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I progettisti della Starplex avevano previsto che l’ufficio del direttore dovesse trovarsi accanto al ponte di comando, ma Keith aveva insistito per spostarlo. Il direttore, secondo lui, doveva essere visto in tutta la nave, non soltanto in un settore isolato. Alla fine aveva scelto una stanza quadrata di circa quattro metri per lato, situata sul ponte 14, a metà di una delle facce triangolari del modulo abitativo 2. Da una parete a vetri si scorgeva il modulo 3, perpendicolare a quello in cui si trovava lui, oltre a una fetta larga 90 gradi del cerchio color rame che costituiva il disco centrale della Starplex, sedici piani più in basso. Su quella parte del soffitto era riportato il nome della Starplex negli squadrati caratteri della lingua waldahudar.

Keith sedeva dietro una grande scrivania rettangolare, fatta di autentico mogano. Sopra c’erano i ritratti olografici di sua moglie Rissa, in un esotico abbigliamento da antica danzatrice spagnola, e del figlio Saul che sfoggiava una maglietta di Harvard e quella strana barbetta caprina allora di moda tra i giovani. Accanto agli ologrammi c’era un modello della Starplex in scala 1:600. Dietro alla scrivania, su una cassettiera, trovavano posto i globi della Terra, di Rehbollo e di Flatlandia, accanto a una classica tavola da gioco go, con i pezzi fatti di lucida madreperla bianca e di ardesia. Sopra il comò campeggiava la riproduzione incorniciata di un quadro di Emily Carr, che rappresentava un totem degli indiani Haida nella foresta di una delle Isole della regina Carlotta. Ai lati della cassettiera c’erano due grandi piante in vaso. L’arredamento della stanza era completato da un divano, tre sedie multiforma e un tavolino.

Keith si era tolto le scarpe e aveva appoggiato i piedi alla scrivania. Non imitava mai Thor quando era sul ponte, ma quando era solo si metteva spesso in quella posizione. Appoggiato allo schienale della poltroncina nera stava leggendo un rapporto sui segnali individuati da Hek quando un cicalino suonò.

“Jag Kandaro em-Pelsh è alla porta” annunciò Phantom.

Keith sospirò, tolse i piedi dal tavolo e fece con una mano il gesto “fallo entrare”. La porta rientrò nella parete e Jag si fece avanti. Dopo un attimo le narici del waldahud cominciarono a fremere, e Keith temette che Jag avesse sentito l’odore dei suoi piedi. «Che cosa posso fare per te, Jag?»

Il waldahud toccò lo schienale di una multisedia, che subito si configurò secondo la forma di Jag, poi sedette e cominciò ad abbaiare. La voce tradotta disse: «Ben pochi dei vostri personaggi letterari mi piacciono. Uno di questi è Sherlock Holmes.»

Keith sollevò un sopracciglio. Sfacciato, arrogante… sì, non aveva difficoltà a credere che piacesse a Jag.

«In particolare» continuò Jag «apprezzo la sua abilità nel distillare un processo mentale in una massima. E una delle mie preferite è: “La verità è il residuo, per quanto carente di probabilità, che rimane indietro quando ciò che non può essere è omesso dalla considerazione”.»

Se non altro, quella citazione strappò a Keith un sorriso. Ciò che Conan Doyle aveva scritto era: “Eliminate l’impossibile e ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità”, ma considerando che quelle parole erano state prima tradotte in waldahudar e poi ritradotte in inglese, la versione di Jag non era malvagia.

«Sì?» lo incoraggiò Keith.

«Ebbene, la mia analisi originale, ovvero che la stella di quarta generazione qui apparsa fosse un’anomalia, deve ora essere corretta, perché è stata individuata una seconda stella dello stesso genere a Rehbollo 376A. Applicando il detto di Holmes, credo adesso di avere compreso da dove vengono queste due stelle verdi e presumibilmente tutte le altre stelle vagabonde.» Jag tacque, in attesa che Keith lo sollecitasse a proseguire.

«Allora?» disse Keith, irritato.

«Dal futuro.»

Keith fece una risata, che però risultò più simile a una serie di colpi di tosse. Probabilmente, agli orecchi waldahud non aveva un suono derisorio. «Dal futuro?»

«È la spiegazione migliore. Le stelle verdi non possono essersi evolute in un universo giovane come il nostro. Se ce ne fosse una sola potrebbe trattarsi di un caso straordinario, ma due sono troppo improbabili.»

