16

Rissa, Hek e il resto della squadra comunicazioni aliene continuarono a scambiare messaggi con il matos che avevano soprannominato Occhio di Gatto. La conversazione divenne sempre più sciolta a mano a mano che nuove parole si aggiungevano al database di traduzione, e che le vecchie parole venivano comprese più chiaramente. Quando Keith tornò sul ponte, trovò Rissa nel bel mezzo di quella che sembrava una conversazione filosofica con la gigantesca creatura. C’era il turno alfa in servizio, con una postazione vuota, quella delle operazioni esterne: Rombo era in giro a fare qualcos’altro e il suo incarico era stato affidato a un delfino che nuotava nella piscina installata sul lato di tribordo del ponte.

«Non eravamo consapevoli della tua esistenza» disse Rissa nel microfono a stelo della consolle. «Sapevamo che doveva esserci una grande quantità di materia invisibile nel cosmo, a causa dei suoi effetti gravitazionali, ma non avevamo idea che fosse viva.»

«Due tipi di sostanze» replicò il matos, con l’accento francese che Phantom gli aveva assegnato.

«Sì» disse Rissa. Alzò lo sguardo e salutò Keith che stava sedendosi vicino a lei.

«Non reagiscono identico» spiegò Occhio di Gatto. «Solo gravità uguale.»

«È vero» confermò Rissa. La sfera olografica mostrava una immagine ritoccata di Occhio di Gatto di fronte alle due file di computer.

«Tanti come noi» disse il matos.

«Sì, la maggior parte della materia è fatta come voi» replicò Rissa.

«Ignoro voi.»

«Non sapevi della nostra esistenza?»

«Insignificanti.»

«Sapevi che parte del nostro tipo di sostanza era viva?»

«No. Mai successo di cercare la vita “sui” pianeti. Siete così piccoli.»

«Vorremmo stabilire una relazione con voi» annunciò Rissa.

«Relazione?»

«Per reciproco beneficio. Uno più uno uguale due. Voi più noi uguale più di due.»

«Capito. Più della somma delle parti.»

Rissa sorrise. «Esattamente.»

«Relazione saggia.»

«Avete una parola per coloro con i quali intrattenete relazioni di reciproco beneficio?»

«Amici» rispose il matos, o almeno così Phantom tradusse la parola anche se era la prima volta che la riceveva. «Noi li chiamiamo amici.»

«Noi siamo amici» disse Rissa.

«Sì.»

«Il tipo di sostanza di cui siete fatti… quella che noi chiamiamo materia oscura… è tutta vivente?»

«No. Soltanto una piccola frazione.»

«Tu però hai detto che la materia oscura vivente esiste da moltissimo tempo.»

«Fin dall’inizio.»

«Dall’inizio di cosa?»

«Di… tutte le stelle insieme.»

«Della totalità di tutto? Noi lo chiamiamo universo.»

«Fin dall’inizio dell’universo.»

«C’è un elemento interessante, qui» disse Jag sedendosi alla sinistra di Keith. «Ovvero l’idea che l’universo abbia avuto un inizio… L’ha avuto, è chiaro, ma come fa lui a saperlo? Chiediglielo.»

«Com’era l’universo all’inizio?» domandò Rissa avvicinando la bocca al microfono.

«Compresso» disse il matos. «Piccolo oltre il piccolo. Unico luogo, nessun tempo.»

«L’atomo primordiale» commentò Jag. «Affascinante. Ed è corretto, ma mi domando come faccia una creatura simile a dedurlo.»

«Comunicano per mezzo di onde radio» disse Lianne, girandosi dalla postazione delle operazioni interne per guardare in faccia Jag. «Probabilmente hanno fatto lo stesso ragionamento che abbiamo fatto noi, basandosi sulla radiazione cosmica di fondo e sullo spostamento verso il rosso delle emissioni radio delle galassie più lontane.»

Jag sbuffò.

