fame, passò nell’autobar e prese uova in polvere, latte ricostituito e una fetta tagliata a mano di un prodotto che si chiamava protosteak, e che sapeva di plastica.

Nessuno lo fermò né fece caso a lui quando andò nell’atrio di partenza, fece vidimare il biglietto, salì a bordo e prese posto in cabina. L’aereo decollò con dieci minuti di ritardo, mentre Lou, da un momento all’altro, si aspettava di vedere spuntare dall’atrio d’ingresso lo sceriffo federale che veniva a posargli la mano sulla spalla.

Finalmente, l’apparecchio prese quota. Appena Lou sentì l’aereo staccarsi da terra, si addormentò di colpo.

Si svegliò con un sussulto, quando alettoni e carrello furono calati. Adesso dal finestrino si vedeva la distesa verde, familiare delle terre irrigate del Nuovo Messico. In fondo, il Sandia Peak si stagliava contro il cielo, con la sua massa bruna e rocciosa.

Chissà se Bonnie è in casa. Forse non è partita per Charleston. Immediatamente un altro pensiero si affacciò alla mente di Lou: E se mi aspettano quando scendo a terra?

L’aereo atterrò e rollò verso il terminal. Lou s’infilò in mezzo al centinaio di persone che stavano sbarcando e cercò di passare inosservato tra la folla. Si tenne nascosto in mezzo alla gente finché rimase all’interno del terminal, poi puntò dritto verso l’uscita, voltandosi ogni tanto per vedere se qualcuno lo seguiva. Nessuno. Fuori, nel sole accecante, si chiese se la sua macchina era ancora nel parcheggio. Meglio lasciarla dov’è. Fece segno a un tassì, che uscì dal posteggio e accostò al marciapiede.

Una volta dentro, dopo aver chiuso accuratamente lo sportello, Lou disse alla guida automatica: — All’Istituto di Genetica.

Se Bonnie non è stata prelevata dalla polizia, a quest’ora è in laboratorio. E il dottor Kaufman e gli altri mi daranno una mano.

L’auto lasciò la città, fino in mezzo ai campi coltivati, lungo una delle principali reti di irrigazione del paese. Lou, intanto, si chiedeva per la millesima volta perché mai la polizia lo cercava. Lo sceriffo l’aveva dichiarato in arresto. Lo scandinavo del palazzo dell’ONU gli aveva detto che non lo era. Comunque, stavano per portarlo a Messina. Perché? Meglio che vada da Greg all’Istituto a chiedergli se conosce un buon avvocato.

Finalmente, Lou vide apparire i bianchi edifici familiari dell’Istituto. E, quasi nello stesso istante, si rese conto che c’era qualcosa che non andava.

Il posto sembrava deserto. Il parcheggio era vuoto. In giro, non si vedeva nessuno. E non c’era nessuno nel grande atrio a vetri. Quando il tassì arrivò davanti al primo ingresso, il cancello non si aprì automaticamente, come di consueto.

Lou guardò l’orologio. Indicava sempre l’ora di Albuquerque, perché non l’aveva spostata. Erano le nove e mezzo.

Ma perché… un momento! Che giorno è? Domenica o lunedì? Sono partito… sì, oggi dovrebbe essere domenica.

Premette il pulsante del finestrino e subito la vampa del calore esterno penetrò nel tassì. Disse al comando automatico del cancello: — Codice uno cinque, Christopher. Aprite.

Il cancello si aprì. Il tassì scivolò silenziosamente fino alla porta d’ingresso. Per maggior sicurezza, Lou diede nome e carta di credito falsi all’elaboratore del tassì. Essendo sprovvisto di macchina fotografica era nell’impossibilità di controllare l’identità reale del passeggero.

Quando il tassì si fu allontanato, Lou rimase fermo nella luce accecante del sole, battendo le palpebre. Per un secondo, uno spasimo di paura lo trafisse. L’Istituto, pur tenendo conto che era domenica, appariva stranamente deserto. Di solito c’era sempre qualcuno, anche la domenica.

— Bene — disse forte Lou, con voce che voleva essere ferma. — Resterò nascosto qua dentro, finché domani qualcuno non si farà vivo. A meno che chiami Greg o uno del gruppo.

L’ingresso principale era chiuso, ma il nome di Lou e il suo numero di codice erano sufficienti per far aprire le porte. Penetrò nell’oscurità fresca e silenziosa dell’atrio, dove il riverbero esterno veniva filtrato dai vetri polarizzati. Esitò un momento, poi varcò la soglia e si ritrovò nel corridoio principale. Lo scalpiccio dei suoi piedi sul pavimento di plastica e il leggero ronzio del condizionatore d’aria erano i soli rumori del palazzo.

Per prima cosa, devo chiamare Bonnie, pensò, per sapere se va tutto bene.

