57 L’ombra della guerra

Saphira svegliò Eragon con un brusco colpo di muso, graffiandogli la guancia con le ruvide squame. «Ahi!» esclamò il giovane, alzandosi a sedere. La caverna era immersa nell’oscurità, rischiarata appena dal tenue bagliore di una lanterna schermata. Fuori dalla rocca. Isidar Mithrim sfavillava di mille colori nella sua ghirlanda di lanterne.

All’ingresso della caverna c’era un nano molto agitato che si torceva le mani. «Devi venire. Argetlam! Grossi guai... Ajihad ti chiama. Non c’è tempo!»

«Che succede?» chiese Eragon.

Il nano si limitò a scuotere il capo, la lunga barba ondeggiante. «Vieni.. subito! Carkna bragha! Ora!»

Eragon allacciò Zar’roc alla cintola, afferrò arco e frecce e sellò Saphira. Addio nottata di sonno, brontolò lei, accucciandosi per far salire Eragon in groppa. Lui sbadigliò sonoramente mentre Saphira si lanciava fuori dalla grotta.

Orik li stava aspettando con espressione cupa quando atterrarono davanti ai cancelli di Tronjheim.

«Vieni, ci sono anche gli altri.» Li guidò attraverso Tronjheim fino allo studio di Ajihad. Lungo il tragitto, Eragon lo tempestò di domande, ma Orik rispose soltanto: «Nemmeno io so niente... aspetta di sentire Ajihad.»

La porta della biblioteca fu aperta da due guardie robuste. Ajihad era in piedi dietro la scrivania, intento a studiare una mappa. C’erano anche Arya e un uomo dalle braceia nerborute. Ajihad alzò lo sguardo. «Bene, eccoti qui, Eragon. Ti presento Jòrmundur, il mio vicecomandante.»

I due si salutarono, poi rivolsero l’attenzione ad Ajihad. «Vi ho svegliati perché. siamo tutti in grave pericolo. Mezz’ora fa un nano è sbucato da uno dei tunnel abbandonati sotto Tronjheim. Era ferito e sanguinante, gridava frasi sconnesse, ma è riuscito a riferire che un esercito di Urgali si trova a un giorno di marcia da qui.»

Un silenzio sconcertato riempì la stanza. Poi Jòrmundur esplose in una serie di imprecazioni e cominciò a fare domande insieme a Orik. Arya non parlò. Ajihad alzò una mano. «Silenzio! C’è dell’altro. Gli Urgali non si stanno avvicinando sulla terra, ma sottoterra. Sono nei tunnel… stiamo per essere attaccati dal basso.»

Eragon alzò la voce. «Perché i nani non l’hanno scoperto prima? Come hanno fatto gli Urgali a trovare i tunnel?»

«Riteniamoci fortunati di averlo scoperto ora!» urlò Orik. Tutti tacquero per ascoltarlo. «Ci sono centinaia di tunnel che attraversano i Monti Beor, disabitati fin dal giorno in cui vennero scavati. Gli unici nani che li frequentano sono degli stravaganti che non vogliono contatti con gli altri. Potremmo addirittura non essere mai stati avvertiti.»

Ajihad indicò la mappa, ed Eragon si avvicinò. Illustrava la metà meridionale di Alagasëia, ma a differenza di quella di Eragon, mostrava l’intera catena dei Monti Beor nel dettaglio. Il dito di Ajihad indicò la sezione dei Beor confinante con il margine orientale del Surda. «Qui» disse «è il punto da cui il nano dichiara di venire.»

«Orthiad!» esclamò Orile. Davanti all’espressione interrogativa di Jòrmundur, spiegò: «È un antico insediamento di nani che fu abbandonato quando Tronjheim fu completata. Ai suoi tempi era la maggiore delle nostre città. Ma nessuno ci vive più da secoli.»

«Ed è tanto vecchia che alcuni dei tunnel sono crollati» aggiunse Ajihad. «Ecco come supponiamo che l’abbiano scoperta dalla superficie. Sospetto che Orthìad adesso venga chiamata Ithro Zhàda. È lì che la colonna di Urgali che inseguiva Eragon e Saphira doveva andare, e sono sicuro che è il luogo verso il quale gli Urgali sono migrati per tutto l’anno. Da Ithrò Zhàda possono raggiungere qualsiasi punto dei Monti Beor. Hanno il potere di distruggere sia i Varden che i nani.»

