Eragon si svegliò tardi, la mattina dopo. Si vestì, si lavò il viso nel bacile, poi inclinò lo specchio per ravviarsi i capelli. Qualcosa nella sua immagine riflessa lo bloccò con le mani a mezz’aria. Si avvicinò per vedere meglio e notò che il proprio volto era cambiato da quando era fuggito da Carvahall, poco tempo prima. Le rotondità della fanciullezza erano scomparse, cancellate dalle fatiche del viaggio e dell’addestramento. Gli zigomi erano più pronunciati, la linea della mascella più marcata. Intorno agli occhi aveva ombre scure che gli conferivano un’aria selvaggia, aliena. Tenne lo specchio a distanza di braccio, e il suo volto riprese il suo aspetto normale: eppure pareva non appartenergli.
Turbato, si mise l’arco e la faretra a tracolla e uscì dalla camera. Prima di arrivare in fondo al corridoio, il maggiordomo gli andò incontro e disse: «Signore. Neal e il mio padrone sono usciti presto stamattina, diretti al castello. Hanno detto di fare ciò che desiderate quest’oggi, perché non torneranno che stasera.»
Eragon lo ringraziò per il messaggio e decise di andare subito a esplorare Teirm. Vagò per ore nelle vie, entrando in ogni bottega che colpiva la sua fantasia e chiacchierando con varie persone. Alla fine, la pancia e le tasche vuote lo costrinsero a prendere la via del ritorno a casa di Jeod. Quando arrivo nella strada dove abitava il mercante, sì fermò davanti alla porta dell’erborista. Era un luogo insolito per una bottega. Tutti gli altri negozi si trovavano lungo le mura della città, e non stipati come quello fra due imponenti edifici del quartiere elegante. Provò a spiare dalle finestre, ma la vista era ostruita da un fitto groviglio di piante all’interno. Incuriosito, entrò.
Sulle prime non vide niente perché il negozio era buio, ma poi i suoi occhi si abituarono alla fioca luce verdastra che filtrava dalle finestre. Un uccello variopinto dalla lunga coda piumata e dal lungo becco aguzzo lo guardò torvo da una gabbia appesa vicino alla finestra. Le pareti erano coperte di piante; dal soffitto pendeva una moltitudine di rampicanti tra cui s’intrawedeva a stento un vecchio candelabro, mentre sul pavimento era posato un grosso vaso con un fiore giallo. Mortai, pestelli e ciotole di metallo di varie dimensioni affollavano il lungo bancone, insieme a una sfera di cristallo trasparente, grossa quanto la testa di Eragon.
Il ragazzo si avvicinò al banco, attento a evitare complicati macchinari, casse di pietre, pile di pergamene e altri oggetti che non riconobbe. La parete alle spalle del banco era tappezzata di cassetti, alcuni non più grandi del suo dito mignolo, altri tanto ampi da contenere un barile. In alto, fra gli scaffali, c’era uno spazio vuoto.
Un paio di occhi rossi balenarono all’improvviso da quell’anfratto buio, e un grosso gatto altero balzò sul bancone. Il suo corpo era asciutto, con spalle possenti e zampe enormi. Il muso a triangolo era circondato da un’ispida criniera; le orecchie a punta terminavano con due folti ciuffi neri, e sul labbro di sotto sporgevano due candide zanne. Nell’insieme, non assomigliava a nessun gatto che Eragon avesse mai visto. L’animale lo squadrò con occhi penetranti, poi agitò la coda, soddisfatto. D’impulso, Eragon dilatò la mente e toccò la coscienza del gatto. Con delicatezza, sfiorò i suoi pensieri nel tentativo di fargli capire che era un amico.
Non devi.
Eragon si guardò intorno allarmato. Il gatto lo ignorò e si leccò una zampa, Saphira. Dove sei? chiese. Nessuno rispose. Perplesso, si protese sul banco e tese una mano verso quella che sembrava una bacchetta di legno.
Fossi in te non lo farei.
Smettila di burlarti di me, Saphira, ribattè aspramente, e prese la bacchetta. Una violenta scossa elettrica gli esplose nel corpo mandandolo a gambe all’aria sul pavimento. Il dolore si attenuò, pian piano, lasciandolo boccheggiante. Il gatto balzò giù e lo guardò.
Non sei tanto furbo, per essere un Cavaliere dei Draghi.
