53 Benedici la bimba, Argetlam

Nel corridoio, Eragon si stiracchiò le membra indolenzite per il troppo tempo passato seduto. I Gemelli entrarono nello studio di Ajihad e chiusero la porta. Eragon guardò Orik. «Mi dispiace che tu sia finito nei guai per colpa mia» si scusò.

«Non preoccuparti» grugnì Orik, arricciandosi una ciocca della lunga barba. «Ajihad mi ha dato quello che volevo.»

Perfino Saphira rimase colpita da quella affermazione. «Che cosa vuoi dire?» chiese Eragon. «Non puoi allenarti o combattere, e sei stato obbligato a sorvegliarmi. È questo che volevi?»

Il nano ammiccò con aria serena. «Ajihad è un buon capo. Sa come rispettare le leggi e tuttavia agire in maniera equa. Sono stato punito sotto il suo comando, ma io sono anche un suddito di Rothgar. Sotto il suo governo, resto ancora libero di fare quello che voglio.»

Eragon capì che non avrebbe mai dovuto dimenticare la duplice lealtà di Orik e la natura divisa dei poteri a Tronjheim. «Quindi Ajihad ti ha affidato un compito ancora più importante, giusto?»

Orik ridacchiò sotto i baffi. «Giusto, e tuttavia i Gemelli non possono lamentarsi. Ciò è destinato a irritarli oltre misura. Ajihad è molto scaltro, sissignore. Vieni, giovanotto, sono certo che avrai fame. E dobbiamo sistemare il tuo sputafuoco.»

Saphira sibilò. Eragon disse: «Si chiama Saphira.»

Orik accennò un inchino. «Le mie scuse, me lo ricorderò.» Staccò dalla parete una lampada dai riflessi aranciati e li scortò lungo il corridoio.

«Ci sono altri nel Farthen Dùr che sanno usare la magia?» chiese Eragon, trottando per tenere il passo con la vivace andatura del nano. Teneva Zar’roc stretta contro il fianco, nascondendo il simbolo sul fodero con il braccio.

«Pochissimi» disse Orik, con una scrollata di spalle che fece tintinnare la sua cotta di maglia. «E quei pochi sono in grado al massimo di curare qualche livido. Infatti sono tutti al capezzale di Arya perché è grande la forza necessaria a guarirla.»

«Tranne i Gemelli.»

«Già» borbottò Orik. «E comunque lei non li avrebbe mai voluti accanto; le loro arti non sono fatte per guarire. Il loro talento consiste nel tessere trame e complotti a danno di altri. Deynor, il predecessore di Ajihad, li volle insieme ai Varden perché aveva bisogno del loro aiuto: non puoi combattere contro l’Impero senza stregoni capaci di opporsi ai loro simili sul campo di battaglia. Sono una coppia molesta, ma ci servono.»

Entrarono in uno dei quattro tunnel principali che dividevano Tronjheim. Gruppi di nani e umani lo percorrevano su e giù; le loro voci echeggiavano fra le pareti lisce. Le conversazioni si interruppero di colpo quando videro Saphira; decine di sguardi si fissarono su di lei. Orik ignorò gli spettatori e voltò a sinistra, diretto verso uno dei lontani cancelli di Tronjheim. «Dove stiamo andando?» chiese Eragon.

«Fuori da queste mura, affinchè Saphira possa volare sulla rocca dei draghi sopra Isidar Mithrim, la Zaffiro Stellato. La roccaforte non ha un tetto: la cima di Tronjheim è a cielo aperto, come quella del Farthen Dùr. Così lei, voglio dire tu, Saphira, potrai volare direttamente sulla roccaforte. È lì che un tempo alloggiavano i Cavalieri in visita a Tronjheim.»

«Non sarà freddo e umido lassù, senza il tetto?» obiettò Eragon.

«No.» Il nano scosse il capo. «Il Farthen Dùr ci protegge dagli elementi. Non piove e non nevica mai, qui dentro. E poi le pareti della rocca sono disseminate di caverne di marmo per i draghi. C’è riparo più che a sufficienza. Bisogna temere soltanto i ghiaccioli; quando cadono, possono tranciare un cavallo in due.»

