56 La prova di Arya

La mattina del terzo giorno a Tronjheim, Eragon si alzò riposato, traboccante di nuove energie. Allacciò Zar’roc alla cintura e si mise a tracolla l’arco e la faretra. Dopo un volo esplorativo con Saphira all’interno del Farthen Dùr, incontrò Orik vicino a uno dei quattro cancelli principali di Tronjheim. Eragon gli chiese di Nasuada.

«Una ragazza straordinaria» commentò Orik con un’occhiata di disapprovazione alla spada. «È profondamente devota a suo padre, e lo aiuta in ogni occasione. Credo che faccia per Ajihad più di quanto lui non sappia... ci sono state volte in cui ha manovrato i suoi nemici senza nemmeno rivelarglielo.»

«Chi è sua madre?»

«Non lo so. Ajihad era solo quando arrivò con Nasuada appena nata qui nel Farthen Dùr. Non ha mai detto da dove venivano.»

E così anche lei è cresciuta senza conoscere sua madre. Scacciò via il triste pensiero. «Mi sento in forma, ma ho bisogno di usare i muscoli. Dove devo andare per questo esame di Ajihad?»

Orik indicò il Farthen Dùr. «I campi di addestramento si trovano a mezzo miglio da Tronjheim, anche se da qui non li puoi vedere perché sono alle spalle della città-montagna. È una vasta area dove si allenano sia i nani che gli umani.»

Vengo anch’io, disse Saphira.

Eragon lo riferì a Orik, che si lisciò la barba con aria perplessa. «Forse non è una buona idea. Ci sarà parecchia gente ai campi; potreste attirare troppa attenzione.» Saphira ringhiò. Io vengo! E la questione finì lì.

Il frastuono dei combattimenti li raggiunse ancora prima che arrivassero ai campi: il clangore dell’acciaio contro l’acciaio, i sibili e i tonfi sordi delle frecce scagliate su bersagli imbottiti, i crepitii e gli schiocchi delle aste di legno, e le grida degli uomini impegnati nei duelli di allenamento. Il rumore era confuso, ma ogni gruppo seguiva il proprio ritmo e il proprio schema. La maggior parte del terreno era occupata da un folto gruppo di fanti che lottavano con scudi e alabarde alte quanto un uomo, schierati in formazione. Poco lontano si addestravano centinaia di guerrieri armati di spade, mazze, picche, bastoni, mazzafruste, scudi di ogni forma e dimensione; ce n’era uno che brandiva un forcone. Quasi tutti i combattenti indossavano cotte di maglia ed elmetti rotondi; le armature complete non erano comuni. C’erano tanti nani quanti umani, anche se i due gruppi si tenevano separati. Alle spalle dei guerrieri, una lunga fila di arcieri si allenava a scoccare frecce contro grigi pupazzi imbottiti.

Prima che Eragon avesse il tempo di chiedersi che cosa fare, un uomo barbuto, la testa e le spalle massicce coperte da un lungo cappuccio di maglia, si avvicinò a grandi passi. Il resto del suo corpo era protetto da rozzi indumenti di pelle di bue ancora coperti di peli. Una spada enorme - lunga quasi quanto quella di Eragon - gli pendeva a tracolla. L’uomo scoccò una rapida occhiata a Saphira ed Eragon, come per valutare quanto fossero pericolosi, poi borbottò: «Knurla Orik. Sei stato via un sacco. Non mi è rimasto nessuno per allenarmi.»

Orik sorrise. «Forse perché massacri tutti con quel tuo spadone mostruoso.»

«Tutti tranne te» lo corresse l’altro.

«Questo perché sono più veloce di quel gigante che sei.»

L’uomo guardò di nuovo Eragon. «Mi chiamo Fredric. Ho ricevuto l’ordine di scoprire che cosa sai fare. Quanto sei forte?»

«Forte abbastanza» rispose Eragon. «Devo esserlo, per. poter combattere con la magia.»

Fredric scosse il capo; il suo cappuccio tintinnò come un sacchetto di monete. «Qui non c’è posto per la magia. A meno che tu non abbia prestato servizio in un esercito, dubito che tu abbia combattuto per più di qualche minuto. Qui dobbiamo scoprire se sarai in grado di resistere per una battaglia lunga ore, o anche settimane, se ci sarà un assedio. Quali altre armi sai usare, oltre alla spada e all’arco?»