Keith scosse la testa. «Non potrebbero venire da… non so… qualche regione insolita dello spazio? Forse hanno fatto coppia con un buco nero e gli stress gravitazionali hanno reso più veloci le reazioni di fusione.»

«Ho pensato anch’io a ipotesi simili» ribatté Jag. «Cioè ho pensato a potenziali scenari alternativi, tra i quali non è certo presente quello da te esposto. Nessuno però si adatta ai fatti. Ho appena eseguito la datazione radiometrica, basata sulle proporzioni degli isotopi, del materiale che io e Lunga Bottiglia abbiamo raccolto dall’atmosfera della nostra stella verde. Gli atomi dei metalli pesanti hanno 22 miliardi di anni. La stella non è così antica, è chiaro, ma lo sono molti degli atomi che la compongono.»

«Credevo che tutta la materia avesse la stessa età» obiettò Keith.

Jag sollevò le spalle inferiori. «È senz’altro vero che tutte le particelle fondamentali dell’universo sono state create poco dopo il Big Bang, a eccezione delle poche che si formano costantemente per la conversione energia-massa ed escludendo certe particolari reazioni nelle quali i neutroni si trasformano in coppie elettrone-protone e viceversa. D’altra parte, gli atomi costituiti da queste particelle sono formati e distrutti in momenti ben precisi da processi di fusione o fissione.»

«Giusto» ammise Keith, imbarazzato. «Chiedo scusa. Quindi tu sostieni che gli atomi di metalli pesanti nella stella si sono formati molto tempo prima dell’universo stesso.»

«Corretto. E l’unico modo in cui ciò può essere accaduto è che la stella venga dal futuro.»

«Ma… hai detto che queste stelle verdi sarebbero miliardi di anni più vecchie di quanto può esserlo una stella delle nostre. Significa forse che vengono da un futuro lontano “miliardi” di anni? È difficile da credere.»

Jag iniziò la sua latrante replica con uno sbuffo di impazienza. «La difficoltà per l’intelletto dovrebbe essere accettare la realtà del viaggio nel tempo, non certo l’estensione temporale del viaggio di un oggetto. Se i viaggi nel tempo sono possibili, allora la loro estensione dipenderà soltanto dalla tecnologia e dall’energia disponibili. E do per scontato che qualunque razza sia capace di mandare a spasso le stelle, non abbia carenza né dell’una né dell’altra.»

«Ma credevo che i viaggi nel tempo fossero impossibili.»

Jag scosse tutte e quattro le spalle. «Fino alla scoperta delle scorciatoie, il trasporto istantaneo era impossibile. Fino alla scoperta dell’iperpropulsione, superare la velocità della luce era impossibile. Non ho idea di che cosa renderà possibili i viaggi nel tempo ma a quanto pare stiamo per scoprirlo.»

«Non c’è nessun’altra spiegazione?» domandò Keith.

«Come ho detto, ho considerato altre possibilità… per esempio che le scorciatoie agiscano come passaggi da universi paralleli e che sia quella l’origine delle stelle verdi, anziché il futuro. Però, a parte l’età, la materia che le forma è esattamente quella del nostro universo, identica a quella uscita dal nostro Big Bang e soggetta alle stesse leggi fisiche valide da noi.»

«Va bene» disse Keith alzando una mano. «Ma che senso ha inviare stelle dal futuro al passato?»

«Questa è la prima domanda sensata che fai» commentò Jag.

Keith ribatté a denti stretti: «E qual è la risposta?»

Jag sollevò ancora le quattro spalle. «Non ne ho idea.»


Mentre percorreva il corridoio freddo e scarsamente illuminato, Keith si rese conto che ciascuna delle razze a bordo della Starplex aveva qualche comportamento che alle altre risultava insopportabile. Uno dei comportamenti umani che più infastidivano gli altri era l’abitudine di sprecare un sacco di tempo per escogitare frasi le cui iniziali componessero parole sensate. Queste parole erano chiamate “acronimi” in tutte le lingue, perché soltanto le lingue terrestri avevano un termine per definirle. Quando ancora la Starplex era in fase di progettazione, alcuni umani suggerirono di chiamare STRESS, cioè Situazioni transitorie di residenza a standard sovrapposti, le condizioni delle aree dell’astronave in cui le quattro razze dovevano convivere.

Ed erano davvero uno stress, una scocciatura senza eguali, pensava Keith.