Starò bene, lo rassicurò Saphira. Una caverna di marmo è più sicura di qualunque altro posto in cui siamo stati.

Può darsi... Credi che anche Murtagh starà bene?

Ajihad mi sembra un uomo d’onore. A meno che Murtagh non tenti di fuggire, nessuno gli farà del male.

Eragon incrociò le braccia, stanco di parlare. Era ancora scosso dal cambiamento delle circostanze rispetto al giorno prima. La loro folle fuga da Gil’ead era ormai conclusa, ma il suo corpo si aspettava ancora di correre e cavalcare. «Dove sono i nostri cavalli?»

«Nelle stalle vicino ai cancelli. Li potremo vedere prima di lasciare Tronjheim.»

Uscirono da Tronjheim passando per lo stesso cancello da cui erano entrati. I grifoni d’oro sfavillavano di mille riflessi variopinti grazie alle decine di lanterne accese intorno. Il sole si era spostato, durante il lungo colloquio di Eragon con Ajihad; la sua luce non entrava più nel Farthen Dùr attraverso la bocca del cratere. Senza quei raggi turbinosi di polvere, l’interno della montagna cava era di un nero vellutato. L’unica fonte di luce era Tronjheim, che scintillava nell’oscurità irradiando il suo splendore a centinaia di piedi di distanza.

Orik indicò il bianco pinnacolo di Tronjheim. «Carne fresca e acqua pura di montagna ti attendono lassù» disse a Saphira. «Quando avrai scelto in quale caverna riposare, ti verrà preparato un comodo giaciglio e nessuno ti disturberà.»

«Pensavo che saremmo rimasti insieme. Non voglio separarmi da lei» protestò Eragon.

Orik si rivolse a lui. «Cavaliere Eragon, farò qualunque cosa per soddisfarti, ma sarebbe meglio che Saphira aspettasse sulla rocca mentre tu mangi. I tunnel che portano nelle sale dei banchetti non sono abbastanza larghi da farla passare.»

«Allora perché non mi portate il cibo alla rocca?»

«Perché» rispose Orik con un brevissimo sospiro di esasperazione «il cibo viene preparato qui, ed è una lunga strada fino alla rocca. Ma se desideri, possiamo mandare un servo a portarti il pasto lassù. Ci vorrà un po’ di tempo, ma in questo modo potrai mangiare con Saphira.»

Dice sul serio, pensò Eragon, colpito da tanta premura nei suoi confronti. Eppure il modo in cui Orik aveva parlato gli faceva sospettare che in qualche modo il nano lo stesse mettendo alla prova.

Sono stanca,disse Saphira. E questa roccaforte mi piacerà, credo. Vai a mangiare, e poi sali da me.

Sarà bello riposare insieme senza temere animali selvaggi o soldati. Abbiamo patito gli stenti del viaggio troppo a lungo.

Eragon la guardò, pensoso, poi disse a Orik: «Mangerò qui.» Il nano sorrise compiaciuto. Eragon slegò la sella di Saphira perché potesse distendersi senza intralci. Porteresti Zar’roc con te?

Sì,rispose lei, e raccolse la spada e la sella con gli artigli. Ma tieni l’arco. Dobbiamo mostrare fiducia verso questa gente, ma non idiozia.

Lo so,disse lui, inquieto.

Con un balzo poderoso, Saphira si staccò dal suolo e prese il volo nell’aria immota. Il fruscio costante delle sue ali era l’unico rumore nell’oscurità. Quando scomparve oltre il picco di Tronjheim. Orik si lasciò sfuggire un lungo respiro. «Ah, ragazzo, quanto sei fortunato. All’improvviso ho una gran voglia di cieli aperti, di volare, di cacciare come un falco. Ma i miei piedi stanno meglio per terra,,, anzi, preferibilmente sotto.»

Battè le mani con un sonoro schiocco. «Dimentico i miei doveri di ospite. So che non hai toccato cibo da quando i Gemelli ti hanno fatto servire quel misero pasto, perciò vieni, andiamo a chiedere ai cuochi qualcosa di sostanzioso!»