Il suo ufficio era situato in fondo al corridoio, accanto a Ramo, il grande elaboratore. Lou a un tratto se ne rese conto. Ma non si sente neanche Ramo! L’elaboratore normalmente emetteva una serie di ronzii e ticchettii elettronici e di solito era sempre in funzione, anche durante i fine settimana e di notte.

Lou spiò attraverso la parete trasparente che circondava Ramo. Il calcolatore era muto. Sul quadro di comando tutte le luci erano spente.

— Ramo, sei sveglio? — chiese Lou.

Dal soffitto, scese la voce baritonale di Ramo. — Sì, Lou, io sto bene. Che cosa posso fare per te? — Una sola fila di spie luminose si accese sul quadro.

Lou tirò un sospiro di sollievo. — Eri così silenzioso. Ho creduto per un momento che qualcuno ti avesse fermato.

— Attualmente, tutti i programmi sono stati completati — rispose Ramo.

— Tutti i programmi? Ma i calcoli del modello zigote?

— Quel programma è stato temporaneamente sospeso dal dottor Kaufman.

— Sospeso? E perché?

— Non lo so.

Lou rimase a guardare, incerto, la fila di spie luminose lampeggianti, mentre una sensazione di panico lo afferrava allo stomaco. Riuscì a controllarsi. — Va bene, ecco, chiamami al telefono Bonnie Sterne, ti spiace? A casa sua.

— Devo passare la chiamata nel tuo ufficio? — chiese Ramo.

— No. Sono al bar. C’è qualcuno qua dentro, oggi?

— Nessuno. Tranne, s’intende, il Grande George.

Scuotendo la testa sconcertato, Lou tornò in corridoio e svoltò in una diramazione laterale, verso il bar. Aveva un forte mal di testa e, nonostante il breve sonno sull’aereo, si sentiva stanco morto. E affamato.

Fu sorpreso nel vedere il Grande George seduto al bar, intento a divorare un piatto enorme di macedonia di frutta.

Il Grande George era un gorilla di otto anni, più alto di Lou, anche quando era a quattro zampe. Da diversi mesi non era più stato pesato perché per gioco faceva volare le bilance oltre i muri dei suoi appartamenti speciali. Aveva un muso feroce, con denti lunghi, sopracciglia sporgenti e irsute, muso nero e pelame ancora più nero. Con le braccia, arrivava senza sforzo dall’altra parte della tavola, e senza neppure darsi la pena di alzarsi dalla sedia. Anche la sedia di plastica si piegava pericolosamente sotto il suo peso. A vederlo, era difficile convincersi che il Grande George fosse un animale gentile, addirittura timido.

— Chi ti ha fatto entrare? — chiese Lou, dalla soglia.

— Sono entrato da solo, zio Lou — mormorò George. — Avevo fame. Nessuno mi dava da mangiare. Ho aperto il cancello e sono entrato per mangiare.

Lou andò al selettore e premette i pulsanti per ottenere un pranzo con una bistecca vera. — Da ieri non è venuto nessuno a darti da mangiare?

— Nessuno, zio Lou. — George si cacciò mezzo melone nella bocca irta di denti. Il Grande George era uno dei maggiori successi dell’Istituto. I genetisti erano riusciti a dotare il gorilla di una notevole intelligenza. Il livello intellettuale di George era pari a quello di un bambino di sei anni, e, a quanto sembrava, non sarebbe progredito ulteriormente. Il gruppo di chirurghi che lavorava in collaborazione con l’Istituto aveva modificato l’apparato vocale di George, mettendolo in grado di parlare con un sussurro rauco, faticoso. Era il massimo cui potevano arrivare.

Lou portò il vassoio fumante all’altra estremità del tavolino a cui era seduto George. Era contento di non essere solo, però era meglio lasciare ampio spazio a George. Non che il gorilla fosse pericoloso, ma era alquanto sbrodolone.

Alzando gli occhi al soffitto, Lou disse: — Ehi, Ramo, e quella telefonata?

— Nessuno risponde — disse la voce attutita.

— Ma non è in casa?

— Evidentemente no — disse Ramo.

— Ma che cosa dice il suo telefono?

— Niente. Nessuna risposta. Non dà nessun numero dove rintracciarla, e non dice neanche di lasciare un messaggio.

Lou chinò gli occhi sulla bistecca. Di colpo la fame gli era passata.

— Ramo! — gridò. — Ma dove sono gli altri?

— L’intero gruppo scientifico è stato preso in custodia dagli sceriffi federali — disse Ramo, impassibile. — Gli altri sono stati rimandati a casa.

Prima che la mente di Lou lo percepisse, George bofonchiò: — Qualcuno arriva in corridoio, zio Lou. Estranei.

— Sceriffi federali — disse Ramo. — Sono stato programmato per chiamarli, appena tu fossi tornato in Istituto.

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