Tutte le razze vivevano in un’atmosfera di azoto-ossigeno anche se gli ib, rispetto agli umani, richiedevano una concentrazione molto maggiore di anidride carbonica per far scattare il riflesso della respirazione. La gravità delle aree comuni era in genere l’82 per cento di quella terrestre: normale per i waldahud, leggera per gli umani e i delfini e quasi la metà di quella cui erano abituati gli ib. Anche l’umidità era elevata: i waldahud soffrivano di sinusite se l’aria era troppo secca. La luce era più rossa di quella gradita agli umani… ricordava quella di un limpido tramonto terrestre. Per di più l’illuminazione doveva essere indiretta, perché il mondo natale degli ib aveva una coltre di nubi perenni, e i fotosensori presenti a migliaia sulle loro reti sarebbero stati danneggiati da luci troppo intense.

Anche così, però, i problemi non mancavano. Keith si appiattì contro una parete del corridoio per lasciar passare un ib, che proprio in quel momento espulse da uno dei due tubi azzurri che ciondolavano dalla sua pompa una pallottola grigia e compatta. Il cervello contenuto nel baccello non aveva alcun controllo su quella funzione corporale: per gli ib, il superamento del pannolino era un’impossibilità biologica. Su Flatlandia le pallottole erano prelevate da animali-spazzini capaci di sfruttare le sostanze nutrienti che gli ib non digerivano. A bordo della Starplex, c’erano piccoli robocop grandi quanto scarpe umane, che svolgevano la stessa funzione. Uno di essi giunse di corsa lungo il corridoio e, sotto gli occhi di Keith, risucchiò l’escremento e subito si allontanò.

Alla fine Keith si era abituato all’idea che gli ib defecassero dappertutto… grazie a Dio le loro feci non avevano nessun odore. Non credeva però che si sarebbe mai adattato al freddo, all’umidità o a tutte le altre sgradevolezze che per colpa dei waldahudin…

Keith si fermò di colpo. Era quasi giunto a un’intersezione a T e due voci gli arrivavano con chiarezza da un punto poco più avanti: quella di un maschio umano che strillava in una lingua simile al giapponese, e gli irosi latrati di un waldahud.

“Phantom” disse Keith sottovoce “traducimi questa conversazione.”

Accento di New York: “Tu sei debole, Teshima, molto debole. Non meriti una compagna. Fai del sesso con te stesso!”.

Keith si accigliò. Ebbe il sospetto che la traduzione del computer non rendesse giustizia all’originale giapponese.

Ancora l’accento di New York: “Sul mio mondo saresti il membro più insignificante dell’entourage della femmina più brutta e meschina di tutto…”.

“Identifica chi sta parlando” sussurrò Keith.

“L’umano è Hiroyuki Teshima, un biochimico” rispose Phantom dall’impianto uditivo di Keith. “Il waldahud è Gart Daygaro em-Holf, uno degli ingegneri.”

Keith rimase immobile, chiedendosi che cosa fosse meglio fare. Erano entrambi adulti e benché lui fosse il loro diretto superiore non si poteva certo dire che fossero ai suoi ordini. Tuttavia…

“Freddezza e tranquillità.” Oltrepassò l’angolo. «Signori» disse in tono neutro «non sarebbe il caso di calmarsi?»

Tutte e quattro le mani del waldahud erano strette a pugno e la faccia rotonda di Teshima era rossa di rabbia. «Non intrometterti, Lansing» disse l’umano, in inglese.

Keith li guardò. Che cosa poteva fare? Non certo metterli ai ferri: quando si trattava di questioni personali non c’era nessun motivo per cui dovessero ubbidirgli.

«Non vuoi permettermi di offrirti un aperitivo, Hiroyuki?» disse. «E a te, Gart, non farebbe piacere un po’ di riposo extra per questo ciclo?»

«Mi farebbe piacere» latrò il waldahud «vedere Teshima sparato da un tubo guidamassa dritto in un buco nero.»

«Coraggio, ragazzi» li esortò Keith, avvicinandosi di un passo. «Abbiamo tutti accettato di vivere e lavorare insieme.»

«Ti ho già detto di non intrometterti, Lansing» sbottò Teshima. «Non sono affari tuoi.»

Keith si sentì le guance avvampare. Non poteva ordinare loro di dividersi, ma nemmeno poteva permettersi zuffe nei corridoi tra il personale della nave. Li osservò entrambi: un umano di mezza età e di bassa statura, con i capelli color piombo, e un waldahud grande e grosso con la pelliccia dell’esatta sfumatura del legno di quercia. Non conosceva bene né l’uno né l’altro, non sapeva che cosa avrebbe potuto placarli. Accidenti, non sapeva neppure per che cosa stavano litigando. Aprì la bocca per dire qualcosa, qualsiasi cosa, quando a pochi metri di distanza si affacciò da una porta una ragazza in pigiama… era Cheryl Rosenberg. «Per San Pietro, proprio qui dovevate fermarvi?» esclamò. «Non lo sapete che per qualcuno è notte?»