Eragon seguì di nuovo il nano a Tronjheim. Percorsero un labirinto di corridoi finché non giunsero in un’ampia sala piena di tavoli di pietra, adatti però soltanto ai nani. Le fiamme ardevano in una fila di forni di steatite dietro un lungo bancone.

Orik si rivolse in una lingua sconosciuta a un tarchiato nano dal volto rubizzo, che subito portò loro piatti di pietra colmi di funghi e pesce fumanti. Poi Orik accompagnò Eragon lungo una serie di scale tortuose, finché non arrivarono in una piccola alcova ricavata nelle mura esterne di Tronjheim. Si sedettero a terra a gambe incrociate, ed Eragon si gettò sul cibo con avidità, senza dire una parola.

Quando ebbero svuotato i piatti. Orik emise un sospiro soddisfatto è prese una lunga pipa. L’accese e disse: «Uno spuntino niente male, ma adesso ci vorrebbe un bel sorso di idromele per mandarlo giù.»

Eragon osservò il terreno di sotto. «Qui nel Farthen Dùr praticate l’agricoltura?»

«No, la luce del sole basta soltanto per muschio, muffa e funghi. Tronjheim non potrebbe sopravvivere senza le provviste fornite dalle valli attorno: è una delle ragioni per cui molti di noi hanno scelto di vivere altrove, fra i Monti Beor.»

«Quindi ci sono altre città di nani?»

«Non tante quante vorremmo. E Tronjheim è la più grande.» Appoggiato su un gomito. Orik trasse una lunga boccata di fumo. «Tu hai visto soltanto i livelli più bassi, e quindi non te ne sei accorto, ma gran parte di Tronjheim è disabitata. Più in alto si sale, meno gente si trova. Interi piani sono deserti da secoli. La maggioranza di noi preferisce abitare sotto Tronjheim e il Farthen Dùr, nelle grotte e nei cunicoli scavati dentro la roccia. Nel corso dei secoli abbiamo scavato moltissimo sotto i Monti Beor, tanto che è possibile camminare da un’estremità all’altra della catena senza mai uscire.»

«Mi sembra uno spreco, tutto questo spazio inutilizzato qui a Tronjheim» commentò Eragon.

Orik annuì. «Alcuni sostengono che sarebbe meglio abbandondare questo posto perché consuma troppe risorse, ma Tronjheim ha un ruolo insostituibile.»

«Ossia?»

«Nei tempi di sventura può ospitare la nostra intera nazione. Ci sono stati soltanto tre casi nella nostra storia in cui siamo stati costretti a questo passo estremo, ma ogni volta ci ha salvati dalla distruzione certa e totale. Ecco perché la teniamo sempre presidiata, pronta a qualsiasi evenienza.»

«Non ho mai visto niente di così magnifico» disse Eragon.

Orik sorrise, stringendo la pipa fra i denti. «Mi fa piacere. Ci sono volute intere generazioni per costruire Tronjheim...e la nostra vita dura molto più a lungo di quella umana. Purtroppo. causa del maledetto Impero, pochi estranei hanno avuto accesso alla sua gloria.»

«Quanti Varden ci sono?»

«Nani o umani?»

«Umani. Vorrei sapere quanti hanno lasciato l’Impero.»

Orik esalò un lungo sbuffo di fumo, che si allargò lentamente intorno alla sua testa. «Ci sono circa quattromila individui della tua specie. Ma questo non risponde alla tua domanda. Soltanto chi vuole combattere viene qui. Gli altri si trovano nel Surda, sotto la protezione di re Orrin.»

Così pochi?pensò Eragon, deluso. Soltanto l’esercito reale era formato da circa sedicimila uomini, senza contare gli Urgali. «Perché Orrin non combatte contro l’Impero?» domandò.

«Se mostrasse un’ostilità aperta» rispose Orile. «Galbatorix lo annienterebbe. In verità. Galbatorix lascia in pace il Surda perché lo considera una minaccia minore, ma è un grosso errore, È grazie al sostegno di Orrin che i Varden ricevono gran parte delle armi e delle provviste. Senza di lui, non ci sarebbe modo di resistere all’Impero.