Jòrmundur si chinò sulla mappa, studiandola con attenzione. «Sai quanti Urgali ci sono? E se sono accompagnati dalle truppe di Galbatorix? Non possiamo organizzare la difesa se non sappiamo quanto è grande l’armata.»

Ajihad rispose con aria afflitta. «Non abbiamo notizie certe, ma la nostra sopravvivenza dipende dalla seconda domanda. Se Galbatorix ha ingrossato le fila degli Urgali con i propri soldati, allora non abbiamo scampo. Ma se non l’ha fatto, forse perché non vuole ancora scoprire le carte della sua alleanza con quei mostri, o per qualche altra ragione, allora abbiamo una possibilità. Né Orrin né gli elfi possono aiutarci con così poco preavviso. Comunque sia, ho inviato a entrambi dei messaggeri con la notizia della nostra sventura. Almeno non verranno colti di sorpresa se soccombiamo.»

Si passò una mano sulla fronte scura. «Ho già parlato con Rothgar, e abbiamo deciso una strategia. La nostra unica speranza consiste nell’arginare gli Urgali in tre dei tunnel più grandi e incanalarli nel Farthen Dùr perché non possano sciamare a Tronjheim come locuste.

«Ho bisogno di voi, Eragon e Arya, per aiutare i nani a far crollare gli altri tunnel. Il lavoro è troppo grande per mezzi normali. Due gruppi di nani sono già all’opera: uno fuori Tronjheim, e l’altro sotto. Eragon, tu andrai con il gruppo all’esterno. Arya, tu con quello sottoterra; Orik vi guiderà.»

«Perché non facciamo crollare tutti i tunnel, invece di lasciare integri i più grandi?» domandò Eragon.

«Perché» disse Orik «questo costringerebbe gli Urgali ad aggirare le macerie, e magari a prendere una direzione che non vogliamo, E poi se ci isoliamo da soli potrebbero attaccare altre città di nani, che non saremmo in grado di aiutare in tempo.»

«C’è un’altra ragione» intervenne Ajihad. «Rothgar mi ha detto che Tronjheim posa su di un labirinto di gallerie così intricato che se venisse troppo indebolito intere zone della città potrebbero sprofondare. Non possiamo rischiare un disastro del genere.»

Jòrmundur ascoltò attentamente, poi chiese: «Non ci sarà dunque nessun combattimento dentro Tronjheim? Hai detto che gli Urgali verranno incanalati all’esterno della città, nel Farthen Dùr.»

Ajihad si affrettò a rispondere: «Proprio così. Non possiamo difendere l’intero perimetro di Tronjheim, è troppo vasto per le nostre forze, così procederemo a sigillare tutti i passaggi e i cancelli che conducono alla città. Questo costringerà gli Urgali a uscire allo scoperto sulla piana che circonda Tronjheim, dove ci sarà spazio più che sufficiente per le manovre delle nostre truppe. Dato che gli Urgali hanno accesso ai tunnel, non possiamo rischiare una battaglia su vasta scala. Finché restano qui, saremo in costante pericolo che si facciano strada dal sottosuolo di Tronjheim. Se questo accade, saremo in trappola, attaccati sia dall’esterno che dall’interno. Dobbiamo impedire agli Urgali di prendere Tronjheim. Se ci riescono, dubito che avremo la forza di ricacciarli indietro.»

«E le nostre famiglie?» chiese Jòrmundur. «Non voglio vedere mia moglie e mio figlio uccisi dagli Urgali.»

Le rughe sul volto di Ajihad si fecero più profonde. «Stiamo facendo fuggire tutte le donne e i bambini verso le valli attorno. Se veniamo sconfitti, le guide li scorteranno nel Surda. È il massimo che ho potuto fare, date le circostanze.»

Jormundur celò a stento il proprio sollievo.. «Signore, anche Nasuada partirà?»

«Lei non vorrebbe, ma certo, sì, partirà.» Tutti gli occhi erano puntati su Ajihad mentre drizzava le spalle e annunciava: «Gli Urgali arriveranno fra poche ore. Sappiamo che sono molti, ma dobbiamo difendere il Farthen Dùr. Il fallimento significherebbe la caduta dei nani, la morte dei Varden... e alla fine anche la sconfitta del Surda e degli elfi. Questa è una battaglia che non possiamo perdere. Ora andate ed eseguite gli ordini! Jormundur, raduna gli uomini!»