Rissa intanto continuava il dialogo. «Ci hai detto che né tu personalmente, Occhio di Gatto, né questo gruppo di matos è neanche lontanamente così vecchio. Come fai a sapere che i matos sono sempre esistiti, fin dall’inizio?»

«È necessario» rispose il matos.

Jag emise un latrato per liquidare l’argomentazione. «Filosofia, non scienza» disse. «Desiderano crederlo, ecco tutto.»

«Noi non esistiamo da un tempo così lungo» comunicò Rissa nel microfono a stelo. «Non abbiamo trovato nessuna prova dell’esistenza di vita, di qualunque tipo di vita purché fatta del nostro tipo di materia, che sia più antica di quattro miliardi di anni.» Phantom tradusse l’espressione temporale in una scala che il matos potesse comprendere.

«Come già detto, voi siete insignificanti.»

Jag abbaiò a Phantom. «Domanda: da che cosa deriva la traduzione “insignificante”?»

«Dalla matematica» rispose il computer, usando la lingua appropriata in ciascun auricolare. «Abbiamo stabilito che la differenza tra 3,7 e 4,0 è “significativa”, mentre che la differenza fra 3,99 e 4,00 è “non significativa” o “insignificante”.»

Jag guardò Rissa. «Dunque in questo contesto la parola potrebbe avere un valore differente. Potrebbe essere più metaforica… per esempio “ultimo arrivato” potrebbe essere reso con “non significativo”.»

Thor si girò a mezzo e rivolse al waldahud un sogghigno. «Non ti piace l’idea di non essere nemmeno preso in considerazione, eh?»

«Non essere rozzo, umano. Il fatto è che si deve essere molto cauti nel generalizzare l’uso di parole aliene. A parte questo, probabilmente lui si riferisce alla sonda che invia i segnali. Un oggetto di lunghezza inferiore a cinque metri può senz’altro essere definito insignificante.»

Rissa annuì e parlò nel microfono. «Quando dici che siamo insignificanti, ti riferisci alle nostre dimensioni?»

«Non alle dimensioni dell’oggetto parlante. Non alle dimensioni della parte che ha espulso l’oggetto parlante.»

«Con buona pace di chi pensava di averlo fatto fesso» disse Thor con un sogghigno. «Sa perfettamente che la sonda viene da questa nave.»

Rissa coprì con una mano il microfono, un gesto buono come un altro per indicare a Phantom che la trasmissione era momentaneamente interrotta. «Ritengo che non abbia importanza.» Tolse la mano e parlò di nuovo a Occhio di Gatto. «Siamo insignificanti perché non esistiamo da un tempo abbastanza lungo, in confronto a voi?»

«Non questione di lasso di tempo; questione di tempo assoluto. Noi qui dall’inizio, voi no. Per definizione noi siamo significativi, voi no. È ovvio.»

«Non sottoscrivo» disse Keith, in tono cordiale. «I bravi ragazzi non sono mai i primi, sono soltanto i migliori.»

Rissa coprì il microfono e guardò suo marito. «Malgrado questo, penso che dovremmo tenerci alla larga dalla filosofia finché non saremo più sereni gli uni con gli altri. Non vorrei tappargli la bocca con una frase involontariamente offensiva.»

Keith annuì.

Rissa tornò a parlare nel microfono. «Immagino che ci siano altre comunità di matos.»

«A miliardi.»

«Avete contatti con loro?»

«Sì.»

«I vostri segnali radio non sono potenti e hanno frequenze vicine a quella della radiazione cosmica di fondo: non dovrebbero essere percepibili a grande distanza.»

«Vero.»

«Allora come fate a mantenere i contatti con le altre comunità matos?»

«Radio-uno per le conversazioni locali. Radio-due per le comunicazioni tra comunità.»

Lianne si girò verso Rissa. «Ho sentito bene? Sta dicendo che i matos sono trasmettitori naturali di segnali radio iperspaziali?»