«Non ti far scoraggiare dal numero di umani presenti a Tronjheim. Ci sono molti nani, molti di più di quanti ne hai visti, e tutti combatteranno, quando verrà il momento. Anche Orrin ci ha promesso delle truppe, quando scenderemo in guerra contro Galbatorix. E perfino gli elfi si sono impegnati ad aiutarci.»

Eragon vagò distrattamente col pensiero fino a toccare quello di Saphira, e la trovò intenta a sbranare con passione un sanguinolento quarto di bue. Si riscosse e notò ancora una volta il martello e le stelle incisi sull’elmo di Orik. «Che cosa significa quel simbolo? L’ho visto anche sul pavimento di Tronjheim.»

Orik si tolse la calotta ferrata e fece scorrere un dito ruvido sull’incisione. «È il simbolo del mio clan. Siamo gli Ingietum, fabbri e artigiani del metallo. Il martello e le stelle sono incisi anche sul pavimento di Tronjheim perché era l’insegna personale del nostro fondatore, Korgàn. Un clan che governa, circondato dagli altri dodici. Anche il re Rothgar appartiene alla Dùrgrimst Ingietum, e ha portato grande onore e gloria al nostro casato.»

Quando riportarono i piatti al cuoco, incrociarono nel corridoio un nano, che si fermò davanti a Eragon, s’inchinò e lo salutò con rispetto dicendo: «Argetlam.»

Il nano si allontanò lasciando Eragon confuso e imbarazzato, ma anche stranamente compiaciuto. Nessuno si era mai inchinato davanti a lui. «Cos’ha detto?» bisbigliò all’orecchio di Orik. Orik si strinse nelle spalle. «È una parola elfica usata un tempo per definire i Cavalieri. Significa “mano d’argento”.» Eragon si guardò la mano guantata, pensando al gedwey ignasia che gli illuminava il palmo. «Vuoi tornare daSaphira?»

«C’è un posto dove posso fare il bagno, prima? È da parecchio che porto con me la sporcizia del viaggio. La mia camicia è strappata, sporca di sangue, e puzza. Vorrei cambiarla, ma non ho soldi per comprarmene una nuova. C’è qualche lavoro che posso fare in cambio?»

«Vuoi forse insultare l’ospitalità di Rothgar, Eragon?» esclamò Orik. «Finché sarai a Tronjheim, non dovrai comprare niente. Ci ripagherai in altri modi... Ajihad e Rothgar sapranno come. Vieni. Ti mostro dove lavarti, e poi andremo a cercare una camicia pulita.»

Condusse Eragon lungo una scala che scendeva nelle viscere di Tronjheim. I corridoi si ridussero a stretti cunicoli, alti appena cinque piedi, ed Eragon dovette procedere chino. Tutte le lanterne erano rosse. «Per non restare accecati dalla luce quando si entra o esce da una grotta buia» spiegò Orik. Entrarono in una stanza spoglia, con una porticina sulla parete opposta, che Orik indicò. «Lì troverai le vasche, e anche spazzole e sapone. Lascia qui i tuoi vestiti. Ne troverai di nuovi quando avrai finito di lavarti.»

Eragon lo ringraziò e prese a spogliarsi. Si sentiva oppresso, lì da solo sottoterra, soprattutto se guardava il soffitto bassissimo. Si svestì in fretta. Infreddolito, varcò la soglia per ritrovarsi in un’assoluta oscurità. Tese il piede un poco alla volta finché non incontrò dell’acqua tiepida, e si tranquillizzò.

Aleggiava un odore vagamente salmastro, piacevole. Per un momento ebbe paura di allontanarsi dalla porta verso l’acqua più profonda, ma nell’immergersi scoprì che gli arrivava alla cintola. Avanzò a tentoni lungo un muretto viscido finché non trovò il sapone e le spazzole, e cominciò a lavarsi. Infine si lasciò galleggiare, con gli occhi chiusi, godendo del calore.

