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Un nuovo settore di spazio… e per giunta un settore apertosi inaspettatamente. Keith e Rissa corsero verso il ponte e vi entrarono dal boccaporto laterale, il che significava passare accanto a Lianne Karendaughter. Brillante (dottorato di ricerca in ingegneria elettrica al Mit), bella (delicati lineamenti asiatici, chioma color platino trattenuta da forcine dorate) e giovane, Lianne si era unita alla Starplex appena sei settimane prima, dopo essersi distinta per l’ottimo servizio prestato come ingegnere capo su un grande incrociatore commerciale. Quando Keith le passò davanti gli fece un sorriso… un sorriso radioso, una supernova di sorriso. Keith sentì un senso di vuoto allo stomaco.

Apparentemente il ponte della Starplex non aveva né pareti né pavimento né soffitto. Era imbozzolato in un ologramma sferico che rappresentava lo spazio intorno alla nave, cosicché i computer sembravano fluttuare tra le stelle. In realtà era una stanza rettangolare, e in ciascuna parete si apriva una porta resa invisibile dal panorama cosmico. Quando Keith e Rissa aprirono quella di mezzo, facendola scorrere lateralmente, fu come se lo spazio stesso si aprisse, rivelando corridoi che lo perforavano. Apparentemente a mezz’aria, ma in realtà appesi alle pareti appena sopra le porte, c’erano terzetti di orologi luminosi che segnavano il tempo secondo le convenzioni dei tre mondi.

Keith e Rissa si affrettarono verso i loro computer, correndo apparentemente nello spazio vuoto.

I computer del ponte erano disposti in due file, ciascuna con tre postazioni. Quello del direttore si trovava al centro della seconda fila. La prima fila era costantemente occupata, mentre le postazioni posteriori venivano usate solo in caso di necessità: Jag, Keith e Rissa svolgevano la maggior parte del lavoro nei loro uffici personali. Uno dei monitor di Keith mostrava costantemente lo schema del personale autorizzato a usare le postazioni computerizzate del ponte. Nella prima fila era di turno la squadra alfa:


Operazioni interne

Lianne Karendaughter


Timone

Thorald Magnor


Operazioni esterne

Rombo


Scienze fisiche

Jag Kandaro em-Pelsh


Direttore

Keith Lansing


Scienze biologiche

Clarissa Cervantes


Chi dirigeva le operazioni interne aveva la responsabilità di ogni attività di bordo, incluse le operazioni ingegneristiche. Nella parte opposta della stanza c’era il suo naturale complemento, il dirigente delle operazioni esterne, che sovrintendeva alle attività dei moli d’attracco e alle missioni delle 54 astronavi assortite che vi si trovavano. Alla sinistra di Keith c’era la postazione di Jag, capo dei fisici, alla sua destra un altro naturale complemento: Rissa, capo dei biologi.

Dal momento che gli esperimenti di fisica erano condotti perlopiù a bordo della nave, era logico che la postazione delle operazioni interne fosse di fronte a quella delle scienze fisiche. In tal modo, a Lianne era sufficiente voltarsi, oppure far ruotare il computer posto su una pedana girevole, per avere uno scambio di opinioni con Jag. Allo stesso modo, la maggior parte del lavoro dei biologi veniva condotto ben lontano dalla nave-madre, e Rombo delle operazioni esterne era nella posizione migliore per consultarsi con Rissa (essendo un ib, Rombo aveva una vista a 360 gradi e non doveva nemmeno girarsi per vederla).

Allo scopo di rendere ancor più facile la comunicazione, gli ologrammi in tempo reale alti dieci centimetri delle teste di Lianne e Thor, nonché quello a figura intera di Rombo, fluttuavano costantemente oltre il bordo delle consolle di Jag, Keith e Rissa. Parallelamente, sulle tre postazioni di prima fila erano sospesi gli ologrammi dei tre occupanti della seconda fila.

Da una parte e dall’altra della stanza c’erano due grandi vasche, coperte da campi di forza per trattenere l’acqua, e ciascuna postazione computerizzata poteva essere azionata dai delfini che si trovavano nelle vasche. Dietro le postazioni con i computer c’erano nove sedie multiforma destinate agli osservatori.