Eragon ci pensò. «Soltanto i pugni.»

«Bella risposta!» rise Fredric. «Bene, cominciamo con il tiro con l’arco. Quando si sarà fatto un po’ di spazio nel campo, passeremo...» S’interruppe all’improvviso, il volto corrucciato, lo sguardo fisso oltre le spalle di Eragon.

I Gemelli avanzavano impettiti verso di loro; le teste calve spiccavano pallide sopra i manti purpurei. Orik bofonchiò qualcosa nella propria lingua, mettendo mano all’ascia che teneva infilata nella cintura. «Vi ho detto di stare alla larga dai campi di addestramento» esclamò Fredric, muovendo qualche passo con aria minacciosa. In confronto al suo corpo massiccio, i Gemelli avevano l’aria di fragili fuscelli.

Lo guardarono con arroganza. «Ajihad ci ha ordinato di esaminare le capacità magiche di Eragon... prima che tu lo sfinisca a furia di roteare pezzi di metallo.»

Gli occhi di Fredric lampeggiarono di collera. «Perché non può esaminarlo qualcun altro?»

«Nessuno è abbastanza potente» sbuffarono sdegnosi i Gemelli, Saphira emise un cupo brontolio, e dalle narici le salirono spirali di fumo che i Gemelli ignorarono a bella posta. «Seguici» ordinarono a Eragon, e si diressero verso una zona deserta del campo.

Eragon si strinse nelle spalle e obbedì, seguito da Saphira. Dietro di sé, udì Fredric rivolgersi a Orik. «Dobbiamo impedire a quei due di spingersi troppo oltre.»

«Lo so» rispose Orik a bassa voce. «ma non posso ancora intervenire. Rothgar è stato chiaro: non potrà più proteggermi se succede di nuovo.»

Eragon si sforzò di tenere a bada l’apprensione. I Gemelli potevano anche conoscere più parole e tecniche, ma lui ricordava bene quello che gli aveva detto Brom: i Cavalieri sono più forti degli stregoni comuni. Sarebbe bastato questo a contrastare il potere congiunto dei Gemelli?

Non preoccuparti; ti aiuterò io, disse Saphira. Anche noi siamo in due. Eragon le sfiorò un fianco, confortato dalle sue parole.

I Gemelli lo guardarono e chiesero: «Qual è la tua risposta, Eragon?» . Senza badare alle espressioni sconcertate dei suoi compagni, Eragon si limitò a rispondere un secco no.

Rughe profonde si disegnarono agli angoli della bocca dei Gemelli. Si volsero in modo da controllare Eragon con la coda dell’occhio e si chinarono per tracciare un pentacolo sul terreno. Si misero al centro del simbolo magico e dissero, perentorii «Cominciamo subito. Dovrai compiere le azioni che ti indicheremo. Ecco tutto.»

Uno dei Gemelli frugò sotto il manto, estrasse una pietra levigata grande quanto un pugno e la posò a terra. «Sollevala all’altezza degli occhi»

Questo è facile, commentò Eragon con Saphira. «Stern reisa!» La pietra ondeggiò, poi cominciò a sollevarsi lentamente da terra; ad appena un piede di altezza, un’inaspettata resistenza la bloccò a mezz’aria. Sulle labbra dei Gemelli affiorò un sorriso beffardo. Eragon li guardò infuriato: stavano cercando di ostacolarlo! Se si fosse stancato subito, poi non sarebbe riuscito a compiere azioni più impegnative. I Gemelli erano sicuri che le loro forze combinate lo avrebbero stancato.

Ma nemmeno io sono solo, ruggì Eragon tra sé. Saphira, ora! La dragonessa unì la propria mente alla sua, e la pietra balzò in alto, fermandosi tremolante all’altezza dei loro occhi. Lo sguardo dei Gemelli trasudava veleno.

«Molto... bene» sibilarono. Fredric seguiva nervoso la dimostrazione di magia. «Ora fai muovere la pietra in circolo.» Di nuovo Eragon si trovò a combattere contro i loro sforzi di fermarlo, e di nuovo – con grande rabbia dei due - prevalse. Gli esercizi crebbero per complessità e difficoltà finché Eragon non fu costretto a scegliere con cautela le parole da usare. E ogni volta i Gemelli lo ostacolavano con tenacia, pur senza mostrare la minima traccia di tensione.