Quando rientrò gocciolante nella stanza illuminata, trovò un asciugamano, una bella camicia di lino e un paio di braghe. I vestiti erano quasi della misura giusta per lui. Soddisfatto e rinfrancato, si avviò lungo il tunnel.

Orik lo aspettava con la pipa in mano. Risalirono le scale fino a Tronjheim e uscirono dalla città-montagna. Eragon alzò lo sguardo verso il picco di Tronjheim e chiamò Saphira con la mente. Mentre la dragonessa scendeva, Eragon chiese: «Come fate a comunicare con le persone che sono lassù?»

Orik ridacchiò. «È un problema che abbiamo risolto tanto tempo fa. Non l’hai notato, ma dietro gli archi aperti che si affacciano da ogni livello c’è un’unica scala ininterrotta che risale lungo il muro della sala centrale di Tronjheim e arriva fino alla rocca sopra Isidar Mithrirn. La chiamiamo Voi Turin, la Scala Infinita. Certo, non è rapida da salire e scendere in caso di emergenza, e non è comoda per l’uso quotidiano. Infatti per comunicare usiamo le lanterne di segnalazione. C’è anche un altro modo, ma viene usato di rado. Quando fu costruita Voi Turin, accanto a essa venne scavato una specie di canale di scolo. Funziona come un gigantesco scivolo, alto quanto una montagna.»

Eragon abbozzò un sorriso. «È pericoloso?»

«Non pensare nemmeno di provarci. Lo scivolo è stato costruito per i nani, ed è troppo stretto per un umano. Potresti cadere fuori, per le scale, e cozzare contro gli archi, o finire nel vuoto.»

Saphira atterrò a un tiro di lancia da loro, in un crepitio di squame. Mentre salutava Eragon, umani e nani si riversarono da Tronjheim e si strinsero intorno a lei con mormorii di interesse. Eragon osservò la folla con crescente disagio. «Faresti meglio ad andare» disse Orik, spingendolo avanti.

«Ci rivediamo davanti a questo cancello domattina. Ti aspetterò.»

Eragon esitò. «Come faccio a sapere che è mattina?»

«Ti farò svegliare da qualcuno. Adesso vai!» Senza indugiare oltre, Eragon si fece largo tra la folla che circondava Saphira e le montò in groppa.

Un attimo prima che la dragonessa spiccasse il volo, una vecchia si fece avanti e afferrò la caviglia di Eragon. Il giovane tentò di liberarsi, ma la stretta era tenace come una morsa di ferro. Gli ardenti occhi grigi della donna erano circondati da una fitta ragnatela di rughe; la pelle delle guance ricadeva in pieghe flosce come sacchi vuoti. Nell’incavo del braccio sinistro portava un fagotto lacero.

Spaventato, Eragon chiese: «Che cosa vuoi?»

La donna inclinò il braccio e un lembo di stoffa del fagotto si aprì, mostrando il volto di un neonato. Con voce roca e disperata, la donna implorò: «Questa bimba è orfana.,, non c’è nessuno che si prenda cura di lei, tranne me, e io sono vecchia e debole. Benedicila col tuo potere. Argetlam. Benedici la sua sorte!»

Eragon cercò Orik con lo sguardo, supplicando aiuto, ma il nano si limitò a guardarlo a sua volta, con un’espressione indecifrabile. La folla tacque, aspettando la sua risposta. Gli occhi della donna erano fissi su di lui. «Benedici questa bimba. Argetlam, benedicila» insisteva.

Eragon non aveva mai benedetto nessuno. Non era una cosa che si faceva alla leggera in Alagasëia, perché una benedizione poteva facilmente corrompersi e rivelarsi più una maledizione che un augurio, specie se pronunciata con cattivi intenti o senza convizione. Oso prendermi questa responsabilità? si chiese.

«Benedicila. Argetlam, benedicila.»

Finalmente deciso, cercò una frase o un’espressione da usare. Non gli venne in mente niente. Poi, in un lampo d’ispirazione, pensò all’antica lingua. Sì, sarebbe stata una vera benedizione, pronunciata con parole di potere, da chi aveva il potere.