«Cerchiamo di scoprirlo» disse Rissa. Si chinò sul microfono. «Radio-uno viaggia alla stessa velocità della luce, giusto?»

«Sì.»

«Radio-due viaggia più veloce della luce, giusto?»

«Sì.»

«Cristo» esclamò Keith. «Se usano la radio iperspaziale, com’è che non abbiamo mai captato i loro segnali?»

«Esiste un numero infinito di livelli iperspaziali quantistici» osservò Lianne. «Nessuna razza del Commonwealth dispone della radio iperspaziale da più di cinquant’anni, e l’intero Commonwealth utilizza soltanto ottomila livelli quantistici. È senz’altro possibile che le nostre scelte non abbiano incrociato quelle dei matos.» Tornò a guardare Rissa. «Le nostre radio iperspaziali hanno bisogno di una quantità enorme di energia. Vale la pena di insistere sull’argomento: magari usano una tecnica meno dispendiosa.»

Rissa annuì. «Anche noi abbiamo un tipo di radio-due. Volete parlarci di come funziona la vostra?»

«Dire tutto» rispose Occhio di Gatto. «Ma poco da dire. Si pensa in un modo, e il pensiero è privato. Si pensa in un altro modo, e il pensiero è trasmesso come radio-uno. Si pensa in un terzo modo, più faticoso, e il pensiero è trasmesso come radio-due.»

Keith fece una risata. «È come chiedere a un essere umano di spiegare come fa a parlare: si parla, punto e basta. Sarebbe…»

“Mi scusi se la interrompo, dottor Lansing” disse Phantom “ma mi aveva chiesto di ricordare a lei e alla dottoressa Cervantes l’appuntamento delle 14.00.”

Keith impallidì.

«Accidenti» disse. Poi si rivolse a Rissa. «È ora.»

Lei annuì. «Phantom, riferisci a Hek di scendere qui per continuare la conversazione con Occhio di Gatto.»

Non appena Hek arrivò, entrambi si alzarono dalla propria postazione e lasciarono la stanza.


Keith e Rissa uscirono dall’ascensore e coprirono a piedi il breve tratto che li separava dalla torreggiante porta nera dove era dipinto in arancione fluorescente un gigantesco numero 20. Rientrando di lato, i chiavistelli fecero un rumore che era sempre sembrato vagamente familiare a Keith. Questa volta riuscì a ricordare perché: era lo stesso suono che facevano i fucili nei vecchi western quando venivano armati.

Quasi tutte le porte della nave si aprivano suddividendosi in due pannelli che rientravano nelle pareti a destra e a sinistra. Questa invece, pur pesante com’era, era un pezzo unico e rientrava nella parete di sinistra: la sicurezza richiedeva che non ci fossero fessure o punti deboli nella chiusura.

Rissa trattenne il respiro. Keith rimase a bocca aperta.

C’erano oltre un centinaio di ib nel molo d’attracco, allineati in file ordinate… sembrava un parcheggio pieno di sedie a rotelle. «Phantom, quanti ce ne sono?» domandò Keith sottovoce.

“Duecentonove, signore” rispose il computer. “La totalità delle bioentità integrate presenti sulla nave.”

Rissa scosse lentamente la testa. «Mi aveva detto che soltanto gli amici più cari sarebbero intervenuti.»

«Be’, quanto al fisico Carro Merci è uno schianto» disse Keith entrando nello stanzone. «Immagino che tutti gli ib qui a bordo la considerino una cara amica.»

C’erano altri sei umani presenti, tutti membri dell’équipe scienze biologiche di Rissa. C’era anche un solitario waldahud, del quale Keith non ricordava il ruolo. Controllò l’orologio: le 13:59:47. Qualunque cosa fosse accaduta, non aveva dubbi che sarebbe iniziata in orario.

