XIII

Ci sono, nel corpo umano, più di trecento mila miliardi di cellule. A un ritmo di dieci cellule al secondo, ci vorrebbero oltre un milione di anni per contarle tutte. In ogni cellula ci sono quarantasei cromosomi; visti al microscopio, appaiono lunghi e filiformi, e spesso sono stati descritti come filamenti di perle. Ogni perla è un gene individuale, e in ogni cellula umana ci sono circa quarantamila geni.

Lo zigote, cioè la cellula dell’uovo fecondato che dà luogo all’embrione e, in nove mesi, al bambino, contiene circa quarantamila geni, come qualsiasi cellula umana. Ciascun genitore fornisce metà dei geni. Ogni singolo gene è una complicata fabbrica molecolare formata di acidi deossiribonucleici (DNA), da acidi ribonucleici (RNA) e da proteine. Le caratteristiche fisiche del nascituro sono tutte determinate dai geni. Il colore degli occhi, la struttura dei denti, il metabolismo basale, l’equilibrio chimico, le dimensioni del cervello, la forma del naso, tutto è controllato dai geni dello zigote.

Il lavoro di Lou era, per lui, chiaro e semplice. Si trattava di insegnare a Ramo a esaminare la struttura particolareggiata di ciascun gene di uno zigote e di paragonarlo alla struttura di un gene sano, privo di tare.

Ramo, essendo un elaboratore, sapeva soltanto quello che i suoi collaboratori umani gli comunicavano. In compenso, aveva due qualità che gli uomini non possedevano. In primo luogo, disponeva di una memoria assolutamente perfetta. Quando la mappa di un gene sano veniva archiviata nei microscopici circuiti magnetici della sua memoria, Ramo non soltanto non la dimenticava più, ma neanche la deformava né la alterava, e nessuno stato emotivo gli impediva di vedere il dato esattamente come gli era stato comunicato. In secondo luogo, Ramo era in grado di lavorare alla velocità della luce, e non con il ritmo esasperatamente lento del sistema nervoso umano. Per controllare decine di geni e individuare le imperfezioni della loro struttura molecolare, Ramo impiegava esattamente lo stesso tempo che ci metteva Lou a contare fino a dieci.

Lou si considerava volentieri un maestro. Aveva il compito di insegnare a un allievo estremamente abile come Ramo a svolgere un lavoro molto complesso. Un lavoro che nessun uomo era in grado di fare, perché richiedeva troppo tempo e perché la memoria umana non era sufficiente. Poco prima della chiusura dell’istituto, Lou aveva insegnato a Ramo tutti i modelli delle strutture di un gene perfettamente sano. Ramo ormai sapeva che aspetto avevano, a livello molecolare, i geni sani. Adesso era venuto il momento di insegnargli a mettere a confronto una serie di geni reali con le strutture sane già note, a individuare all’interno dei geni reali le eventuali anomalie e a riprodurre sullo schermo tali imperfezioni. Una volta finita questa parte, Lou avrebbe insegnato a Ramo i sistemi biochimici per sterilizzare i geni difettosi.

E a questo punto, il compito immane era finito. Sarebbe stato possibile, allora, cominciare il lavoro d’ingegneria genetica.

Lou, comunque, mentre se ne stava seduto dietro al quadro di controllo dell’elaboratore, si sentiva tutt’altro che soddisfatto. Il quadro di controllo era costituito da una serie innumerevole di schermi e di quadranti che formavano un semicerchio attorno alla sua poltrona. Aveva a portata di mano i vari pulsanti che si collegavano coi diversi selettori dell’immenso cervello elettronico di Ramo.

Lou si lasciò cadere nella poltrona, scuro in faccia. Dal suo posto, vedeva la sua immagine riflessa in uno dei quadri spenti, e l’aspetto rivelava esattamente l’umore. Secondo l’orologio, era metà mattina, ma era difficile rendersene conto, stando chiusi nel locale dell’elaboratore. Non c’erano finestre. L’edificio aveva l’aria condizionata ed era isolato acusticamente. Il tempo, del resto, aveva ben poco significato per l’elaboratore.

Erano passate due settimane da quando Lou era arrivato sull’isola. Due settimane, e Bonnie era sempre fredda e distante come il primo giorno. Lavorava per Lou e faceva bene il suo lavoro. Quasi tutti i giorni pranzava con lui e qualche volta andava anche a cena nel piccolo locale superaffollato che Marcus aveva aperto vicino al laboratorio. Gli aveva persino aggiustato uno strappo nella tasca dei pantaloni. Però si comportava più come un’impiegata solerte, che come un’amica.

Non avrei mai dovuto farla venire qui; si diceva Lou quel mattino per la milionesima volta. Non me lo perdonerà mai.