Eppure ti avevo avvertito.
Sei tu che parli! esclamò Eragon. Il gatto sbadigliò, si stiracchiò e prese a girellare per il negozio, aggirando con grazia gli ostacoli,
Chi altri, sennò?
Ma sei solo un gatto! osservò Eragon.
Il gatto miagolò irritato e si volse. Gli saltò sul petto e si accoccolò, fissandolo con gli occhi scintillanti. Eragon cercò di alzarsi a sedere, ma il gatto ringhiò, mostrando i denti, ti sembro come gli altri gatti?
No…
E allora che cosa ti fa pensare che lo sia? Eragon fece per dire qualcosa, ma la creatura gli conficcò le unghie nel petto. Ovviamente la tua educazione presenta gravi lacune. Per tua informazione, io sono un gatto mannaro. Non siamo rimasti in molti, ma credo che perfino un contadinotto come te dovrebbe aver sentito parlare di noi.
Non sapevo che foste veri, disse Eragon, affascinato. Un gatto mannaro! Era proprio fortunato. I gatti mannari comparivano ai margini di molte leggende, creature solitarie che in rare occasioni elargivano saggi consigli. Se le leggende erano vere, essi avevano poteri magici, vivevano più a lungo degli esseri umani, e sapevano molto più di quanto non dicessero.
Il gatto mannaro sbatté le palpebre pigramente. L’esistenza non dipende dalla conoscenza. Io non sapevo che tu esistessi finché non sei piombato in negozio a interrompere il mio sonnellino.
Ma questo non significa che tu non fossi vero prima di svegliarmi.
Eragon si smarrì nel ragionamento. Mi dispiace di averti disturbato.
Mi sarei svegliato comunque, disse il gatto. Saltò sul bancone e si leccò una zampa. Se fossi in te, non continuerei a tenere in mano quella bacchetta. Fra qualche secondo ti fulminerà di nuovo.
Eragon si affrettò a rimetterla dove l’aveva trovata. Cos’è? Un manufatto comune e insignificante, al contrario di me. A cosa serve?
Non l’hai capito da solo? Il gatto mannaro finì di pulirsi le zampe, si stiracchiò di nuovo, e con un balzo tornò nella sua cuccia sullo scaffale. Si accoccolò con le zampe sotto il petto e chiuse gli occhi, facendo le fusa.
Aspetta, disse Eragon. Come ti chiami?
Il gatto mannaro aprì uno degli occhi a mandorla. Ho molti nomi. Se vuoi sapere il mio vero nome, dovrai cercare da qualche altra parte. L’occhio si chiuse. Eragon si arrese e si volse per andarsene. Comunque, puoi chiamarmi Solembum.
Grazie, disse Eragon serio. Le fusa di Solembum si fecero più sonore.
La porta del negozio si aprì, lasciando entrare un fascio di luce. Comparve Angela, con una sacca di tela piena di piante. I suoi occhi fissarono Solembum per qualche istante e la sua espressione parve sconcertata. «Dice che vi siete parlati.»
«Anche tu puoi parlargli?» chiese Eragon.
La donna fece un gesto d’impazienza. «Naturale: solo che questo non sempre vuol dire che mi risponda.» Posò le piante sul bancone, poi lo aggirò e fronteggiò Eragon. «Gli sei simpatico. Ed è un fatto insolito. Solembum di solito non si fa nemmeno vedere dai clienti. Sai, dice che da qui a qualche anno ti dimostrerai una promessa.»
«Grazie.»
«È un gran complimento, detto da lui. Sei soltanto la terza persona che è entrata qui con cui ha parlato. La prima fu una donna, tanti anni fa; il secondo un mendicante cieco; e adesso tu. Ma non tengo un negozio solo per chiacchierare. Desideri qualcosa? O sei venuto solo a dare un’occhiata?»
«Solo per un’occhiata» disse Eragon, pensando ancora al gatto marinaro. «Non credo che mi servano le erbe.»
«Non è l’unica cosa di cui mi occupo» disse Angela con un sorriso. «Gli stupidi riccastri mi pagano per avere pozioni d’amore e cose del genere. Non ho mai detto che funzionano, ma per qualche ragione quelli tornano sempre. Però non.credo che tu voglia quelle porcherie. Vuoi che ti predica il futuro? Faccio anche questo, per le stupide riccastre.»