“Grazie per essere venuti” disse la voce di Carro Merci nell’auricolare di Keith. L’uomo non ebbe difficoltà a individuarla: la sua rete era l’unica che lampeggiava. Quella scena aveva in sé qualcosa di lugubre. La traduzione di Phantom giungeva direttamente al nervo acustico sinistro di Keith, ma l’altro orecchio non udiva nulla… tuttavia, anche se la stanza fosse stata piena di ib urlanti il silenzio sarebbe comunque stato assoluto.

Carro Merci in persona si trovava a quindici metri da Keith e Rissa. Di fronte alle piastre metalliche del portello esterno, però, Phantom proiettava un suo ologramma gigante in modo che tutti gli ib potessero vedere gli scintillii della sua rete. C’era qualcosa di strano: i fili della rete erano di un verde brillante. Keith non aveva mai visto nessuna rete ib di quel colore.

Si girò per dirlo a Rissa, ma lei lo precedette. «Rappresenta una condizione di profonda emozione» disse. «Carro Merci è commossa dalla dimostrazione di solidarietà del suo popolo.»

La rete di Carro Merci lampeggiò. La traduzione fu: «L’intero e le parti… uno solo e tutte loro. La gestalt ha risonanze su scala macroscopica e microscopica. Essa lega.»

Era chiaro che Carro Merci si rivolgeva ai suoi compagni ib. Keith si disse che poteva al massimo sperare di intuire vagamente ciò che diceva… qualcosa sul fatto che appartenere alla comunità degli ib era stato per lei altrettanto significativo quanto essere lei stessa una comunità di parti. Keith andava fiero della sua disponibilità ad accettare gli alieni, malgrado i suoi litigi con Jag. Quella situazione, però, era un po’ troppo surreale per lui. Sapeva che avrebbe assistito alla morte di qualcuno, ma le emozioni che avrebbe dovuto provare non erano ancora salite in superficie. Rissa, invece, aveva l’aspetto di chi si sforza di trattenere le lacrime. Lei e Carro Merci dovevano essere state molto più vicine di quanto lui immaginasse.

«La strada è sgombra» concluse Carro Merci. Rotolò ad alcune decine di metri di distanza dagli altri, portandosi al centro del molo.

«Perché lo fa?» sussurrò Keith.

Rissa scrollò le spalle, ma Phantom rispose in entrambi gli impianti auricolari: “Nel corso della scorporazione, i componenti… soprattutto le ruote… possono farsi prendere dal panico e cercare di legarsi ad altri ib. È quindi d’uso spostarsi abbastanza lontano per avere il tempo di reagire in modo opportuno, se ciò si verificasse”.

Keith fece un lieve cenno di assenso.

Fu allora che cominciò. Al centro del molo si trovava una normale montagnola da riposo ib. Carro Merci vi rotolò sopra, in maniera tale da usarla come sostegno per il telaio. La rete, visibile nell’ologramma gigante generato da Phantom, assunse un color porpora elettrico, un’altra sfumatura che Keith non aveva mai visto prima. I puntini di luce sulle innumerevoli intersezioni della rete divennero sempre più luminosi, un’affollata mappa stellare nella quale ogni astro era una nova. Poi, una dopo l’altra, le luci si affievolirono e si spensero. Occorsero un paio di minuti perché tutte si oscurassero.

Il telaio di Carro Merci s’inclinò in avanti e la rete scivolò sul pavimento del molo e vi si adagiò scompostamente. Keith aveva pensato che la rete fosse già morta, quando la vide inarcarsi bruscamente come se qualcosa l’avesse colpita da sotto. Ormai i fili avevano perduto tutto il colore, sembravano robusti fili di nylon simili a quelli delle canne da pesca.

Dopo un attimo la rete spirò, crollando in un mucchio inerte. Ora Carro Merci era cieca e sorda (un tempo aveva posseduto anche un senso basato sul magnetismo, ma le era stato estirpato con la nanochirurgia quando aveva lasciato il suo mondo natale: provocava gravi disorientamenti a bordo delle navi spaziali).