Il telefono ronzò. Premette un pulsante e sul video comparve la faccia rosea e melliflua di Marcus.

— Desiderate parlarmi? — chiese.

Lou annuì. — I biochimici mi hanno chiesto di aiutarli a programmare Ramo per il loro lavoro. Non mi importa di collaborare, ma ci vorrà del tempo e, se non sbaglio, mi avevate detto di mandare avanti la mappa genetica il più in fretta possibile.

— I biochimici? — Marcus aggrottò la fronte, preoccupato. — Ma perché hanno bisogno di una programmazione speciale?

— Stanno lavorando a un prodotto che modifica la composizione chimica dei cromosomi o qualcosa del genere…

Marcus sembrò imbarazzato, ma ritrovò subito l’autocontrollo. — No, avete ragione voi. Non dovete lasciarvi distrarre dal vostro lavoro. Se ne occuperà qualche altro programmatore.

— Va bene — disse Lou. — Comunque, sarei contento di aiutarli, se ne avessero bisogno.

— No — scattò Marcus. — Cioè, volevo dire che non devono interferire nel vostro lavoro, assolutamente. Me ne occuperò io. Se tornano a cercarvi, dite che si rivolgano a me.

— Va bene. Grazie.

Marcus annuì e tolse il contatto. Il quadro si oscurò e Lou rivide riflessa la propria immagine accigliata.

Lavorò per il resto della mattinata al quadro comandi, poi, verso mezzogiorno, telefonò a Bonnie. La ragazza lavorava insieme a tre tecniche cinesi nell’altra ala dell’edificio.

— Temo di non poter venire a pranzo con te, Lou — disse lei, senza sorridere. — Le ragazze e io prendiamo qualcosa qui in ufficio. Abbiamo montagne di lavoro da sbrigare.

Lou spense lo schermo, e stavolta non si guardò nel riquadro nero.

Erano le sei passate quando il telefono tornò a ronzare. La chiamata strappò Lou alla concentrazione totale richiesta dal lavoro di insegnare la genetica a Ramo. Si rese conto bruscamente di essere stanco morto: aveva la schiena indolenzita, gli occhi che gli bruciavano e un forte mal di testa. Però sul grande schermo dell’elaboratore, Ramo stava riproducendo una mappa particolareggiata della struttura molecolare di un singolo gene. Una parte della mappa, e cioè l’area del gene che presentava anomalie, era indicata in rosso.

Lou compose il messaggio BUON LAVORO, RAMO. PERFETTO. Mormorò le parole tra sé, mentre il telefono continuava a suonare.

GRAZIE, rispose Ramo sul quadro.

Lou premette il pulsante del telefono; le parole di Ramo sparirono dallo schermo e al loro posto si delineò la faccia magra e angolosa di Kori. Lo scienziato sorrideva, mettendo in mostra i grandi denti bianchi e radi che a Lou fecero venire in mente un cimitero.

— Verresti a cena con me? — chiese Kori. — Ho un sacco di cose da dirti e da farti vedere.

— Veramente, non lo so — disse Lou. — Sono molto stanco…

— Ah. — Il sorriso, per un istante, sparì dalla faccia di Kori. — Forse Bonnie potrebbe… se a te non spiace. Devo fare vedere queste cose a qualcuno!

— Bonnie! — Lou trasalì. — Senti, Anton, do un colpo di telefono a Bonnie e ci vediamo tutti e due da te. Ti va?

Kori mosse la testa avanti e indietro. — Magnifico. Venite nel mio laboratorio. Vicino all’officina riparazioni. Bonnie sa dov’è.

Non ho il diritto di prendermela con lei, si disse Lou mentre faceva rabbiosamente il numero di Bonnie. La ragazza non era in camera sua. Guardando l’orologio, Lou chiamò in ufficio.

La faccia di lei riempì il quadro, e la collera di Lou sbollì.

— Oh, ciao, Lou. Stavo andandomene a cena.

Con voce perfettamente calma, lui disse: — Ha chiamato Kori in questo momento. È tutto eccitato per non so bene che cosa, e vuole che andiamo a cena con lui. Puoi venire?

— Certo — rispose la ragazza senza la minima esitazione. Lou le chiese: — Saresti stata altrettanto libera, se ti avessi chiesto di venire a cena con me? Da sola?

Per un istante negli occhi verdi comparve uno sguardo smarrito. — Che cosa intendi dire, Lou?

— Hai visto spesso Kori, è così?

— Lou, sono una cittadina che paga le tasse… o per lo meno lo ero fino a quando mi hanno sequestrata.

— Dunque ti dispiace che io ti abbia fatto venire qui!