Si chinò e si tolse il guanto dalla mano destra. Posò il palmo sulla fronte della neonata e disse:

«Atra giilai un ilian tauthr ono un atra ono waise skòlir fra rauthr.» Le parole lo lasciarono inaspettatamente debole, come se avesse usato la magia. Si rimise il guanto e disse alla donna:

«Questo è il massimo che posso fare per lei. Se esistono parole che hanno il potere di ostacolare la sventura, sono queste.».

«Ti ringrazio. Argetlam» mormorò la vecchia con un lieve inchino. Si accinse a ricoprire il visetto della bimba, quando Saphira sbuffò e abbassò la testa sulla piccola. L’anziana donna si irrigidì, trattenendo il fiato, Saphira sfiorò col muso la fronte della piccola, poi si rialzò lentamente. La folla emise un’esclamazione soffocata. Sulla fronte della bimba, nel punto in. cui Saphira l’aveva toccata, c’era .una macchia a forma di stella, bianca e lucente come il gedwéy ignasia di Eragon. La donna guardò Saphira con occhi umidi, colmi di gratitudine.

Saphira si alzò subito in volo, sferzando gli spettatori attoniti con lo spostamento d’aria prodotto dai suoi poderosi colpi d’ala. Mentre il terreno si allontanava sotto di loro, Eragon trasse un profondo sospiro e le abbracciò stretto il collo. Cosa hai fatto? le chiese.

Le ho dato speranza. E tu le hai dato un futuro.

Eragon si sentì travolgere da un’improvvisa solitudine, malgrado la presenza di Saphira. Quel luogo era così estraneo: per la prima volta si rese conto con dolore di quanto era lontano da casa. Una casa distrutta, ma era là che aveva lasciato il cuore. Che cosa sono diventato, Saphira? disse. Questo è il mio primo anno dell’età adulta, e già sono stato a consulto con il capo dei Varden. Galbatorix mi insegue e ho viaggiato col figlio di Morzan...e ora c’è anche chi pretende da me una benedizione!

Quale saggezza posso dare alla gente che già essa non possegga? Quali gesta posso compiere che un esercito non possa compiere meglio? È una follia! Dovrei tornare a Carvahall, da Roran.

Saphira non rispose subito, ma quando vennero, le sue parole furono gentili. Un cucciolo, ecco che cosa sei. Un cucciolo che lotta per sopravvivere nel mondo. Forse come età sono più giovane di te, ma sono molto più vecchia nei pensieri. Non preoccuparti di queste cose. Trova pace in ciò che sei e dove ti trovi. Le persone spesso sanno già cosa fare; a te spetta il compito di mostrare loro il modo... ecco la vera saggezza. E per quanto riguarda le gesta, nessun esercito avrebbe potuto dare la benedizione che hai dato tu.

Ma non era niente,protestò lui. Una sciocchezza.

No, niente affatto. Quello che hai visto è l’inizio di un’altra storia, un’altra leggenda. Credi che quella bambina si accontenterà di fare la locandiera o la contadina, quando sulla fronte reca il marchio di un drago ed è stata benedetta dalle tue parole? Tu sottovaluti i nostri poteri e quelli del destino.

Eragon chinò il capo. È troppo. Ho la sensazione di vivere dentro un’illusione, un sogno dove ogni cosa è possibile. Lo so che eventi straordinari possono succedere, ma sempre a qualcun altro, sempre in qualche luogo e qualche epoca remoti. Eppure io ho trovato il tuo uovo, sono stato addestrato da un Cavaliere e ho duellato con uno Spettro... queste non possono essere le azioni del ragazzo di campagna che sono, o che ero. Qualcosa è cambiato in me.

È il tuo wyrda che ti forgia,disse Saphira. Ogni epoca ha bisogno di un eroe... forse questa volta è toccato a te. I ragazzi di campagna non portano il nome del primo Cavaliere, di solito. Il tuo soprannome è stato il principio, e ora tu sei la continuazione. O la fine.