Poi le ruote di Carro Merci si staccarono dagli assi del telaio. Lo sganciamento delle ruote, di per sé, non era insolito. Il sistema che consentiva al nutrimento di passare dall’asse alle ruote, infatti, non forniva loro cibo a sufficienza e le costringeva, nel loro ambiente naturale, a separarsi periodicamente dal resto della gestalt per cercare nutrimento. Grossi tentacoli, simili alle corde di manipolazione del fascio, venivano estroflesse dai lati delle ruote per tenerle in equilibrio (o, se cadevano, per raddrizzarle).

Quasi immediatamente dopo la separazione, la ruota sinistra cercò di riagganciarsi al telaio. E quando si accorse che lungo tutta la circonferenza dell’asse erano spuntati bitorzoli che le impedivano di ricongiungersi, proprio come aveva detto Phantom venne presa dal panico. Rotolò avanti e indietro nel molo, mentre i tentacoli estroflessi si estendevano e si ritiravano a ritmo frenetico. La ruota era dotata di sensori visuali propri e non appena ebbe sentore della vasta adunata di ib si diresse in linea retta verso il più vicino. L’ib fece una giravolta, evitando la ruota. Uno degli altri… a Keith sembrò che si trattasse di Farfalla, l’unico medico ib a bordo… le si parò davanti, impugnando con una corda manipolatoria uno storditore medico nero e argento. Lo storditore toccò la ruota ed essa cessò di muoversi. Rimase ritta per alcuni secondi, poi le appendici simili a radici che le spuntavano dai fianchi diventarono molli e la ruota cadde di fianco.

Keith riportò lo sguardo verso il centro del molo. Il fascio di Carro Merci era caduto per terra, accanto alla rete di sensori, e le sue corde si stavano allungando verso il telaio per staccare la pompa azzurra dal verde baccello centrale, depositandola quindi con gentilezza sul pavimento. Keith vide l’ampio orifizio respiratorio centrale della pompa ripetere la consueta sequenza in quattro fasi: aperto, allungato, compresso e chiuso. Dopo una quarantina di secondi, però, la sequenza cominciò a incepparsi, mentre la pompa sembrava perdere cognizione di ciò che stava facendo. I movimenti dell’orifizio diventarono confusi: si apriva, poi si comprimeva di colpo, o tentava di allungarsi dopo essersi chiuso. Si udì un sommesso ansito, l’unico suono nell’intera sala, e infine la pompa smise di muoversi.

Tutto ciò che rimaneva era il baccello, appoggiato al telaio a forma di sella.

Keith mormorò a Rissa: «Quanto può sopravvivere il baccello senza la pompa?»

Rissa si girò a guardarlo, con gli occhi umidi. Li chiuse e li riaprì diverse volte per scacciare le lacrime. «Un minuto» disse infine. «Forse due.»

Keith le prese una mano fra le sue e la strinse.

Per circa tre minuti regnò una calma assoluta. Il baccello spirò con serenità, senza rumori né movimenti… ma in qualche modo gli ib avvertirono il momento esatto della dipartita e, tutti contemporaneamente, cominciarono ad avviarsi verso il retro dell’hangar. Tutte le reti erano buie, non una parola venne scambiata tra loro. Keith e Rissa furono gli ultimi ad andarsene. Entro breve sarebbe tornato Farfalla, Keith ne era al corrente, per provvedere a lanciare nello spazio i resti di Carro Merci.

Mentre con Rissa usciva dal molo, Keith pensava al proprio futuro. A quanto pareva sarebbe vissuto a lungo, molto a lungo. Si chiese se con miliardi di anni alle spalle sarebbe riuscito a sfuggire agli errori del proprio passato.


Quella notte non riuscirono a dormire, ovviamente. La morte di Carro Merci aveva sconvolto Rissa, e Keith era alle prese con i suoi demoni personali. Giacquero a fianco a fianco nel letto, con gli occhi aperti, Rissa intenta a fissare il soffitto scuro, Keith concentrato sulla tenue macchia rossa creata dalla luce che filtrava intorno alla plasticarta che copriva l’orologio.