Fu solo grazie all’aiuto di Saphira che Eragon riuscì a resistere. In una brevissima pausa tra un esercizio e l’altro, le chiese: Perché insistono tanto? Avrebbero dovuto capire di che cosa siamo capaci fin da quando mi hanno scrutato la mente. La dragonessa inclinò la testa da un lato, pensierosa. Sai una cosa? disse lui in un lampo di comprensione. Credo che stiano sfruttando questa occasione per scoprire quali parole antiche conosco, e magari impararne di nuove.

Allora parla sottovoce, in modo da non farti sentire, e usa le parole più elementari.

Da quel momento in poi, Eragon pronunciò soltanto le parole più comuni per compiere gli esercizi. Ma trovare modi per farle funzionare allo stesso modo di una lunga frase richiese il suo massimo impegno. La ricompensa furono le smorfie deluse che facevano i Gemelli ogni volta che lui riusciva nel compito. Per quanto si sforzassero, non riuscirono mai a fargli usare nuove parole nell’antica lingua.

Era passata più di un’ora, ma i Gemelli non davano cenno di voler smettere, Eragon aveva caldo e una gran sete, ma non avrebbe mai dato loro la soddisfazione di chiedere una tregua. Lo sottoposero a parecchie prove: manipolazione dell’acqua, creazione e lancio di globi infuocati, cristallomanzia, giochi di destrezza con le pietre, indurimento del cuoio, congelamento di oggetti, controllo della direzione di una freccia, cura di lievi ferite. Eragon prese a domandarsi quando ancora ci voleva perché si trovassero a corto di idee.

Finalmente i Gemelli alzarono le mani e dissero: «C’è soltanto un’ultima cosa da fare. È abbastanza semplice... chiunque si ritenga esperto di magia dovrebbe riuscirci senza problemi.» Uno di loro si sfilò un anello dal dito e lo porse a Eragon. «Evoca l’essenza dell’argento.»

Eragon fissò l’anello, perplesso. Che cosa si aspettavano che facesse? Che cos’era l’essenza dell’argento? E come si evocava? Saphira non ne aveva idea, e i Gemelli si guardarono bene dal dirlo. Il ragazzo non aveva mai imparato come si dice argento nell’antica lingua, anche se sapeva che doveva far parte del nome argetlam. Preso dalla disperazione, elaborò una combinazione di ethgri, “invoca”, e arget.

Si erse in tutta la sua statura, e fece appello agli ultimi residui di potere rimasti; dischiuse le labbra per parlare, quando una voce chiara e vibrante risuonò alle sue spalle.

«Basta!»

La parola gli scivolò addosso come un rivolo d’acqua fredda, eppure aveva un che di familiare, come le note accennate di una melodia nota. Si sentì formicolare la nuca. Si volse lentamente verso la sua fonte.

Arya! Una striscia di cuoio le cingeva la fronte per tenere a bada la ricca massa di capelli neri, che le ricadevano sulle spalle come una cascata di inchiostro. Al fianco portava la spada sottile, a tracolla l’arco. Le sue forme snelle erano coperte da semplici indumenti di pelle nera, troppo modesti per una figura così bella. Era più alta della maggior parte degli uomini, e il suo portamento era perfettamente equilibrato e rilassato. Il volto immacolato non rifletteva alcuno degli orrendi abusi che aveva subito.

I suoi occhi smeraldini fissavano ardenti i due Gemelli, diventati all’improvviso ancora più pallidi per la paura. Si avvicinò con passo felpato e disse in tono calmo e minaccioso: «Vergogna! Gli avete chiesto qualcosa che soltanto un maestro è in grado di fare. Vergogna! I vostri metodi sono vili e meschini. Vergogna! Avete detto ad Ajihad che non conoscete le capacità di Eragon, pur sapendo che è molto competente. Ora andatevene!» Arya aggrottò la fronte con fare minaccioso, le sopracciglia oblique aggrottate come due saette convergenti, e indicò l’anello nella mano di Eragon.

«Arget!» esclamò con voce decisa.

L’argento scintillò, e un’immagine spettrale dell’anello si materializzò accanto a esso. Erano identici, anello e immagine, ma l’apparizione sembrava più pura e scintillava come metallo incandescente. A quella vista, i Gemelli si voltarono e si allontanarono in fretta, i mantelli svolazzanti sopra i calcagni. L’anello immateriale svanì dalla mano di Eragon, lasciando dietro di sé soltanto il circoletto d’argento. Orik e Fredric si irrigidirono, guardando Arya con sospetto. Saphira si accovacciò, pronta a scattare.