Eragon scoppiò a ridere. «No, temo che il mio futuro sia imprevedibile. E non ho soldi.»
Angela scoccò una strana occhiata a Solembum. «Credo...» Indicò la sfera di cristallo sul banco.
«Questa è solo uno specchietto per le allodole, in realtà non serve a niente. Ma ho... Aspetta qui, torno subito.» E scomparve nel retrobottega.
Tornò trafelata con un sacchetto di pelle che posò sul banco. «Non le uso da tanto di quel tempo che mi ero quasi dimenticata dove le avevo messe. Adesso siediti qui davanti e ti mostrerò perché mi prendo tanto disturbo.» Eragon spostò uno sgabello e si sedette. Gli occhi di Solembum rosseggiavano dal buio spazio fra i cassetti.
Angela aprì il sacchetto e ne rovesciò il contenuto su di un pezzo di stoffa che aveva spiegato sul banco. Erano piccole ossa, poco più grandi di un dito, con incisi simboli e rune. «Queste» disse lei, sfiorandole con delicatezza. «sono ossa dì zampa di drago. Non chiedermi dove le ho prese, perché tanto non te lo dico. Al contrario delle foglie di té, delle sfere di cristallo, o anche dei tarocchi, possiedono un vero potere. Non mentono mai, anche se capire ciò che dicono è complicato. Se lo desideri, le lancerò per leggerti il futuro. Sappi però che conoscere il proprio destino può essere una cosa terribile. Devi essere sicuro della tua decisione.»
Eragon guardò le ossa con un brivido di terrore. Questi sono i resti di ciò che un tempo era un simile di Saphira. Conoscere il proprio destino... Come faccio a prendere una decisione quando non so che cosa mi aspetta e se mi piacerà? L’ignoranza è una vera benedizione. «Perché me lo hai proposto?» chiese.
«Per via di Solembum. Può essere stato scortese, ma il fatto che ti abbia parlato ti rende speciale. Lui è un gatto marinaro, in fin dei conti. Proposi la stessa cosa anche agli altri due che parlarono con lui, ma soltanto la donna accettò. Si chiamava Selena. Ah, ma quanto se ne pentì. Il suo destino era triste e doloroso. Non credo che ci abbia creduto... non subito, almeno.»
Eragon si sentì travolgere da un’intensa emozione e gli vennero le lacrime agli occhi. «Selena» mormorò fra sé. Il nome di sua madre, Era lei? Il suo destino era così orribile da indurla ad abbandonarmi? «Ti ricordi qualcosa della predizione?» domandò con un vuoto allo stomaco. . Angela scosse il capo e sospirò. «È passato tanto di quel tempo che i dettagli si sono dissolti nella mia memoria, che non è più buona come una volta. D’altro canto, non ti direi mai quello che ricordo. La mia predizione era per lei e lei soltanto, Era triste, però; non scorderò mai la sua espressione.»
Eragon chiuse gli occhi per arginare il flusso di emozioni. «Perché ti lamenti della tua memoria?» domandò, per distrarsi. «Non sei tanto vecchia.»
Sulle guance di Angela comparvero due fossette. «Sono lusingata, ma non farti ingannare; sono molto più vecchia di quanto non sembri. L’aspetto giovanile lo devo alle erbe che mangio nei tempi di magra.»
Eragon sorrise e trasse un lungo respiro. Se era mia madre ed è riuscita a sopportare il fardello della conoscenza del proprio destino, farò altrettanto. «Lancia le ossa per me» disse, in tono solenne.
Il volto di Angela divenne serio, mentre raccoglieva le ossa in tutte e due le mani. Chiuse gli occhi e le sue labbra si mossero in un mormorio silente. Poi esclamò a gran voce: «Manin! Wyrda! Hugin!» e gettò le ossa sul panno. Caddero l’una sull’altra, scintillando nella debole luce.
Le parole risuonavano nelle orecchie di Eragon; aveva riconosciuto l’antica lingua e si rese conto con apprensione che per usarle a scopi magici. Angela doveva essere una maga. Non aveva mentito; era una vera indovina. I minuti passarono lentamente mentre la donna leggeva le ossa.