Rissa parlò, pronunciando un’unica parola. «Se…»

Keith si girò a pancia in su. «Scusa?»

Lei rimase zitta per un po’. Keith era sul punto di sollecitarla di nuovo a parlare, quando lei disse, a voce bassissima: «Se hai dimenticato come si scrivono la u e l’apostrofo, ti ricorderai di me… ti ricorderai di noi?» Si girò su se stessa e lo guardò. «Tu vivrai per altri dieci miliardi di anni. Non voglio nemmeno provare a comprenderlo.»

«È… confonde la mente» ammise Keith, scuotendo la testa appoggiata al cuscino. Anche lui rimase in silenzio per un po’. Poi disse: «La gente ha sempre fantasticato sulla vita eterna. In un certo senso, la parola “eterno” intimidisce meno di una data specifica. L’immortalità la posso capire, ma la precisa informazione che sarò ancora vivo fra dieci miliardi di anni mi sembra del tutto priva di senso.»

«Dieci miliardi di anni» ripeté Rissa, scuotendo la testa. «Il sole della Terra sarà morto da tempo, la Terra stessa sarà morta.» Un tonfo. «Io sarò morta.»

«Forse. O forse no. Se la spiegazione è il prolungamento della vita, allora certamente all’origine ci sono i tuoi studi qui sulla Starplex. Se così non fosse, perché proprio io dovrei aver beneficiato del processo? Forse saremo vivi entrambi, fra dieci miliardi di anni.»

Silenzio.

«Insieme?» sbottò Rissa, alla fine.

Keith espirò rumorosamente. «Non lo so. Non ho nessuna previsione da fare in questa faccenda.» Capì che le aveva dato la risposta sbagliata. «Però… se dovrò affrontare un futuro così lungo, vorrei che fosse con te.»

«Davvero?» disse Rissa d’un fiato. «Che cosa rimarrebbe da esplorare, da imparare l’uno dell’altro dopo tutto quel tempo?»

«Forse non si tratta di un’esistenza fisica» suggerì Keith. «Forse la mia coscienza sarà trasferita in una macchina. Non c’era una setta, a New New York, che voleva fare una cosa simile? Copiare i cervelli umani nei computer? Oppure… forse l’intera umanità è diventata un’unica mente gigantesca, nella quale è però ancora possibile rintracciare le personalità originarie. Sarebbe…»

«Sarebbe meno spaventoso che non l’idea di essere ancora vivo come individuo fra dieci miliardi di anni. Nel caso che tu non abbia ancora fatto il conto, ti informo che finora hai vissuto appena due centesimi di milionesimo dell’età che raggiungerai.» Fece una pausa e sospirò.

«Che c’è?» chiese Keith.

«Niente.»

«No, c’è qualcosa che ti ha fatto arrabbiare.»

Rissa rimase in silenzio per una decina di secondi. «Be’ è solo che non è facile convivere con la tua attuale crisi della mezza età. Non mi auguro certo di assistere alle tue mattane quando passerai i cinque miliardi di anni.»

Keith rimase senza parole. Alla fine trovò il fiato almeno per ridere, ma la risata gli sembrò vuota, forzata.

Ancora silenzio, durò così tanto da fargli pensare che Rissa si fosse finalmente addormentata. Lui non ci sarebbe riuscito. Non ancora, non con quei pensieri che gli turbinavano nella testa.

«Dulcinea?» sussurrò, cercando di tenere la voce abbastanza bassa da non svegliarla, se lei fosse stata già addormentata.

«Mmm?»

Keith deglutì. Forse avrebbe fatto meglio a non introdurre l’argomento, tuttavia… «Tra poco sarà il nostro anniversario.»

«La settimana prossima» disse la voce nel buio.