L’elfa li squadrò uno per uno. I suoi occhi obliqui si soffermarono su Eragon. Poi si volse e s’incamminò verso il centro del campo di addestramento. I guerrieri cessarono di allenarsi e la fissarono a bocca aperta. Sul campo aleggiava un silenzio carico di timore reverenziale.

Eragon la seguì, inesorabilmente attratto dal suo fascino. Saphira gli parlò, ma lui rimase sordo ai suoi commenti. Intorno all’elfa si formò un fitto capannello di gente, ma lei, giunta al centro del campo, si voltò, guardò soltanto Eragon negli occhi ed esclamò: «Rivendico il diritto di misurarmi con te. Sfodera la spada.»

Vuole duellare con me!

Ma non desidera farti del male, credo, osservò Saphira, esortandolo con una lieve spinta del nuiso.

Vai e fatti onore. Io resterò a guardare.

Eragon fece un timido passo avanti, accettando a malincuore la sfida. Si sentiva esausto dopo tutte le magie evocate per i Gemelli, e soprattutto esposto allo sguardo di tanti spettatori. Per giunta. Arya non poteva essere in condizioni di duellare: erano passati soltanto due giorni da quando aveva preso il Nettare di Tunivor. Smorzerò i colpi per non farle male, si disse.

Si fronteggiarono al centro della cerchia di guerrieri. Arya impugnò la spada con la sinistra. L’arma era più sottile di quella di Eragon, ma altrettanto lunga e affilata. Il giovane estrasse Zar’roc dal lucido fodero e mantenne la lama rossa puntata verso il basso. Per un lungo istante rimasero immobili, elfa e umano, a studiarsi a vicenda. A Eragon balenò in mente il ricordo dei tanti duelli con Brom.

Avanzò cauto. Con uno scatto fulmineo, invece. Arya si lanciò verso di lui, mirando alle costole. Eragon parò il colpo d’istinto, e le loro lame cozzarono creando una pioggia di scintille. Zar’roc schizzò da un lato come una mosca infastidita. L’elfa non approfittò della breccia nella difesa dell’avversario, ma piroettò a destra, i lunghi capelli fluttuanti, e cercò di colpire l’altro fianco. Eragon riuscì a stento a parare il colpo e indietreggiò frenetico, sbalordito dalla ferocia e dalla velocità dell’elfa.

Troppo tardi ricordò gli ammonimenti di Brom, secondo il quale anche l’elfo più debole poteva facilmente sconfiggere un umano. Aveva le stesse probabilità di sconfiggere Arya che aveva avuto con Durza. Lei attaccò ancora, questa volta mirando alla testa. Lui si abbassò sotto la lama affilata come un rasoio. Ma allora perché lei stava… giocando con lui? Per qualche secondo fu troppo impegnato a difendersi per capire, poi comprese: Vuole scoprire quanto sono bravo.

A quel punto cominciò a esibirsi nella più complicata serie di attacchi che conosceva. Passava da una posizione all’altra, modificandole e ricombinandole in ogni modo possibile. Ma per quanta inventiva dimostrasse, la spada di Arya era sempre lì a bloccare la sua. Contrastava ogni sua azione con grazia disinvolta.

Impegnati in una danza feroce, i loro corpi si univano e si separavano al ritmo delle spade. A volte quasi si toccavano, i muscoli tesi ad appena un soffio di distanza, ma poi lo slancio stesso li divideva, facendoli volteggiare per poi incontrarsi ancora. Le loro forme si allacciavano e si separavano come spirali di fumo sospinte dal vento.

Eragon non avrebbe mai potuto dire quanto durò il duello. Sembrava che il tempo si fosse dissolto per lasciare spazio soltanto ad azione e reazione. Zar’roc diventava sempre più pesante e i muscoli del braccio gli bruciavano a ogni colpo. Alla fine, mentre lui tentava un affondo. Arya si spostò appena di lato e la punta della sua spada si posò sullo zigomo di Eragon con una rapidità sovrannaturale.

Eragon s’impietrì quando sentì il gelido metallo a contatto con la pelle. I muscoli gli tremavano per lo sforzo. A stento si accorse del cupo brontolio emesso da Saphira e delle acclamazioni rauche dei guerrieri in circolo. Arya abbassò la spada e la ripose nel fodero. «Hai superato la prova» disse con somma calma in mezzo al fracasso.