Uscirono in fretta dallo studio e si separarono: Jormundur corse alle caserme. Orik e Arya scesero le scale che conducevano nel sottosuolo, Eragon e Saphira s’infilarono in uno dei quattro principali corridoi di Tronjheim. Malgrado l’ora, la città-montagna era in fermento come un formicaio: gente che correva ovunque, scambiandosi messaggi e portando fagotti in cui aveva raccolto i propri averi. Eragon aveva già combattuto e ucciso prima, ma l’angoscia per la battaglia imminente gli stringeva il cuore in una morsa di paura. Non aveva mai avuto l’occasione di prepararsi a uno scontro, e ora che poteva, si sentiva sopraffatto dal terrore. Non aveva paura quando doveva affrontare pochi nemici - sapeva di poter facilmente sconfiggere tre o quattro Urgali grazie a Zar’roc e alla magia—ma in un conflitto più esteso tutto poteva accadere.

Uscirono da Tronjheim e cercarono i nani che avrebbero dovuto aiutare. Senza il sole o la luna, l’interno del Farthen Dùr era buio come nerofumo, illuminato da scintillanti lanterne che danzavano nel cratere. Forse sono sul lato opposto di Tronjheim, suggerì Saphira. Eragon assentì e le salì in groppa.

Volarono intorno a Tronjheim finché videro un gruppo di lanterne. Saphira si abbassò verso di loro, e con un lieve fruscio d’ali atterrò accanto a un gruppo di nani sbigottiti, impegnati a scavare con i picconi. Eragon spiegò in fretta il motivo della sua presenza. Un nano dal naso adunco gli disse:

«C’è un tunnel a quattro iarde sotto di noi. Qualunque aiuto possiate darci, sarà gradito.»

«Se sgomberate l’area sopra il tunnel, vedrò che cosa posso fare» disse Eragon. Il nano nasuto lo guardò dubbioso, ma ordinò, agli altri di allontanarsi.

Eragon respirò a fondo, preparandosi a usare la magia.

Avrebbe potuto spostare tutto il terreno dal tunnel, ma aveva bisogno di conservare energie per dopo. Allora decise di tentare di far crollare il tunnel applicando la forza sulle zone deboli del soffitto.

«Thrysta deloi» mormorò, inviando tentacoli di potere nel sottosuolo. Quasi subito incontrarono uno strato di roccia. Lo ignorò e scese più giù, finché non percepì il vuoto della galleria. Allora cominciò a cercare i punti deboli nella volta. Ogni volta che ne trovava uno, lo spingeva, lo allungava, lo allargava. Era un lavoro faticoso, ma non più di quanto lo sarebbe stato scavare a mani nude. Non faceva progressi visibili, e i nani erano sempre più impazienti.

Eragon perseverò. Poco dopo fu ricompensato da uno schianto sonoro che riverberò fino in superficie. Si udì un crepitio persistente, poi il terreno franò verso l’interno come acqua risucchiata da un canale, lasciando una fenditura larga sette iarde.

Mentre i nani ostruivano il tunnel con i detriti, il nano nasuto accompagnò Eragon alla galleria seguente. Fu più difficile, ma Eragon riuscì a replicare l’impresa. Nelle ore che seguirono, fece crollare almeno mezza dozzina di tunnel in tutto il Farthen Dùr, con l’aiuto di Saphira.

La luce cominciò a filtrare dal piccolo squarcio di cielo sopra di loro. Non bastava per vedere, ma contribuì a risollevare lo spirito di Eragon. Il ragazzo volse le spalle alle rovine crollate dell’ultima galleria e si guardò intorno.

Un massiccio esodo di donne e bambini, insieme ai Varden più anziani, si riversava fuori Tronjheim. Tutti portavano provviste, indumenti e le loro cose più care. Li scortava un drappello di soldati, perlopiù ragazzi e anziani.

La maggior parte dell’attività, tuttavia, si svolgeva alla base di Tronjheim, dove i Varden e i nani stavano radunando l’esercito, diviso in tre battaglioni. Ogni divisione recava il vessillo dei Varden: un drago bianco con una rosa fra gli artigli, sopra una spada puntata verso il basso, in campo viola. Gli uomini erano silenziosi e accigliati. Le lunghe chiome spuntavano da sotto gli elmi. Molti guerrieri avevano soltanto una spada e uno scudo, ma c’erano parecchie file di lancieri e picchieri. Nella retroguardia, gli arcieri saggiavano le corde dei propri archi.