Infine. Angela si ritrasse ed emise un lungo sospiro. Si asciugò la fronte e prese un otre di vino sotto il bancone. «Ne vuoi un po’?» gli chiese. Eragon fece di no con la testa. Lei si strinse nelle spalle e bevve un lungo sorso. «Questa» disse, pulendosi la bocca col dorso della mano «è la lettura più difficile che mi sia mai capitata. Avevi ragione. Il tuo futuro è impossibile da prevedere. Non ho mai conosciuto nessuno con un destino così intricato e oscuro. Tuttavia, forse qualcosa ti posso dire.»
Solembum balzò sul bancone e si accoccolò a guardare entrambi. Eragon strinse i pugni mentre Angela gli indica-va un osso. «Cominciamo da qui» disse. «perché è il più facile da comprendere.»
Il simbolo sull’osso era una lunga linea orizzontale con un cerchio sopra. «Eternità o lunga vita» disse Angela in tono sommesso. «Questa è la prima volta che lo vedo comparire nel futuro di qualcuno. Di solito vengono fuori il pioppo o l’olmo, che indicano entrambi che la persona vivrà un normale ciclo di anni. Se questo significa che vivrai per sempre o soltanto che avrai una vita straordinariamente lunga, non so dirtelo. Comunque sia, sta’ sicuro che ti aspettano ancora moltissimi anni.»
Non è una sorpresa... sono un Cavaliere, pensò Eragon.
Angela gli avrebbe detto soltanto cose che lui già sapeva?
«Adesso le ossa diventano più difficili da decifrare, perché si sono mescolate in modo strano.» Angela ne toccò tre. «Il tortuoso cammino, il fulmine guizzante e il veliero sono caduti insieme... in uno schema che non ho mai visto personalmente, solo sentito descrivere. Il tortuoso cammino rappresenta le molteplici scelte che dovrai affrontare in futuro, alcune già adesso. Vedo grandi battaglie infuriare intorno a te, alcune per la tua stessa salvezza. Vedo i gran-di poteri di questa terra lottare per controllare la tua volontà e il tuo destino. Innumerevoli possibili futuri ti attendono, ciascuno denso di sangue e di conflitti, ma uno solo ti porterà la felicità e la pace. Attento a non smarrire la strada, poiché tu sei uno dei pochi davvero liberi di scegliere il proprio destino. Questa libertà è un dono, ma anche una responsabilità più pesante di una catena.»
Poi il suo volto si fece triste. «Eppure, come a contrasta-re tutto questo, c’è il fulmine guizzante. E’un presagio terribile. Un oscuro evento incombe, ma di che tipo non lo so. Parte di esso risiede in una morte, una morte imminente che ti causerà un enorme dolore. Ma il resto riguarda un grande viaggio. Osserva bene quest’osso. Guarda come la sua estremità poggia su quello con il veliero. È impossibile sbagliarsi. Il tuo destino sarà quello di lasciare questa terra per sempre. Dove finirai non lo so, ma non vivrai più in Alagasëia, È inevitabile. Accadrà anche se cercherai di evitarlo.»
Le sue parole lo spaventarono. Un’altra morte... chi dovrò perdere adesso? La sua mente corse subito a Roran. Poi pensò alla sua terra d’origine. Che cosa potrà indurmi a partire? E dove andrò?
Se ci sono altre terre al di là dell’oceano oppure a est, soltanto gli elfi le conoscono.
Angela si massaggiò le tempie e trasse un profondo respiro. «Quest’altro osso è più facile da interpretare, ed è anche più piacevole.» Eragon lo guardò e vide un bocciolo di rosa racchiuso in un falce di luna.
Angela sorrise e disse: «Nel tuo futuro c’è una grande storia d’amore, straordinaria, come suggerisce la luna, che è un simbolo magico, e forte abbastanza da travalicare gli imperi. Non so dirti se questa passione avrà un epilogo felice, ma il tuo amore sarà di nobile stirpe. È potente, saggia e bella oltre ogni dire.»
Di nobile stirpe, pensò Eragon sorpreso. Com’è possibile? Io non sono più nobile del più povero dei contadini.
«Per quanto riguarda le ultime due ossa, l’albero e la radice di biancospino, che sono messi a croce,mi rincresce dirlo… potrebbero significare soltanto altri problemi... ma il tradimento è evidente, E verrà da qualcuno dentro la tua famiglia.»
«Roran non lo farebbe mai!» esclamò Eragon risentito.