Keith vide Jag entrare dalla porta di tribordo. Il waldahud attraversò il campo stellare muovendosi a passettini sulle tozze gambe arcuate, con le quattro braccia rigide lungo i fianchi. Jag indossava due soli capi d’abbigliamento, scelti per la loro praticità: una cintura cui erano appese varie sacche e una fascia dotata di tasca avvolta intorno al braccio superiore sinistro. A parte la folta pelliccia, quell’impossibile creatura era praticamente nuda, anche se Keith moriva di freddo. Le aree comuni della nave erano mantenute a 15 gradi, il che equivaleva a un torrido pomeriggio estivo su Rehbollo. Quando Keith aveva lasciato l’appartamento si era quasi aspettato di vedere il suo fiato fare le nuvolette.

Non appena Jag sedette, i suoi due monitor si configurarono come rettangoli con base uguale a metà dell’altezza. Il waldahud poteva tenerne sotto controllo due contemporaneamente, uno con i due occhi verticali di sinistra e uno con i due occhi verticali di destra. Come gli umani, i waldahudin avevano cervelli a due lobi, ma in loro ciascun emisfero era in grado di elaborare una completa immagine tridimensionale.

L’espressione di Jag non tradiva alcuna emozione… anche se Keith non sarebbe stato comunque in grado di decifrarne il significato. A quanto pareva, il loro alterco di un’ora prima era stato del tutto dimenticato. Ovvio, si disse Keith. Non era stato che pura routine, almeno per uno dei due.

Scosse la testa e si girò. Thorald Magnor, alla postazione del Timone, era un gigantesco umano di quasi cinquant’anni, con una spavalda barba rossa. Alle operazioni esterne, la multisedia era stata riassorbita nel pavimento, e la consolle aveva accorciato le smilze gambette per adattarsi al nuovo utente. Rombo, come tutti gli ib, sembrava una sedia a rotelle di cemento, con un’anguria sul sedile.

Uno dei monitor di Keith mostrava già il rapporto di CITA, il Calcolatore iperspaziale e telescopio astrofisico, sulla scorciatoia appena attivata. L’uscita si trovava nel Braccio di Perseo, a circa 90 mila anni luce dalla loro posizione. Le notizie finivano qui, a parte il fatto che qualcosa doveva averla attraversata di recente per attivarla. Che cosa fosse quel qualcosa e in quale punto della rete fosse finito era un’ipotesi che nessuno osava azzardare.

«Tutti in ascolto» disse Keith. «Cominceremo con una sonda standard di classe alfa. Thor, portaci a venti chilometri dalla scorciatoia.»

«Dammi un paio di secondi, capo» rispose Thor. Keith vedeva simultaneamente la faccia simulata di Thor nell’ologramma in miniatura e la sua nuca, autentica, nella postazione davanti alla propria. La faccia era larga e squadrata, barba e capelli erano lunghi e scomposti. Una volta, nell’appartamento di Thor, Keith aveva visto un elmo vichingo… l’ideale, per lui. «Abbiamo una nave sonda sul punto di attraccare.»

Un istante più tardi, la rete di sensori di Rombo lampeggiò. «È mio piacere annunciare che la Marc Garneau è ora ormeggiata al molo 8» disse con voce dall’accento britannico all’orecchio di Keith. Per convenzione, le voci waldahud erano tradotte con accento vecchia New York, mentre agli ib erano assegnate inflessioni britanniche. Serviva a facilitare l’immediata identificazione di chi aveva parlato, perché le voci tradotte arrivavano tutte dalla stessa fonte, l’impianto cocleare dell’ascoltatore.

«Okay, capo» disse Thor. «Si parte.» Poco più avanti, Keith vedeva le grandi mani di Thor danzare sui comandi. Il panorama cosmico che circondava il ponte cominciò a muoversi. Le stelle tornarono immobili dopo circa cinque minuti. «Come richiesto, capo» disse la voce di Thor. «Ventimila metri dalla scorciatoia: non uno di più, non uno di meno.»

«Grazie» disse Keith. «Rombo, puoi lanciare la sonda.»

I tentacoli di Rombo, simili a corde, schioccarono sulla consolle come frustate sulla schiena di un servo recalcitrante. La sua rete di sensori lampeggiò. «Sarà un piacere.»

