Epsilon Draconis

Keith non aveva notato Vetro rientrare nel molo d’attracco ma quando alzò gli occhi lo vide avvicinarsi, con le gambe trasparenti che avanzavano sul prato d’erba e di quadrifogli. Il suo passo era fluido, bello a vedersi e dava l’impressione di un movimento al rallentatore anche se la velocità della camminata era normale. Quella traccia di acquamarina, l’unica sfumatura di colore nel suo corpo chiaro, aveva un effetto ipnotico.

Keith considerò l’idea di alzarsi in piedi, poi si limitò a fissare l’uomo trasparente osservando i bagliori che il sole traeva dal suo corpo e dalla testa a uovo.

«Bentornato.»

Vetro fece un cenno con il capo. «Lo so, lo so, hai paura. Lo nascondi bene, ma continui a chiederti per quanto tempo ti terrò qui. Non troppo, te lo prometto. Ma c’è qualcos’altro che vorrei esaminare con te prima della tua partenza.»

Keith inarcò le sopracciglia e Vetro sedette appoggiando la schiena a un albero vicino. Qualunque fosse la sostanza del suo corpo, non era vetro: nonostante la forma a tubo, infatti, il suo torace trasparente non ingrandiva affatto la corteccia. Si notava appena una lieve distorsione nell’immagine.

«Sei arrabbiato» disse Vetro senza giri di parole.

Keith scosse la testa. «No. Finora sono stato trattato bene.»

Uno scampanellio: la sua risata. «No, no. Non dico che sei arrabbiato con me. Sei arrabbiato punto e basta. C’è qualcosa in te, nel profondo, che ti ha indurito il cuore.»

Keith distolse lo sguardo.

«Sono nel giusto, vero?» domandò Vetro. «È accaduto qualcosa che ti ha profondamente sconvolto.»

Silenzio.

«Ti prego» lo esortò Vetro. «Parlamene.»

«È successo molto tempo fa» cominciò Keith. «Lo so… dovrei averlo superato, e invece…»

«Invece ti tormenta ancora, vero? Di che cosa si tratta? Cos e stato a cambiarti così tanto?»

Keith sospirò e si guardò intorno. Tutto, lì, era bellissimo e pacifico. Non ricordava quanto tempo era passato dall’ultima volta che si era seduto sull’erba, tra gli alberi, giusto per godersi il panorama… per rilassarsi.

«Ha a che fare con la morte di Saul Ben-Abraham» rispose.

«Morte» ripeté Vetro, quasi che Keith avesse usato un’altra parola a lui sconosciuta, come donchisciottesco. Scosse la testa trasparente. «Che età aveva quando è morto?»

«È successo diciotto anni fa. Mi sembra che avesse 27 anni.»

«Un battito di ciglia» commentò Vetro.

Per un attimo tra loro cadde il silenzio. Keith si era molto arrabbiato quando Vetro aveva liquidato con una frase simile i loro vent’anni di matrimonio. Questa volta, però, aveva ragione.

«Come è morto?» domandò Vetro.

«È stato un incidente. O, almeno, così ha deciso il GovUm. Io però ho sempre pensato che abbiano scopato tutto sotto il tappeto. Hanno insabbiato l’inchiesta. A quel tempo io e Saul vivevamo su Tau Ceti IV. Lui si era laureato in astronomia, io in sociologia, e lo studio della colonia faceva parte della nostra tesi per il dottorato. Eravamo amici fin dai tempi del liceo, e alla UBC eravamo stati compagni di stanza. Avevamo un sacco di cose in comune: a tutti e due piaceva giocare a pallamano e a go, recitavamo entrambi nella compagnia teatrale studentesca, avevamo gli stessi gusti musicali. In ogni caso, Saul scoprì la scorciatoia di Tau Ceti e una piccola sonda fu inviata ad attraversarla. A quei tempi Nuova Pechino era più che altro una colonia agricola, ben lontana dall’animazione di oggi. Non si chiamava nemmeno Nuova Pechino, era semplicemente la colonia Silvanus, dal nome del quarto pianeta del sistema di Tau Ceti. Non avevano molti sociologi da quelle parti, così finirono per incaricare me di valutare quali effetti avrebbe avuto sulla cultura umana la scoperta delle scorciatoie. Fu allora che comparve l’astronave waldahuar. Si doveva mettere insieme in fretta e furia una squadra di primo contatto e anche con l’iperpropulsione ci sarebbero voluti sei mesi per fare arrivare qualcuno dalla Terra. Così io e Saul fummo reclutati per la squadra che avrebbe preso contatto con la nave, dopodiché…» Keith lasciò la frase in sospeso, chiuse gli occhi e scosse impercettibilmente la testa.

«Sì?» lo incoraggiò Vetro.