Ah,mormorò Eragon, scuotendo il capo. Sembra una sciarada... Ma se è tutto prestabilito, che senso hanno le nostre scelte? O dobbiamo soltanto imparare ad accettare il nostro fato?

Eragon,disse Saphira in tono grave, io ti ho scelto da dentro il mio guscio. Ti è stata concessa un’occasione per cui molti morirebbero. Sei infelice per questo? Sgombra la mente da simili pensieri. Non hanno risposta e non ti rendono più felice.

Vero,rispose lui, cupo. Tuttavia continuano a tormentarmi.

Le cose si sono... guastate... da quando Brom è morto. Anch’io provo una profonda inquietudine,ammise Saphira. Eragon fu molto sorpreso, perché di rado la dragonessa si mostrava turbata. Erano sopra Tronjheim. Eragon guardò in basso, attraverso l’apertura nel suo picco e vide il pavimento della rocca; Isidar Mithrim, il grande zaffiro stellato. Sapeva che sotto non c’era niente, se non la grande sala centrale di Tronjheim, Saphira planò silenziosa sulla roccaforte, ne superò il bordo e atterrò su Isidar Mithrim con un clangore di artigli.

Non lo graffierai, così? disse Eragon.

Non credo. Questa non è una gemma qualsiasi. Eragon si lasciò scivolare a terra e si volse lentamente tutt’intorno per ammirare l’insolito colpo d’occhio. Erano in una sala circolare, priva di tetto, alta sessanta piedi e larga altrettanto. Sulle pareti si aprivano innumerevoli, buie caverne, alcune non più grandi di un uomo, altre enormi come una casa. Nel marmo erano stati ricavati lucidi gradini perché la gente raggiungesse le grotte più alte. Un arco colossale segnava l’uscita dalla roccaforte.

Eragon esaminò la grande gemma sotto i suoi piedi e d’impulso vi si sdraiò sopra. Premette la guancia contro il freddo zaffiro e provò a guardarvi attraverso. Linee distorte e tremolanti punti colorati sfarfallavano dentro la gemma, ma il suo spessore rendeva impossibile distinguere chiaramente che cosa ci fosse sul pavimento della sala, un miglio più sotto.

Dobbiamo dormire separati?

Saphira scosse la grande testa. No, c’è un letto per te nella mia caverna. Vieni a vedere. Si volse e senza aprire le ali spiccò un balzo che la fece atterrare davanti a una grotta di media grandezza, venti piedi più in alto. Eragon si arrampicò dietro di lei.

La caverna era marrone scuro all’interno e più profonda di quanto si fosse aspettato. Le pareti rozzamente scolpite sembravano coperte da rughe naturali della roccia. Addossato alla parete di fondo c’era un enorme cuscino, in grado di ospitare Saphira accoccolata. Accanto c’era un letto incassato nella parete. La caverna era illuminata da un’unica lanterna rossa, schermata da una griglia che ne attenuava il bagliore.

Mi piace,disse Eragon. Mi sento al sicuro.

Già.Saphira si rannicchiò sul cuscino e rimase a guardarlo. Con un sospiro, Eragon si sedette sul materasso, colto da un’improvvisa stanchezza.

Saphira, non hai detto molto da quando siamo qui Che cosa pensi di Tronjheim e diAjihad?

Vedremo... A quanto pare, Eragon, siamo coinvolti in un altro tipo di conflitto, qui. Non servono spade e artigli, ma parole e alleanze. Ai Gemelli non siamo piaciuti, perciò il mio consiglio è di stare in guardia contro eventuali loro mosse. Nemmeno i nani si fidano di noi. Gli elfi non vogliono un Cavaliere umano, e così anche loro ci saranno ostili. La cosa migliore che possiamo fare è individuare coloro che detengono il vero potere e farceli amici. E alla svelta, anche.

Credi sia possibile restare indipendenti dai capi?

Saphira spostò le ali in una posizione più comoda. Ajihad sostiene la nostra libertà, ma potremmo non sopravvivere se non giuriamo la nostra lealtà a un gruppo o all’altro. Credo che lo scopriremo presto.

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