Frastornato, Eragon raddrizzò la schiena lentamente.

Fredric era di fianco a lui e gli dava grandi pacche sulle spalle. «Un capolavoro di scherma! Ho perfino imparato qualche nuova mossa, guardando voi due. E l’elfa... meravigliosa!»

Ma ho perso, protestò lui in silenzio. Orik si complimentò con un largo sorriso ma Eragon non aveva occhi che per Arya, immobile e silenziosa. Lei mosse appena un dito verso una collinetta a circa un miglio dal campo di addestramento, poi si volse e si allontanò. La folla si divise in due ali di umani e nani ammutoliti, per lasciarla passare.

Eragon si rivolse a Orik. «Devo andare. Più tardi tornerò sulla rocca.» Rinfoderò Zar’roc e salì in groppa a Saphira. La dragonessa si alzò in volo sul campo, che si trasformò in un mare di facce tutte rivolte verso di lei. .

Mentre volavano verso la collinetta, Eragon vide Arya correre sotto di loro con passi lievi e agili. Saphira commentò: La trovi attraente, vero?

, ammise lui, e arrossì.

Il suo viso ha più carattere di quello della maggior parte degli umani, sbuffò lei, ma è troppo lungo, sembra quello di un cavallo, e nel complesso è troppo esile e piatta.

Eragon guardò Saphira stupito. Sei gelosa!.

Impossibile. Non sono mai gelosa, ribattè lei, offesa.

In questo caso sì, ammettilo! rise lui.

La dragonessa fece schioccare le fauci. No che non lo sono! Eragon sorrise e scrollò il capo, ma preferì non insistere. Saphira atterrò bruscamente sul poggio, facendolo sobbalzare in malo modo, Eragon scivolò a terra senza commentare.

Arya arrivò poco dopo; Eragon non aveva mai visto nessuno correre così veloce e senza sforzo. Quando arrivò in cima alla collinetta, l’elfa respirava tranquillamente, come se avesse fatto una passeggiata. D’improvviso a corto di parole, Eragon abbassò lo sguardo. Lei gli passò accanto e si rivolse a Saphira. «Skulblaka, eka celòbra Ono un mulabra ono un onr Shur’tugal né haina. Atra nosu waìse fricai.»

Eragon non riconobbe la maggior parte delle parole, ma Saphira evidentemente comprese il messaggio, perché fece frullare le ali e squadrò Arya con espressione curiosa. Poi annuì, mormorando di gola. Arya sorrise. «Sono felice di vedere che ti sei ripresa» disse Eragon. «Non sapevamo se saresti sopravvissuta.»

«Ecco perché sono venuta qui oggi» disse lei, voltandosi. La sua voce morbida aveva un forte accento esotico, e vibrava appena come se fosse sul punto di mettersi a cantare. «Sono in debito con te. Mi hai salvato la vita. Non lo dimenticherò mai.»

«Non... non è stato niente» balbettò Eragon imbarazzato, pur sapendo che non era vero. Si affrettò a cambiare discorso. «Come sei finita a Gil’ead?»

Il volto di lei fu attraversato da un’ombra di dolore, e l’elfa distolse lo sguardo. «Vieni, camminiamo.» Scesero dal poggio e si addentrarono nel Farthen Dùr. Eragon rispettò il silenzio di Arya mentre passeggiavano. Saphira li seguiva. Infine Arya alzò la testa e parlò con la grazia della sua razza: «Ajihad mi ha detto che eri presente quando è apparso l’uovo di Saphira.»

«Sì.» Per la prima volta, Eragon si rese conto dell’energia che doveva essere stata necessaria per trasportare l’uovo per le decine di leghe che separavano la Du Weldenvarden dalla Grande Dorsale. Anche solo tentare un simile gesto voleva dire andare incontro al disastro, se non alla morte. Le parole dell’elfa furono gravi. «Allora sappi una cosa: nel momento stesso in cui lo raccoglievi, io venivo catturata da Durza.» La sua voce era carica di amarezza e dolore. «Era lui a comandare gli Urgali che mi tesero l’agguato e uccisero i miei compagni. Faolin e Glenwing. Chissà come sapeva dove aspettarci... non eravamo preparati. Mi drogarono e mi portarono a Gil’ead. Lì Durza fu incaricato da Galbatorix di scoprire dove avevo mandato l’uovo e tutto ciò che sapevo di Ellesméra.»