«Dissero che era stato un incidente. Dissero che avevano frainteso. Quando incontrammo i waldahudin faccia a faccia per la prima volta, Saul aveva con sé un’unità olografica portatile. Non la puntò contro i maiali, è chiaro. Nessuno sarebbe stato così stupido. L’aveva semplicemente con sé, appesa al fianco, quando con il pollice premette il pulsante di accensione.» Keith fece un sospiro lungo e sonoro. «Dissero che era identica a un’arma waldahuar tradizionale, che aveva la stessa forma. Erano convinti che Saul portasse un’arma e che intendesse usarla contro di loro. Invece erano i maiali a essere armati e uno di loro sparò a Saul. Proprio in faccia. La sua testa esplose vicino a me, e gli spruzzi…» Keith distolse lo sguardo e rimase a lungo in silenzio. «Lo hanno ucciso. Era il mio migliore amico e loro lo hanno ucciso.» Fissò il prato, raccolse alcuni quadrifogli e li fissò a lungo, poi li buttò via.

Entrambi rimasero in silenzio, tra i cinguettii degli uccelli e il frinire delle cicale. Alla fine Vetro disse: «Dev’essere un peso difficile da sopportare.»

Keith non fece commenti.

«Rissa lo sa?»

«Sì, eravamo già sposati a quell’epoca. Era venuta su Silvanus per scoprire come mai su quel pianeta non si erano sviluppate forme di vita autoctone benché, secondo i nostri modelli evolutivi, le condizioni sembrassero favorevoli. Ma non ho mai parlato molto di ciò che è accaduto a Saul, né con Rissa né con altri. Non trovo giusto scaricare le mie sofferenze su coloro che mi circondano: ognuno di noi ha la sua parte di problemi.»

«Dunque ti sei tenuto tutto dentro.»

Keith scrollò le spalle. «Io sono per un certo stoicismo… per un certo riserbo emotivo.»

«Lodevole» commentò Vetro.

Keith ne fu sorpreso. «Credi?»

«È un sentimento che condivido, anche se mi rendo conto che è insolito. La maggior parte della gente vive, perdonami la battuta, in modo trasparente.» Vetro fece un gesto per indicare il suo corpo. «Il loro io privato coincide con il loro io pubblico. Perché tu sei così diverso?»

«Non lo so. Sono fatto così.» Tacque a lungo, riflettendo. Poi aggiunse: «Quando avevo nove anni o giù di lì, c’era un ragazzo del vicinato che faceva il bullo. Uno zoticone sui tredici o quattordici anni, che aveva l’abitudine di prelevare i ragazzi più piccoli e scaricarli in un cespuglio spinoso nel parco. Quelli che venivano catturati scalciavano, strillavano e piangevano, e lui sembrava goderne. Un giorno venne da me, mi afferrò mentre correvo, mi portò verso il cespuglio e mi ci buttò dentro. Io non mi dimenai. Non ce n’era motivo: era grosso il doppio di me e non sarei mai riuscito a liberarmi. E nemmeno strillai o piansi. Mi buttò nel cespuglio e io mi limitai a rialzarmi e uscire di lì. Ne ricavai qualche abrasione e un bel po’ di graffi, ma non dissi nulla. Lui restò a fissarmi per una decina di secondi, poi commentò: “Lansing, tu hai le palle” e non mi toccò mai più.»

«Allora la tua interiorizzazione è un meccanismo di sopravvivenza?» domandò Vetro.

Keith fece spallucce. «Serve a rafforzare ciò che c’è da rafforzare.»

«Però non sai da dove provenga.»

«No» ammise Keith. Poi aggiunse: «Be’, in realtà sì, credo di saperlo. I miei genitori erano entrambi piuttosto polemici e se la prendevano per nulla. Non si sapeva mai quando uno dei due avrebbe dato in escandescenze. In pubblico, in privato… non faceva differenza. Non si era al sicuro nemmeno durante una conversazione di cortesia. Cenavamo insieme ogni sera e io restavo sempre in silenzio, con la speranza che almeno per una volta la cena si concludesse senza traumi, senza che uno di loro si alzasse da tavola infuriato e se ne andasse, senza scenate o frasi cattive.»

Keith fece una pausa. «In verità il legame tra i miei genitori aveva anche altre caratteristiche che da piccolo non comprendevo. All’inizio entrambi avevano una carriera, ma col passare degli anni l’automazione eliminò sempre più lavori… questo avveniva prima che la vera intelligenza artificiale fosse messa fuori legge. Il governo canadese modificò le leggi sulle imposte in modo tale che il secondo stipendio pagasse tasse pari al 110 per cento: era una mossa studiata per distribuire il poco lavoro che c’era alla maggior parte delle famiglie. Papà guadagnava meno della mamma, così fu lui che dovette lasciare il lavoro. Adesso so che la sua irritabilità derivava in gran parte da questo, ma a quel tempo tutto ciò che capivo era che i miei genitori riversavano la loro rabbia e la loro frustrazione su chiunque fosse loro vicino. E benché fossi un bambino, giurai che non mi sarei mai comportato così.»

Vetro ascoltava rapito. «Incredibile» commentò. «Tutto quadra.»

«Che cosa quadra?» domandò Keith.

«Tu.»

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