I nani erano schierati in assetto di guerra. Cotte d’armi d’acciaio brunito li coprivano fino alle ginocchia, e al braccio sinistro portavano grossi scudi rotondi con gli emblemi dei loro clan. Corte spade pendevano loro dalla cintura, mentre nella mano destra impugnavano asce da guerra o picconi. Le gambe erano coperte da gambali di maglia fitta. Indossavano elmetti di ferro e stivali borchiati di ottone.

Una piccola figura si staccò dal battaglione più lontano e corse verso Eragon e Saphira. Era Orik, armato come gli altri nani. «Ajihad vuole che ti unisca all’esercito» disse. «Non ci sono più tunnel da far crollare. C’è cibo per entrambi.»

Eragon e Saphira seguirono Orik in una tenda, dove trovarono pane e acqua per Eragon e un mucchio di carne secca per la dragonessa. Mangiarono senza lamentarsi; era sempre meglio che patire i morsi della faine.

Quando ebbero finito. Orik disse loro di aspettare e scomparve tra le fila del suo battaglione. Tornò poco dopo con un gruppo di nani carichi di placche metalliche di varia foggia. Orik ne sollevò un pezzo e lo porse a Eragon.

«Che cos’è?» domandò Eragon, accarezzando il metallo lucido, ricco di preziose incisioni e filigrana d’oro. In alcuni punti era spesso più di un pollice e molto pesante. Nessun uomo poteva combattere con quel peso, e comunque erano troppi pezzi, per un’armatura sola.

«Un regalo da parte di Rothgar» disse Orik, compiaciuto. «Giace fra i nostri tesori da tanto di quel tempo che ce n’eravamo quasi dimenticati. È stato forgiato in un’altra epoca, prima della caduta dei Cavalieri.»

«Sì, ma a cosa serve?» chiese Eragon.

«È un’armatura per draghi, diamine! Non crederai che i draghi combattano senza protezione! Le armature complete sono piuttosto rare perché ci vuole troppo tempo per farle e perché i draghi non le gradiscono molto. A ogni modo, Saphira non è ancora troppo grande: questa dovrebbe andarle bene.»

Un’armatura per draghi! Mentre Saphira annusava uno dei pezzi, Eragon le chiese: Che cosa ne pensi?

Proviamo, disse lei, con uno scintillio feroce negli occhi.

Dopo un’immane fatica, Eragon e Orik fecero qualche passo indietro per ammirare il risultato. Il lungo collo di Saphira, tranne le punte che sporgevano dal dorso, era rivestito di placche triangolari sovrapposte. Il ventre e il torace erano protetti dalle placche più robuste, mentre le più leggere le coprivano la coda. Le zampe e la schiena erano completamente rivestite. Soltanto le ali erano scoperte. Una singola placca modellata le foderava la testa, laasciandole libera la mascella inferiore per mordere e dilaniare.

Saphira provò a inarcare il collo, e l’armatura si flesse insieme a lei con tutta naturalezza. Mi rallenterà un poco, ma servirà a fermare le frecce. Come sono?

Terrificante, rispose Eragon, sincero, Saphira emise un mormorio di compiacimento.

Orik raccolse il resto della ferraglia da terra. «Ho portato un’armatura anche per te; ce n’è voluto, per trovarne una della tua taglia. Forgiamo di rado armature per umani o elfi. Non so per chi sia stata fatta questa, ma non è mai stata usata e credo che ti servirà.»

Eragon s’infilò una lunga cotta di maglia e cuoio che gli arrivava fino alle ginocchia. Gli pesava sulle spalle e tintinnava a ogni gesto. Allacciò Zar’roc sopra l’armatura, cosa che impediva alla maglia di spostarsi. In testa provò prima una calotta di pelle, poi un cappuccio di maglia; la sua scelta cadde infine su un elmo d’oro e d’argento. Bracciali e schinieri completavano la protezione, insieme a un paio di guanti di maglia. Orik gli porse un grande scudo con l’emblema di una quercia. Sapendo che quello che lui e Saphira avevano ricevuto valeva moltissimo. Eragon s’inchinò e disse;

«Ringrazio te e Rothgar per questi doni, che sono stati molto apprezzati.»

«Non aver fretta di ringraziare» disse Orik ammiccando. «Aspetta di vedere se l’armatura ti salverà la vita.»