Teshima guardò la donna e, rivolgendole un impercettibile inchino, cominciò ad allontanarsi. Gart, che per natura era altrettanto deferente nei confronti delle femmine, fece un secco cenno col capo e si incamminò in direzione opposta. Cheryl sbadigliò e tornò dentro, chiudendosi la porta dietro le spalle.

Keith rimase lì impalato, a guardare il waldahud che indietreggiava nel corridoio, arrabbiato con se stesso per non essere stato capace di affrontare la situazione. Si massaggiò le tempie. Siamo tutti prigionieri della biologia, pensò. Teshima che non può trascurare le richieste di una donna graziosa e Gart che non è capace di disubbidire agli ordini di una femmina.

Quando Gart fu fuori vista, Keith lo seguì lungo il passaggio freddo e umido. A volte, pensò, sarebbe una soddisfazione essere un maschio dominante.


Rissa sedeva alla sua scrivania, intenta a svolgere il lavoro che più detestava: le formalità burocratiche. Quello che ancora veniva chiamato “riempire i moduli”, anche se ormai non esisteva più nessun modulo stampato.

Suonò il cicalino e Phantom disse: “Carro Merci è alla parta”.

Rissa ripose lo stilo-input e si ravviò i capelli. Buffo preoccuparsi di avere i capelli in disordine, si disse, quando l’unico che può vederli non è neppure umano. «Falla entrare.»

L’ib avanzò sulle sue rotelle. Phantom fece scivolare la multisedia in un angolo per farle posto. «Ti prego di perdonarmi per il disturbo, cara Rissa» disse con il suo ricco accento britannico.

Rissa scoppiò a ridere. «Non mi disturbi affatto, credimi. In questo momento qualunque interruzione è benvenuta.»

La rete di sensori di Carro Merci s’inarcò come la vela di una nave, per consentirle di vedere la scrivania di Rissa. «Moduli» commentò. «Un lavoro noioso.»

Rissa le sorrise. «L’hai detto. Che cosa posso fare per te?»

Vi fu una lunga pausa di silenzio, insolita per un ib. Poi, alla fine: «Sono venuta per la disdetta.»

Rissa la guardò, perplessa. «Disdetta?»

Sulla rete le luci danzarono. «Le mie scuse più profonde se questa espressione non è corretta. Intendevo dire che, con rimpianto, non potrò più lavorare qui. Con decorrenza a partire dal quinto giorno da adesso.»

Rissa sentì la propria fronte sollevarsi. «Te ne vai? Dai le dimissioni?»

Altre luci saltellarono sulla rete. «Sì.»

«Perché? Credevo che le ricerche sulla senescenza ti interessassero. Se desideri essere assegnata a qualche altro compito…»

«Non si tratta di questo, cara Rissa. La ricerca è affascinante e inestimabile, e tu mi hai onorato permettendomi di prendervi parte. Ma fra cinque giorni altre priorità avranno la precedenza.»

«Quali priorità?»

«Ripagare un debito.»

«Nei confronti di chi?»

«Di altre bioentità integrate. Entro cinque giorni dovrò andarmene.»

«Dove?»

«No, non andare via. “Andarmene.”»

Rissa fece un sospiro e guardò il soffitto. «Phantom, sei sicuro di aver tradotto correttamente le parole di Carro Merci?»

“Credo di sì, signora” replicò Phantom nell’auricolare di lei.

«Carro Merci, non comprendo la distinzione che fai tra “andare via” e “andartene”» disse Rissa.

«Non andrò in nessun posto, in senso fisico» rispose Carro Merci. «Me ne andrò nel senso di andarmene. Morire.»

«Di mio!» esclamò Rissa. «Sei malata?»

«No.»

«Ma non sei abbastanza vecchia per morire. Mi hai detto più volte che gli ib vivono esattamente 641 anni. E tu hai appena passato i 600.»

La rete di sensori di Carro Merci prese un color salmone, ma l’emozione correlata non doveva avere un equivalente terrestre perché Phantom decise di non premettere alla sua replica alcun commento parentetico. «Ho 600 anni, secondo i termini terrestri. Il mio tempo ha raggiunto i suoi quindici sedicesimi.»

Rissa la guardò a bocca aperta. «Che cosa significa?»