I suoi occhi erano di ghiaccio, la mascella serrata. «Durza tentò in tutti i modi, per mesi, senza successo. Quando non ci riuscì nemmeno con la tortura, ordinò ai suoi soldati di usarmi a loro piacere. Per fortuna ebbi ancora la forza per annebbiare le loro menti e renderli incapaci. Infine Galbatorix ordinò di portarmi a Urù’baen. A questa notizia ebbi davvero paura, perché ero troppo debole nel corpo e nella mente per resistergli. Se non fosse stato per te, sarei finita davanti a Galbatorix nel giro di una settimana.»

Eragon rabbrividì. Era sorprendente sapere a che cosa era sopravvissuta. Il ricordo delle sue ferite era ancora vivido nella sua memoria. Dolcemente, chiese: «Perché mi dici tutto questo?»

«Perché tu sappia da che cosa mi hai salvata. Non credere che possa ignorare il tuo gesto.»

Eragon chinò la testa umilmente. «Che cosa farai adesso... tornerai a Ellesméra?»

«No, non subito. C’è tanto da fare, qui. Non posso abbandonare i Varden. Ajihad ha bisogno del mio aiuto. Oggi ti ho visto alla prova sia con le armi che con la magia. Brom ti ha insegnato bene. Sei pronto per proseguire il tuo addestramento.»

«Vuoi dire a Ellesméra?»

«Sì.»

Eragon avvertì una punta dì irritazione. Lui e Saphira non avevano dunque voce in capitolo?

«Quando?»

«Questo si deve ancora decidere, ma comunque non prima di qualche settimana.»

Almeno ci danno altro tempo, pensò Eragon, Saphira gli disse qualcosa, e lui a sua volta chiese ad Arya: «Che cosa volevano da me i Gemelli?»

Le labbra ben disegnate di Arya si curvarono in una smorfia. «Qualcosa che nemmeno loro sanno fare. È possibile pronunciare il nome di un oggetto nell’antica lingua ed evocarne l’essenza. Ci vogliono anni di esercizio e grande disciplina, ma la ricompensa è il totale controllo sugli oggetti. Ecco perché il vero nome di ciascuno è tenuto segreto, perché se fosse noto a un individuo malvagio, potrebbe dominarti.»

«È strano» disse Eragon dopo un istante. «ma prima di essere catturato a Gil’ead, ti ho vista più di una volta in sogno. Era come la divinazione... e in seguito sono stato in grado di vederti.,. ma sempre durante il sonno.»

Arya strinse le labbra, pensierosa. «C’erano momenti in cui avvertivo un’altra presenza accanto a me, ma ero spesso confusa e febbricitante. Non ho mai sentito parlare, né nelle leggende né nella storia, di qualcuno capace di divinare nel sonno.»

«Nemmeno io capisco» disse Eragon, guardandosi le mani. Si rigirò l’anello di Brom intorno all’indice. «Che cosa significa il tatuaggio che hai sulla spalla? Sai, non avevo intenzione di vederlo, ma stavo curando le tue ferite... non ho potuto farne a meno. È uguale al simbolo su quest’anello.»

«Hai un anello con lo yawé?» esclamò lei, incredula.

«Sì. Era di Brom. Vedi?»

Le porse l’anello. Arya esaminò lo zaffiro, poi disse lentamente: «È un pegno dato soltanto ai più preziosi amici degli elfi…tanto prezioso, in effetti, che non si usa da secoli. O almeno, così credevo. Non ho mai saputo che la regina Islandazi avesse una così alta considerazione di Brom.»

«Allora non dovrei portarlo» disse Eragon, temendo di apparire presuntuoso.

«No, tienilo, invece. Ti darà protezione se dovessi imbatterti nel mio popolo, e potrebbe aiutarti a conquistare i favori della regina. Non dire a nessuno del mio tatuaggio. È un segreto da non rivelare.»

«D’accordo.»

Parlare con Arya gli piacque immensamente, e avrebbe voluto che la conversazione durasse di più. Quando si separarono, Eragon continuò a passeggiare nel Farthen Dùr, chiacchierando con Saphira. Malgrado le sue insistenze, la dragonessa si rifiutò di raccontargli che cosa le aveva detto Arya. Alla fine rivolse i suoi pensieri a Murtagh e a quanto gli aveva suggerito Nasuada. Mangerò qualcosa e poi andrò a fargli visita, decise. Mi aspetti? Così torniamo insieme sulla rocca.