I guerrieri intorno cominciarono a marciare, e i tre battaglioni si disposero in diverse zone del Farthen Dùr. Non sapendo bene che cosa fare, Eragon guardò Orik, che rispose con una scrollata di spalle e disse; «Suppongo che dobbiamo seguirli.» Si accodarono a un battaglione diretto verso una parete del cratere, Eragon chiese notizie degli Urgali, ma Orik sapeva soltanto che nelle ultime galleriedel sottosuolo erano stati appostati degli esploratori, che ancora non avevano dato notizie. Il battaglione si fermò davanti a uno dei tunnel crollati. I nani avevano ammassato i detriti perché nessuno potesse arrampicarsi facilmente dal basso. Questo dev’essere uno dei punti dove dovremo costringere gli Urgali a emergere, osservò Saphira.

Centinaia di lanterne erano state appese a pali infissi nel terreno, ed emanavano una luce simile a quella del sole nel tardo pomeriggio. Una fila di fuochi ardeva lungo i bordi del soffitto crollato del tunnel; sopra le fiamme ribollivano grossi pentoloni di pece. Eragon distolse lo sguardo con un moto di repulsione. Era un modo terribile di uccidere qualcuno, perfino un Urgali.

Lunghi pali appuntiti vennero conficcati in fila nel terreno per fare da barriera fra il battaglione e il tunnel, Eragon vide l’occasione di dare una mano e si unì a un gruppo di uomini che scavavano trincee fra i pali. Anche Saphira li aiutò, spostando mucchi enormi di terra con le zampe. Mentre lavoravano. Orik si allontanò per andare a controllare la costruzione di una barricata a protezione degli arcieri, Eragon bevve riconoscente da un otre d’acqua che veniva passato di mano in mano. Dopo aver terminato le trincee e averle riempite di pali aguzzi, Saphira ed Eragon si riposarono. Orik tornò e li trovò seduti vicini. Si asciugò la fronte. «Tutti gli uomini e i nani sono sul campo di battaglia. Tronjheim è stata sigillata. Rothgar comanda il battaglione alla nostra sinistra. Ajihad quello davanti a noi.»

«E il nostro?»

«Jòrmundur.» Orik si sedette con un gemito e posò a terra l’ascia,

Saphira richiamò l’attenzione di Eragon con un colpetto del muso. Guarda. Il giovane strinse d’istinto la spada quando vide Murtagh avvicinarsi con Tornac. Portava un elmo, uno scudo dei nani e il suo spadone.

Orik imprecò e balzò in piedi, ma Murtagh si affrettò a spiegare: «Calma, è tutto a posto. Ajihad mi ha liberato.»

«E perché lo avrebbe fatto?» chiese Orik.

Murtagh sorrise amaro. «Ha detto che questa è l’occasione per dimostrare le mie buone intenzioni. Evidentemente non crede che io rappresenti un grosso problema anche se disertassi.»

Eragon annuì per dargli il benvenuto, allentando la stretta su Zar’roc. Murtagh era un combattente straordinario e spietato, proprio il genere di compagno che voleva al suo fianco in battaglia.

«Come facciamo a sapere che non menti?» ribatte Orik.

«Perché lo dico io» annunciò una voce risoluta alle spalle. Ajihad avanzò tra di loro, armato per la battaglia con un robusto giustacuore d’acciaio e una spada dall’impugnatura d’avorio. Posò una mano sulla spalla di Eragon e lo guidò in disparte per non farsi sentire dagli altri.

Squadrò l’armatura. «Bene, vedo che Orik ha fatto un ottimo lavoro.»

«Sì… notizie dai tunnel?»

«Non ancora.» Ajihad si appoggiò alla spada. «Uno dei Gemelli resterà a Tronjheim. Salirà sulla rocca e osserverà la battaglia da lì, e attraverso suo fratello mi trasmetterà le informazioni. So che tu puoi parlargli con la mente. Mi occorre che tu riferisca ai Gemelli qualunque, dico qualunque cosa di insolito che vedrai in battaglia. E io ti invierò gli ordini attraverso dì loro. Capito tutto?»

Il pensiero di essere legato ai Gemelli lo riempì di disgusto, ma sapeva che era necessario. «Sì.»

Ajihad fece una pausa, poi disse: «Tu non sei un soldato di fanteria o di cavalleria, come quelli che sono abituato a comandare. In battaglia potrebbe essere diverso, ma credo che tu e Saphìra sarete più al sicuro sul terreno. In aria, sareste un bersaglio perfetto per gli arcieri Urgali. Combatterai in sella a Saphira?»

Eragon non aveva mai combattuto a cavallo, meno che mai su Saphira. «Non so che cosa faremo. Quando sono su Saphira, sono troppo alto per combattere chiunque, se non un Kull.»