«Non lo so» disse Angela prudente. «Ma le ossa non mentono, ed è questo che dicono.»
Il tarlo del dubbio prese a insinuarsi nella mente di Eragon, che tentò di ignorarlo. Che motivo avrebbe avuto Roran di tradirlo? Angela gli posò una mano sulla spalla per confortarlo e gli offrì di nuovo il vino. Questa volta Eragon accettò e bevve. Si sentì subito meglio.
«A conti fatti, chissà, la morte potrebbe non essere tanto male» scherzò nervosamente. Roran un traditore? Non può accadere! Non accadrà!
«Può darsi» disse Angela solenne, poi mitigò il tono con una risatina leggera. «Ma non dovresti angosciarti per ciò che deve ancora succedere. L’unico modo in cui il futuro può danneggiarci è dandoci dei pensieri. Ti garantisco che ti sentirai meglio quando uscirai di nuovo alla luce del sole.»
«Speriamo.» Purtroppo, pensò Eragon con amarezza, niente di quello che ha dettò avrà un senso finché non sarà accaduto. Se accadrà, si corresse. «Hai usato parole di potere» commentò a voce alta.
Gli occhi di Angela scintillarono. «Che cosa darei per vedere come si svolgerà il resto della tua vita. Sai parlare ai gatti marinari, conosci l’antica lingua, e hai un futuro a dir poco affascinante. E poi sono pochi i giovanotti al verde e con gli abiti logori che possono sperare di essere amati da una nobildonna. Chi sei?»
Eragon si rese conto che il gatto marinaro non aveva detto ad Angela che lui era un Cavaliere. Stava per dire “Evan”, ma poi cambiò idea e disse semplicemente: «Eragon.»
Angela inarcò le sopracciglia. «È quello che sei o il tuo nome?»
«Entrambi» rispose Eragon con un lieve sorriso, pensando al primo Cavaliere da cui veniva il suo nome.
«Sono sempre più curiosa di vedere come si svolgerà la tua vita. Chi è il vecchio con cui stavi ieri?»
Eragon decise che un altro nome non poteva far danno. «Si chiama Brom.»
Angela scoppiò in una risata sonora, piegandosi in due. Si asciugò gli occhi e bevve un sorso di vino, poi contenne a stento un altro attacco di ilarità. Alla fine, ansimando per riprendere fiato, riuscì a dire: «Oh... lui! Non ne avevo idea!»
«Che cosa significa?» domandò Eragon.
«Scusa, non prendertela» disse Angela, cercando di ricomporsi. «È solo che... Be’, è famoso fra quelli che esercitano la mia professione. Temo che il destino, o se preferisci il futuro, di quel povero diavolo sia una specie di burla fra noi.»
«Non insultarlo! È l’uomo migliore che si possa conoscere!» reagì Eragon.
«Calma, calma» borbottò Angela, divertita. «Lo so. Se ci incontreremo di nuovo, te ne parlerò. Ma nel frattempo dovresti...» S’interruppe quando Solembum s’insinuò fra di loro e prese a fissare Eragon.
Sì? Disse Eragon irritato.
Ascolta bene le due cose che ho da dirti. Quando giungerà il momento e ti servirà un’arma, guarda sotto le radici dell’albero di Menoa. Poi, quando tutto ti sembrerà perduto e il tuo potere non basterà, vai alla rocca di Kuthian e pronuncia il tuo nome per schiudere la Volta delle Anime.
Prima che Eragon avesse il tempo di chiedere a Solembum che cosa volesse dire, il gatto marinaro si allontanò facendo ondeggiare con grazia la coda. Angela inclinò la testa da un lato; i boccoli bruni le ombreggiavano la fronte. «Non so che cosa ti ha detto, e non lo voglio sapere. Ha parlato a te e soltanto a te. Non raccontarlo a nessuno.»
«Credo di dover andare» disse Eragon scosso.
«Se vuoi» disse Angela, sorridendo di nuovo. «Per me puoi restare finché ti pare, soprattutto se compri un po’ delle mie erbe. Ma vai, se lo desideri; sono sicura che ti abbiamo dato abbastanza notizie da rifletterci per un po’.»
«Già.» Eragon si affrettò alla porta. «Grazie per avermi letto il futuro.» Credo.
«Non c’è di che» rispose Angela, sempre sorridente.