Un diagramma della sonda apparve su uno dei monitor di Keith: un cilindro argenteo largo un metro e lungo quattro, con la superficie ingombra di sensori, scanner, telecamere e CCD. La sonda era dotata di un semplice propulsore, con quattro gruppi di razzi per le correzioni di rotta: un iperpropulsore costava troppo per rischiarlo su una sonda che poteva anche non ritornare.

La sonda accelerò in un tubo guidamassa, che attraversava uno dei moduli abitativi superiori della Starplex e non appena fu nello spazio tutti i membri dell’equipaggio che si trovavano sul ponte videro il luccichio dei suoi propulsori sulla sfera olografica che li circondava. La sonda ruotava sul suo asse per esporre l’intero panorama celeste a ciascuno dei suoi strumenti.

La sonda non aveva alcun obiettivo evidente… non ancora, per lo meno, ma la sua rotta era stata calcolata in modo tale da farle imboccare la scorciatoia con l’esatta angolazione specificata da CITA. Quando vi entrò, la sonda sembrò svanire, inghiottita da un sottile anello di fuoco violetto.

«Mi si permetta di osservare che il passaggio nella scorciatoia è avvenuto come di norma» fece rapporto Rombo con il suo rotondo accento oxfordiano.

Cominciò l’attesa. Ciascuno esprimeva a suo modo la tensione: Lianne, alle operazioni interne, tamburellava con le unghie smaltate sul bordo della consolle; le luci della rete di Rombo lampeggiavano senza formare pittogrammi coerenti, segno di semplice agitazione mentale; Jag si tormentava la pelliccia e sfregava luna sull’altra le traslucide placche dentali, producendo un appena avvertibile effetto gesso-sulla-lavagna; Keith si alzò e cominciò a passeggiare; Rissa si teneva occupata riordinando i file sul computer. Soltanto l’imperturbabile Thorald Magnor sembrava tranquillo, stravaccato com’era sulla sedia, con i piedi appoggiati alla consolle e le mani intrecciate sulla criniera arancione all’altezza della nuca.

Malgrado l’atteggiamento di Thor, tuttavia, c’era davvero motivo di preoccupazione. Dieci anni prima, un “boomerang” lanciato da Tau Ceti aveva raggiunto il bersaglio: una scorciatoia dormiente, nei pressi di Tejat Posterior, una stella di classe M3 nella costellazione dei Gemelli. Quel “boomerang” non era mai tornato a Tau Ceti. Al suo posto, proprio nel momento in cui sarebbe dovuto rientrare, dalla scorciatoia di Rehbollo era stata sparata una levigata sfera di metallo. Le successive analisi stabilirono che quella sfera era tutto ciò che rimaneva della sonda, dopo che qualche fenomeno sconosciuto aveva sommariamente smantellato tutti i suoi legami molecolari interni.

La parola “fenomeno” era stata scelta deliberatamente per i rapporti ufficiali, quelli che erano stati resi pubblici, ma erano in pochi a credere che un simile risultato potesse derivare da un processo naturale… anche considerando l’eventualità che la scorciatoia di Tejat Posterior portasse diritto nel nucleo di una stella. Gli ipotetici responsabili vennero soprannominati Sbattiporta, perché avevano metaforicamente sbattuto la porta delle stelle sulla faccia collettiva del Commonwealth.

Ulteriori sonde iperspaziali, fornite di pesanti armature, erano state subito inviate verso Tejat Posterior (da porte d’entrata ben lontane dai mondi originari del Commonwealth), ma al loro arrivo mancavano ancora due anni. Fino a quel momento, il mistero degli Sbattiporta non aveva avuto soluzione… ma c’era sempre il timore che un loro rappresentante potesse sbucare da qualche scorciatoia.

«Registro con sollievo un impulso tachionico» annunciò Rombo.

Keith tirò un sospiro di sollievo. Non si era reso conto di aver trattenuto il fiato per tutto quel tempo. L’impulso significava che qualcosa stava per arrivare dalla scorciatoia: la sonda era di ritorno. Tutti fissarono la scorciatoia crescere da un punto infinitesimo a un cerchio di un metro con un contorno violetto. L’oggetto cilindrico ne venne espulso come un tappo di bottiglia. Keith fece un lieve cenno di assenso: la sonda sembrava indenne. Fece manovra per dirigersi verso la Starplex, il che significava che i suoi sistemi elettronici erano in funzione, e s’infilò nel tubo di lancio raggiungendo il suo ormeggio. Le venne attaccato il cordone ombelicale e i dati in essa immagazzinati furono scaricati a Phantom, il computer centrale della Starplex.