Ti aspetto... vai, rispose Saphira.

Con un sorriso riconoscente, Eragon corse a Tronjheim, pranzò nell’angolo buio di una cucina, poi seguì le istruzioni di Nasuada fino a raggiungere una piccola porta grigia, sorvegliata da un umano e da un nano. Quando chiese di entrare, il nano bussò tre volte alla porta, poi aprì la serratura. «Basta che tu ci dia una voce quando vorrai uscire» disse l’uomo con un sorriso amichevole.

La cella era calda e bene illuminata, con un tavolino e una brocca in un angolo e uno scrittoio, con tanto di penne e inchiostro, nell’altro. Il soffitto era decorato da figure di lacca; il pavimento coperto da un folto tappeto. Murtagh era disteso su un solido letto, intento a leggere una pergamena. Alzò gli occhi sorpreso ed esclamò allegro: «Eragon! Ci contavo proprio, che venissi!»

«Come.,. voglio dire, pensavo... »

«Pensavi che mi avessero gettato in chissà quale buco fetido a masticare gallette» disse Murtagh, alzandosi a . sedere con un sogghigno. «A dire il vero, mi aspettavo la stessa cosa, ma. Ajihad mi ha concesso questi lussi purché me ne stia buono. E mi portano anche una quantità enorme di cibo, e mi danno tutti i libri che chiedo. Se non sto attento, mi trasformerò in un grasso topo di biblioteca.»

Eragon rise e sedette accanto a lui. «Ma non sei arrabbiato? In fondo sei prigioniero.»

«Oh, all’inizio lo ero» ammise Murtagh con una scrollata di spalle. «Ma più ci pensavo, più mi rendevo conto che meglio di così non potevo stare. Se anche Ajihad mi avesse lasciato libero, avrei passato la maggior parte del tempo in camera mia.»

«Perché?»

«Lo dovresti capire. Nessuno si sarebbe sentito a suo agio con me nei dintorni, sapendo chi sono, e la gente mi avrebbe guardato storto, mormorando malignità. Ma ora basta parlare di questo: sono ansioso di conoscere le novità. Avanti, racconta.»

Eragon gli riferì gli eventi degli ultimi due giorni, compreso il suo incontro con i Gemelli nella biblioteca. Quando ebbe terminato, Murtagh poggiò indietro la schiena per riflettere. «Sospetto» disse «che Arya sia più importante di noi due messi insieme. Considera quanto hai saputo: è una maestra di scherma, esperta di magia, e, cosa ancora più importante, è stata scelta per sorvegliare l’uovo di Saphira. Non può essere un personaggio comune, nemmeno tra gli elfi.»

Eragon concordò.

Murtagh fissò il soffitto. «Sai, trovo questa prigionia stranamente confortante. Per una volta nella mia vita non devo temere niente. So che dovrei... eppure questo posto mi fa sentire in pace. E un buon sonno la notte aiuta.»

«Capisco quello che intendi» disse Eragon amaramente. Si spostò in un punto più comodo del letto.

«Nasuada ha detto che ti è venuta a trovare. Ha detto qualcosa di interessante?»

Lo sguardo di Murtagh si perse nel vuoto. Poi il giovane scosse il capo. «No, voleva soltanto conoscermi. Non pare una principessa? E il suo portamento! Quando è comparsa sulla soglia, per un attimo mi è sembrata una delle dame di corte di Galbatorix. Ho visto mogli di conti e duchi che al suo confronto sembrano più adatte a un porcile che alla nobiltà.»

Eragon lo ascoltò infervorarsi con crescente apprensione. Potrebbe non voler dire nulla, si disse.

Stai saltando alle conclusioni. Eppure quella sensazione inquietante non lo abbandonava. Cercando di liberarsene, chiese: «Quanto pensi di restare, chiuso qui, Murtagh? Non puoi nasconderti per sempre.»

Murtagh fece un vago gesto noncurante, ma le sue parole furono dense di significato. «Per ora sono contento di come sto e di poter riposare. Non c’è ragione di cercare asilo altrove, né di sottomettermi all’esame dei Gemelli. Non dubito che alla fine mi stancherò di tutto questo, ma per adesso... sto bene.»

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