— Certo che mi dispiace! — scattò lei, in risposta. — Non ti dispiaceva quando ti hanno portato via? Sei contento di essere in esilio? Ti sembra che quest’isola sia migliore del satellite, o dove diavolo hanno spedito gli altri membri dell’Istituto?

Lou mormorò: — Non hai voglia di stare con me, vero?

— Non dire sciocchezze — disse lei, sorridendo per la prima volta. — Lou… qualsiasi cosa ci sia stata tra noi prima, all’Istituto, qui non può essere lo stesso. Semplicemente non è possibile.

— La metti così, allora?

Adesso lei sembrava triste e sola. — Sì, la metto così, Lou.

— Già. — Tirò un sospiro profondo. — Be’, che ne dici della cena? Ho detto a Kori che ci saremmo trovati entrambi…

— Molto bene — disse lei piano. — Purché si vada d’accordo, tra noi.

Lou annuì e assunse un’espressione amara. — Capisco.

Uscì dall’ufficio e fece il giro della palazzina dell’elaboratore per andare a prendere Bonnie. Attraversarono il complesso del laboratorio in silenzio. Tra gli alberi filtrava un tramonto incredibile, rosa zafferano e viola pallido. Attraverso le macchie verdi, ai limiti del mare color rosso, il sole era enorme mentre toccava la linea dell’orizzonte.

Se Bonnie e Lou non avevano molte cose da dirsi, Kori, in compenso, ne aveva moltissime. Appena i due oltrepassarono la soglia del suo laboratorio, attaccò a parlare.

— È fantastico, non ci crederete mai, è come al cinema.

Si agitò su e giù per il grande locale, trascinando una tavola carica di complicate apparecchiature elettroniche vicino alla porta.

— Lou, ti spiace accendere il laser?

Kori indicò la parete al di sopra del banco di lavoro. — No, non quello, l’altro a sinistra. Ecco, sì.

Lou girò la manopola. Nella stanza non comparve niente di simile a un laser, però da un dato punto arrivò un ronzio di corrente elettrica.

— Aspettate di vedere… Bonnie, per favore, le luci. Dietro di te.

Con un leggero sorriso divertito, Bonnie spense le luci. Nella sala oscurata, la faccia ossuta di Kori era vagamente illuminata dal riflesso degli apparecchi sul suo tavolo.

— Adesso aspettate un momento che usi questa vecchia diapositiva per mettere a fuoco — mormorò.

Lou trovò una sedia e la spinse verso Bonnie. Lei si sedette e lui rimase in piedi vicino a lei, di fronte al quadro appena luminescente in fondo alla stanza. Sullo schermo apparve un’immagine, una specie di grafico, con innumerevoli curve colorate che danzavano sul quadro.

— Metto a fuoco — borbottò Kori. Il grafico divenne improvvisamente tridimensionale. Le curve adesso sembravano danzare in mezzo alla stanza. Lou aveva l’impressione di potervi girare attorno per guardarle dall’altra parte.

— Bene — disse Kori, talmente eccitato che il suo inglese prendeva un accento decisamente slavo. — Adesso vedremo quello che nessun altro ha ancora mai visto, tranne me.

La stanza, per un secondo, piombò nell’oscurità, poi si riempì di stelle. Lou sentì l’ansito di Bonnie. Sembrava di trovarsi nello spazio, tra uno sciame di astri a perdita d’occhio: bianchi, gialli, arancioni, rossi, azzurri: immobili punti di fuoco nelle nere profondità dello spazio. In lontananza, il velo nebuloso della Via Lattea brillava fiocamente.

— Ripresa grandangolare, da tergo — spiegò Kori, molto tecnico. — La stella gialla luminosa al centro è il Sole.

— Sono le riprese dello Starfarer? — chiese Lou, e immediatamente si sentì uno sciocco, tanto la domanda era ovvia.

Si accorse che Kori annuiva, nel buio. — La nave ha impiegato più di trent’anni per arrivare in prossimità di Alpha Centauri. E ci sono voluti oltre quattro anni perché il raggio laser riportasse l’informazione sulla Terra.

Un’altra pausa di buio, seguita da un’altra visione di stelle.

— Grandangolare, di fronte — disse Kori.

Al centro del campo c’era anche stavolta una stella luminosa, gialla. Kori fece passare alcuni fotogrammi. La stella gialla si faceva sempre più luminosa, più vicina. In breve, Lou si accorse che si trattava di due stelle.

— Alpha Centauri — disse Kori, con un sussurro reverente come se a parlare più forte corresse il rischio di rovinare gli ologrammi. — Rispetto ai due fratelli maggiori, Proxima è talmente lontana e fioca che non sono ancora riuscito a localizzarla. È una delle stelle dello sfondo. Ma qui ci vorrebbe un astronomo!