«Per le trasgressioni commesse in gioventù. Mi è stata assegnata una pena pari a un sedicesimo di vita, per cui sarò terminato la settimana prossima.»

Rissa non sapeva che cosa dire. Alla fine optò per la semplice ripetizione della parola “terminata”, come se forse almeno quella potesse essere stata fraintesa.

«Esatto, cara Rissa.»

Vi fu un altro momento di silenzio. «Quali crimini hai commesso?»

«Mi imbarazza parlarne» disse Carro Merci.

Rissa tacque, in attesa che la ib continuasse comunque. Non lo fece.

«Ti ho riferito molte informazioni estremamente private riguardo a me stessa e al mio matrimonio» osservò Rissa con serenità. «Siamo amiche, Carro Merci.»

Ancora silenzio. Forse la ib stava lottando con i suoi sentimenti. Alla fine disse: «Quando ero una novizia terziaria, una posizione che da voi corrisponde a quella di una studentessa universitaria, ho riportato in modo non corretto i risultati di un mio esperimento.»

Rissa aggrottò la fronte. «Tutti fanno errori, Carro Merci. Non riesco a credere che tu sia stata punita così severamente per una cosa simile.»

Le luci di Carro Merci sfavillarono follemente. Sembrava un segno di costernazione, ma ancora una volta Phantom non fornì alcuna versione verbale. Poi: «I risultati non furono riportati erroneamente per cause accidentali.» Il manto della ib rimase buio per parecchi secondi. «Ho falsificato i dati deliberatamente.»

Rissa si sforzò di mantenere un’espressione neutra. «Oh.»

«Non ritenevo che l’esperimento avesse un gran significato, ma sapevo… o, meglio, immaginavo: non sapevo un bel niente, a quei tempi… quali risultati avrebbe dovuto avere. A posteriori mi rendo conto che sapevo soltanto quali risultati avrei voluto avere.» Buio, pausa. «Comunque sia, altri ricercatori si sono affidati ai miei risultati. Molto tempo è stato sprecato.»

«E per questo ti uccideranno?»

Tutte le luci della rete di Carro Merci si accesero contemporaneamente: una manifestazione di orrore assoluto. «Non si tratta affatto di un’esecuzione sommaria, Rissa. Su Flatlandia esistono soltanto due crimini capitali: l’uccisione di un baccello e la formazione di una gestalt con più di sette componenti. Quanto a me, si tratta di un semplice accorciamento del mio tempo di vita.»

«Ma… ma se adesso hai 600 anni, quanto tempo fa hai commesso il tuo crimine?»

«Avevo 24 anni.»

«Phantom, che anno era sulla Terra a quel tempo?»

“Il 1516, signora.”

«Buon Dio!» esclamò Rissa. «Carro Merci, non è possibile che ti puniscano dopo così tanto tempo per una banale infrazione.»

«Il trascorrere del tempo non ha mutato l’impatto di ciò che ho commesso.»

«Però da quando sei salita a bordo della Starplex sei protetta del Trattato del Commonwealth. Puoi chiedere asilo qui. Possiamo trovarti un avvocato.»

«Rissa, le tue preoccupazioni sono commoventi, ma io sono preparata a pagare il mio debito.»

«È successo tanto tempo fa. Forse ti hanno perdonata.»

«Gli ib non dimenticano, lo sai. Dal momento che le matrici si formano nel cervello dei nostri baccelli a ritmo costante, noi abbiamo una memoria eidetica. Ma anche se i miei compatrioti avessero dimenticato, non farebbe differenza. È una questione di onore.»

«Perché non ne hai mai fatto parola?»

«La mia punizione non richiedeva la diffusione della verità. Mi è stato consentito di vivere senza questa costante vergogna: qui, però, il contratto che ho sottoscritto richiede che io dia un preavviso di cinque giorni se desidero andarmene. Ed è per questo che adesso, per la prima volta dopo 581 anni, parlo a qualcuno del mio crimine.» La ib tacque. «Se lo ritieni accettabile, passerò i giorni che mi rimangono a riordinare le nostre ricerche, cosicché tu e altri possiate proseguirle senza difficoltà.»

Rissa si sentiva girare la testa. «Mmm, sì» disse infine. «Sì, mi sembra una buona idea.»

«Grazie» disse Carro Merci. Si girò e si avviò alla porta, poi la rete lampeggiò un’ultima volta. «Sei stata una buona amica, Rissa.»

Poi la porta si aprì, Carro Merci rotolò fuori e Rissa si lasciò cadere sulla sua sedia, attonita.

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