«Diamo un’occhiata» disse Keith, e Rombo subito lo accontentò, sostituendo l’ologramma sferico dello spazio esterno alla Starplex con ciò che la sonda aveva visto all’altra estremità della scorciatoia. Sulle prime sembrò semplice spazio con diverse costellazioni. Ci furono alcuni brontolii di disappunto. C’era sempre la speranza di vedere un’astronave, un vascello della razza che aveva portato in vita la scorciatoia.

Jag scese dalla sedia e fece il giro della sala fino a trovarsi di fronte alle due file di computer. Ruotò sugli zoccoli, scrutando in tutte le direzioni l’ologramma, poi cominciò a esporre ciò che era evidente a tutti. «Ebbene» disse la voce tradotta, con l’accento di Brooklyn che sovrastava i latrati «sembra un normale spazio interstellare. Proprio ciò che ci si può aspettare dal Braccio di Perseo: un gran numero di stelle azzurre, non troppo ammassate.» Si interruppe e indicò un punto del cielo. «La vedete questa banda luminosa? Siamo sul bordo interno del Braccio di Perseo e dietro c’è il Braccio di Orione. Da qui non sono visibili né Galath né Hotspot, ma con un telescopio potremmo vedere il Sole.»

Si sentirono gli zoccoli neri ticchettare sul pavimento invisibile mentre Jag cominciava la circumnavigazione del ponte. «L’unica stella abbastanza brillante da appartenere alla sequenza principale è probabilmente quella.» Indicò un puntino biancazzurro, che era effettivamente più luminoso della media. «Tuttavia non c’è segno di un disco visibile, quindi ci troviamo almeno a miliardi di chilometri di distanza. Potremmo ovviamente inviare un paio di sonde a fare un test di parallasse per misurare la distanza, quando saremo al di là della scorciatoia, anche se non considero una stella di classe A come un candidato probabile per avere pianeti abitabili. Tuttavia, mi sembra un posto buono come un altro per dare avvio alla ricerca degli esseri che hanno attivato l’uscita.»

«Dunque ritieni che potremmo andare dall’altra parte in tutta sicurezza?» domandò Keith.

Il waldahud si girò e lo fissò. I due occhi di sinistra ammiccarono. «Non c’è segno di pericolo immediato» rispose. «In seguito controllerò gli altri dati della sonda, ma quest’area sembra… be’, semplice spazio.»

«D’accordo, allora proviamo a…»

«Un attimo» lo interruppe Jag, con lo sguardo fisso su una porzione dell’ologramma che si trovava alle spalle di Keith. Il waldahud andò verso il direttore e lo oltrepassò, arrivando alle sedie oltre la sua postazione. «Un attimo» ripeté. «Rombo, quanto tempo di registrazione dell’ologramma è rimasto?»

«Devo ammettere con desolazione che abbiamo esaurito già da due minuti la registrazione in tempo reale» rispose l’ib dalla consolle delle operazioni esterne. «Dopodiché ho fatto ripartire la registrazione.»

Jag si avvicinò alla parete… era un po’ come fare due o tre passi verso una montagna lontana, sperando di riuscire a vederla meglio. Scrutò nel buio. «Quel punto laggiù» disse, facendo un movimento circolare col braccio superiore sinistro per indicare un’ampia sezione del campo stellare. «C’è qualcosa di strano… Rombo, accelera la registrazione. Mandala di seguito, senza interruzioni, a dieci volte la velocità normale.»

«Ti assecondo senza esitazione» disse Rombo, con uno schiocco di frusta.

«È impossibile» esclamò Thor, che si era girato per guardare a sua volta. Fece per alzarsi dalla postazione del Timone.

«Invece è proprio così» disse Jag.

«Che c’è?» domandò Keith.

«Guarda tu stesso» ribatté Jag.

«Vedo solo un ammasso di stelle che tremolano.»

Jag alzò le spalle superiori, nel gesto waldahud che significava conferma. «Appunto. Proprio come in una limpida notte invernale sulla tua mirabile Terra, senza dubbio. A parte il fatto che le stelle non tremolano, quando sono viste dallo spazio» disse.

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