Lou provava lo stesso timore reverenziale di Kori. — Alpha Centauri — ripeté.

— Avevi ragione, Anton — disse Bonnie. — È veramente fantastico… è magnifico.

— Aspettate — disse Kori. — Non avete ancora visto il meglio.

Fece passare un’altra decina di ologrammi. La stella doppia s’ingrandì. Lou notò che una delle stelle era più piccola e più rossa del grosso sole giallo. — Che cosa sono le due macchie vicino alla stella gialla? — chiese.

Kori ridacchiò, tutto eccitato. — Macchie? Macchie dici? Ma quelli sono pianeti. Due pianeti che girano attorno ad Alpha Centauri!

Lou non trovava parole. Si limitava a guardare lo schermo, dove Kori faceva passare altri ologrammi dei due mondi sempre più ravvicinati. Nell’ultimo si vedeva soltanto il secondo pianeta. Aveva l’aspetto di una grossa palla rotonda, di un verde giallastro, striato di nuvole bianche.

— Non ho avuto la possibilità di analizzare i dati spettroscopici — disse Kori, — ma quelle nuvole, a mio parere, sono di vapore acqueo. È un pianeta più grosso della Terra e probabilmente con una gravita maggiore. Però, se c’è l’acqua, forse c’è anche la vita!

Era molto tardi quando Bonnie e Lou tornarono, insieme a Kori, nei loro alloggi. Non avevano mangiato niente. Nel loro entusiasmo davanti alle immagini delle stelle, se ne erano totalmente dimenticati.

Kori si fermò in mezzo alla strada, in un punto libero dagli alberi, e rovesciò la testa all’indietro.

— Guardate! — gridò. — Milioni e miliardi di stelle. E milioni e miliardi di pianeti. Alcuni forse sono identici alla Terra, e aspettano solo che li raggiungiamo. E adesso noi siamo in grado di farlo! Siamo in condizioni di arrivare fin lassù e lo faremo! — Scoppiò a ridere forte e poi, alzando le lunghe braccia verso il cielo, emise un lungo fischio.

— Piano, calma… si direbbe che sei ubriaco — disse Lou.

— Ma sono ubriaco — rispose Kori, felice. — Sono ubriaco di felicità, di conoscenza, di potere. Siamo in grado di raggiungere altri mondi. È un’idea sufficiente per dare alla testa a chiunque.

Lou scosse la testa nell’oscurità. — Forse abbiamo davvero bisogno di altri mondi. Questo, l’abbiamo già abbastanza insozzato.

Kori rise. Non era disposto a fare discorsi seri, quel giorno.

— Aspetta che la gente veda queste immagini. Aspetta che si renda conto del loro significato — disse.

— Credevo che il governo non intendesse lasciare trapelare queste notizie — disse Bonnie.

Lou rispose: — Marcus e il ministro Bernard mostreranno in un modo o nell’altro queste immagini ai giornalisti.

La voce di lei era tranquilla ma ferma. — Tu credi? Pensi davvero che intendano mettere il mondo al corrente di questa scoperta? O dell’ingegneria genetica, quando sapremo farla funzionare?

Lou si fermò e la guardò. Nel buio, era impossibile vedere l’espressione della faccia di lei.

— Ma che cosa stai dicendo? — chiese.

Bonnie, per un momento, non rispose. Poi: — Non ne sono sicura… potrei sbagliarmi. Non c’è niente di definito, però ho avuto… sì, l’impressione, di una specie di…

— Va’ avanti.

— Ecco… perché vogliono che Anton si occupi di esplosivi nucleari? Che garanzie abbiamo che il nostro lavoro sarà reso pubblico? Perché i biochimici lavorano ai soppressori corticali?

— Soppressori?

— Proprio così. L’ho scoperto oggi pomeriggio — disse Bonnie. — Ed è per questo che hanno bisogno dell’elaboratore: per selezionare il soppressore chimico migliore per degradare l’attività corticale, in via permanente.

— Ma in questo modo si distrugge l’intelligenza di una persona — disse Lou.

— Lo so — rispose Bonnie. — E secondo me, pensano di usare il Grande George come cavia.

Lou si sentì rimescolare tutto. — No, non lo faranno. Se quello che dici è vero, allora…

— Allora siamo stati indotti con l’inganno a collaborare con un gruppo di persone che si propone di rovesciare il governo e di trasformare metà della popolazione in altrettanti idioti irresponsabili — disse Bonnie.

Seguì un silenzio lunghissimo, interrotto solo dal brusio degli insetti notturni tra gli alberi e i cespugli e dal sospiro lontano del mare. Alla fine, nel buio risuonò la voce triste di Kori: — Ecco, adesso, non mi sento più ubriaco.

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