Eragon uscì dal negozio e si fermò sulla strada, socchiudendo gli occhi per riabituarsi alla luce. Passarono parecchi minuti prima che riuscisse a ripensare con calma a quanto aveva appreso. Cominciò a camminare, a passi ignari ma sempre più veloci, finché non si ritrovò a correre fuori da Teirm, verso il nascondiglio di Saphira.
La chiamò dalla base della rupe. Dopo un minuto la dragonessa planò su di lui, lo afferrò al volo e risalì in cima alla rupe. Una volta tornato a terra, Eragon le raccontò quello che era successo nella bottega dell’erborista. E così, concluse, immagino che Brom abbia ragione: sembra che mi trovi sempre dove ci sono guai.
Dovresti tenere a mente quello che ti ha detto il gatto mannaro. È importante.
Che cosa ne sai? domandò lui, curioso.
Non ne sono sicura, ma i nomi che ha usato suonano potenti.
Kuthian, disse lei, assaporando la parola. No, non dovremmo dimenticare quello che ha detto.
Credi che dovremmo dirlo a Brom?
È una tua scelta, ma pensa una cosa: lui non ha il diritto di conoscere il tuo futur.. Raccontargli di Solembum e delle sue parole solleverebbe domande a cui potresti non voler rispondere. E se decidi di chiedergli soltanto che cosa significano quelle parole. Brom potrebbe voler sapere dove le hai sentite. Credi di potergli mentire in modo convincente?
No, ammise Eragon. Forse non gli dirò niente. Eppure ho l’impressione che siano cose troppo importanti per tenerle nascoste. Continuarono a parlare di tutto quanto nel dettaglio, con minuzia, tra domande e risposte, e alla fine rimasero in silenzio a guardare gli alberi fino al tramonto. Eragon tornò di corsa a Teirm e bussò subito alla porta di Jeod. «Neal è tornato?» chiese al maggiordomo. «Sì, signore. Credo che si trovi nello studio, adesso.»
«Grazie» disse Eragon. Si avviò verso la stanza e fece capolino dalla porta. Brom era seduto davanti al fuoco, intento a fumare la pipa. «Com’è andata?» chiese Eragon.
«Un fiasco totale» ringhiò Brom, la pipa stretta fra i denti.
«Hai parlato con Brand?»
«Non è servito a niente. L’amministratore dei commerci è il peggior burocrate che abbia mai incontrato. Si attiene scrupolosamente a ogni minima regola, godendo nel crearne di nuove se solo possono provocare problemi ad altri, e allo stesso tempo è convinto di far bene.»
«Vuoi dire che non ci lascerà guardare i registri?» disse Eragon..
«Già!» sbottò Brom, esasperato. «Non c’è stato niente da fare. Pensa che ha rifiutato perfino un sostanzioso omaggio in denaro. Credevo che non avrei mai conosciuto un nobile incorruttibile. Adesso che l’ho incontrato, ho scoperto che preferisco quando sono degli avidi bastardi.» Sbuffò con violenza il fumo della pipa e si lanciò in una sfilza d’imprecazioni.
Quando parve aver ripreso la calma, Eragon osò chiedere: «E adesso?»
«Adesso passerò tutta la prossima settimana a insegnarti a leggere.»
«D’accordo, ma dopo?»
Un ghigno affiorò sulle labbra di Brom. «Dopo, faremo a Brand una gran brutta sorpresa.» Eragon insistette per conoscere i dettagli, ma Brom si rifiutò di aggiungere altro.
La cena ebbe luogo in una sontuosa sala da pranzo. Jeod sedette a capotavola, sua moglie Helen all’estremità opposta. Brom ed Eragon presero posto fra loro, una posizione che Eragon ritenne pericolosa, a giudicare dall’espressione arcigna della padrona di casa. Ai suoi lati c’erano delle sedie vuote, ma questo almeno lo proteggeva dagli sguardi furenti della donna.
La cena fu servita in silenzio, e Jeod ed Helen cominciarono a mangiare senza dire una parola, Eragon li imitò, pensando: Ho partecipato a pranzi più allegri dopo un funerale. Ricordò le volte che gli era successo a Carvahall: lì almeno la tristezza era giustificata. Qui invece la situazione era diversa, ma per tutta la cena si sentì bersaglio della collera repressa di Helen.