«Sì» confermò Keith. «Arriveremo giusto a vent’anni, e…»

«Venti “meravigliosi” anni, amore. Si dà per scontato che tu inserisca sempre l’aggettivo.»

Un’altra risata forzata. «Scusa, hai ragione. Venti meravigliosi anni.» Fece una pausa. «E in quel giorno abbiamo deciso di rinnovare i nostri voti nuziali.»

Nella voce di Rissa si avvertì una punta di gelo. «Sì?»

«Niente, niente. Fai finta che non abbia parlato. Sono stati davvero venti anni meravigliosi.»

Nel buio Keith scorgeva a malapena il suo volto. La vide annuire, poi fissarlo, cercare gli occhi di lui e sforzarsi di guardare al di là di essi, di vedere la verità, di cogliere ciò che lo turbava. Poi arrivò la comprensione e lei si girò su un fianco dandogli le spalle. «Non ho obiezioni» disse infine.

«Su che cosa?»

E lei pronunciò le ultime parole che si scambiarono quella notte. «Non ho obiezioni» disse «se non vuoi dire “finché morte non ci separi”.»


Keith era seduto alla sua postazione sul ponte. Oltre il bordo del monitor galleggiavano gli ologrammi di tre umani e di un delfino. Con la coda dell’occhio notò una delle porte del ponte aprirsi per fare entrare Jag, con il suo passo ondeggiante. Il waldahud non andò però alla sua postazione. Si fermò invece davanti a quella di Keith e attese, con un’espressione che denunciava una certa agitazione, che Keith terminasse la conferenza in corso con le teste olografiche. Dopo che li ebbe congedati, il direttore guardò Jag.

«Come sai, i matos sono in movimento» disse Jag. «Anzi, per dirla con franchezza, la loro agilità mi appare sorprendente. Sembrano lavorare insieme: ogni sfera indirizza verso le altre le sue forze, gravitazionale e repulsiva, per cooperare nello spostamento dell’intera comunità. Nel farlo, però, si sono completamente riconfigurate, in modo tale che i matos che prima non riuscivamo a vedere con chiarezza sono adesso alla periferia dell’assembramento. Ho fatto qualche previsione su quale sarà il prossimo matos che si riprodurrà, e mi piacerebbe mettere alla prova la mia teoria. Ecco perché ti chiedo di spostare la Starplex dall’altra parte del campo di materia oscura.»

«Phantom, dammi uno schema dello spazio locale» disse Keith.

A mezz’aria tra Keith e Jag apparve una rappresentazione olografica. I matos si erano spostati dirigendosi verso il lato opposto della stella verde, cosicché la Starplex, la scorciatoia, la stella e la comunità dei matos si trovavano grossomodo lungo una linea retta.

«Se ci spostiamo sul lato opposto della comunità dei matos perderemo di vista la scorciatoia» osservò Keith. «Rischieremmo di perdere l’arrivo di un Watson. Non potresti mandare laggiù una sonda?»

«La mia previsione si basa su limitatissime concentrazioni di massa. Avrò bisogno degli iperscopi del ponte uno o del ponte settanta per compiere le osservazioni necessarie.»

Keith esaminò le alternative. «Va bene.» Premette un tasto sulla consolle e dal nulla sbucarono i soliti ologrammi di Thor e Rombo. «Rombo, per favore controlla i tempi di chi sta facendo osservazioni esterne. Scopri quale sarà il primo momento in cui potremo spostare la nave senza interrompere il loro lavoro. Thor, in quel momento portaci sul lato opposto del campo di materia oscura, nella posizione di cui Jag ti fornirà le coordinate.»

«Svolgere il proprio servizio è il piacere più grande» disse Rombo.

«Okay, capo» disse Thor.

Jag mosse su e giù la testa, imitando il gesto umano. I waldahudin non dicono mai grazie, ma a Keith parve che il maiale fosse smodatamente compiaciuto.

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