«Ci saranno moltissimi Kull, temo» disse Ajihad. Si raddrizzò e sfilò la spada dal terreno. «L’unico consiglio che posso darti è di evitare rischi inutili. I Varden non possono permettersi di perderti.» E con questo si voltò e se ne andò.

Eragon tornò da Orik e Murtagh e si accovacciò accanto a Saphira, appoggiando lo scudo alle ginocchia. I quattro aspettavano in silenzio, come le centinaia di guerrieri intorno a loro. La luce che pioveva dall’apertura del Farthen Dùr si affievolì via via che il sole spariva dietro l’orlo del cratere.

Eragon si volse a contemplare l’accampamento e s’impietrì, col cuore in gola. A trenta piedi da lui sedeva Arya, con l’arco appoggiato in grembo. Pur sapendo che era irragionevole, Eragon aveva sperato che si fosse unita alle altre donne fuori dal Farthen Dùr. Preoccupato, si alzò e le si avvicinò. «Anche tu combatterai?»

«Farò quello che devo» rispose lei impassibile.

«Ma è troppo pericoloso!» .

Arya si rabbuiò. «Non mi sottovalutare, umano. Gli elfi addestrano sia i maschi che le femmine al combattimento. Non sono una delle vostre donnette che fuggono davanti al pericolo. Mi è stato affidato il compito di proteggere l’uovo di Saphira, e ho fallito. La mia breoal è stata disonorata e maggiore vergogna ricadrebbe su di lei se non proteggessi te e Saphira su questo campo. Dimentichi che sono più forte con la magia di chiunque, qui, compreso te.

Se arriva lo Spettro, chi potrà sconfiggerlo se non io? E chi ne ha il diritto più di me?»

Eragon la guardò ammtitolito, riconoscendo suo malgrado che aveva ragione. «Allora bada a te stessa» disse. Poi, per disperazione, aggiunse nell’antica lingua; «Wiol pòmnuria ilian.» Per la mia felicità.

Arya distolse lo sguardo inquieta; la folta frangia le celava il volto. Fece scorrere la mano sul lucido arco e mormorò: «È il mio wyrda, trovarmi qui. Devo ripagare il mio debito.»

Eragon si volse di scatto e tornò a grandi passi da Saphira. Murtagh lo guardò incuriosito. «Che cos’ha detto?»

«Niente.»

Immersi nei propri pensieri, col passare delle ore i difensori sprofondarono in un silenzio sempre più cupo. Il cratere del Farthen Dùr piombò ancora una volta nelle tenebre, rischiarate soltanto dal bagliore sanguigno delle lanterne e dei fuochi su cui ribolliva la pece, Eragon studiava l’intreccio della propria cotta di maglia, poi scoccava rapide occhiate all’indirizzo di Arya. Orik strofinava una pietra da cote sulla lama della sua ascia, esaminando il taglio fra una passata e l’altra; il raspare del metallo era irritante. Lo sguardo di Murtagh era perso nel vuoto.

Di tanto in tanto, qualche messaggero correva per l’accampamento, facendo scattare in piedi i guerrieri; ma era sempre un falso allarme. Gli uomini e i nani erano sempre più tesi; spesso si udivano esplosioni di collera. La cosa peggiore del Farthen Dùr era l’assenza del vento: l’aria era immobile, morta. A peggiorare le cose, il fumo dei falò e delle lanterne si addensava rendendo l’aria calda e soffocante.

Mentre la notte invecchiava, il campo di battaglia divenne mortalmente silenzioso. I muscoli di tutti dolevano per la tensione dell’attesa, Eragon fissava il buio con occhi vacui e palpebre pesanti. Ogni tanto si scuoteva, nel tentativo di riprendersi dal torpore. Alla fine Orik disse: «È tardi. Dovremmo dormire. Se succede qualcosa, gli altri ci sveglieranno.» Murtagh borbottò, ma Eragon era troppo stanco per lamentarsi. Si rannicchiò accanto a Saphira, usando lo scudo come cuscino. Mentre chiudeva gli occhi, vide Arya ancora sveglia, che li guardava.

I suoi sogni furono confusi e inquietanti, popolati da bestie cornute e minacce invisibili. Più volte sentì una voce chiedere: “Sei pronto?” Ma non c’era mai risposta. Tormentato da simili visioni, il suo sonno fu agitato e snervante, finché qualcosa non gli toccò il braccio. Si svegliò di soprassalto.

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