Era rarissimo che Keith entrasse in una delle zone ibesi della nave. La gravità veniva mantenuta a un livello pari al 41 per cento in più di quella terrestre (e il 72 per cento in più di quella standard della nave), e lui si sentiva come se pesasse 115 chili al posto dei soliti 82. Per brevi periodi riusciva a sopportarla, ma non era piacevole.
In quelle zone i corridoi erano molto più ampi che nel resto della nave e le aree tra un ponte e l’altro erano più spesse, il che significava soffitti più bassi. Non tanto da doversi chinare, ma tendeva a farlo ugualmente. L’aria era calda e secca.
Keith arrivò alla stanza che stava cercando, quella con la porta marcata con una matrice di luci gialle che formavano un rettangolo con due cerchietti sotto le estremità della base. Keith non aveva mai visto un treno con le ruote se non in un museo, ma il pittogramma gli ricordava ugualmente un vagone, un carro merci.
Keith parlò all’aria: «Per favore, Phantom, falle sapere che sono qui.»
Phantom fece un cinguettio, segno che l’aveva riconosciuto. Un attimo più tardi, presumibilmente con il consenso di Carro Merci, la porta rientrò nella parete.
Gli appartamenti degli ib erano molto lontani dagli standard umani. Sulle prime apparivano esageratamente grandi, la stanza in cui Keith era entrato misurava otto metri per dieci. Poi però ci si rendeva conto che avevano esattamente le stesse dimensioni di tutti gli altri appartamenti della nave, solo che non erano suddivisi in zone separate per il sonno e per le abluzioni. Non c’erano sedie né letti, ovviamente, né c’erano tappeti: il pavimento era ricoperto di plastica dura. Sul loro mondo d’origine, nei tempi preindustriali, gli ib edificavano montagnole di terra dell’esatta grandezza necessaria per incastrarsi tra le loro ruote, come piedistallo per il telaio e per gli altri componenti quando le ruote si separavano temporaneamente dal corpo. Carro Merci aveva predisposto in un angolo della stanza l’equivalente di una di quelle montagnole, che costituiva l’intero mobilio della stanza.
Le decorazioni delle pareti erano secondo Keith strane e sconcertanti: immagini a forma di arachidi che consistevano di varie inquadrature, spesso distorte, dello stesso oggetto da differenti punti di osservazione e sovrapposte luna all’altra. Non riuscì a capire che cosa rappresentassero quelle sulla parete più lontana, ma rimase scioccato quando osservò con attenzione quelle più vicine: erano studi di feti ed embrioni umani e waldahud, con arti appena abbozzati e strane teste traslucide. Carro Merci era una biologa, dopo tutto, e probabilmente la vita aliena la affascinava, ma la scelta di quei soggetti era sconcertante.
Carro Merci, che si trovava dalla parte opposta della stanza, rotolò verso Keith. Era un vero stress subire l’avvicinamento di un ib da una certa distanza: avevano tutti l’abitudine di accelerare alla massima velocità per poi inchiodare a un paio di metri. Keith non aveva mai sentito di nessun umano spiaccicato, ma aveva sempre il timore di poter essere il primo.
Le luci dell’ib lampeggiarono. «Dottor Lansing» disse. «È un piacere inaspettato. La prego, si accomodi… non ho sedie da offrirle, ma so che la gravità è troppo elevata qui. Si senta libero di appoggiarsi alla mia montagnola da riposo.» Una corda dondolò nella direzione della costruzione a forma di sella su un lato della stanza.
Il primo pensiero di Keith fu di declinare l’offerta. Però… accidenti, era scomodissimo stare in piedi in quella gravità. Andò alla montagnola e vi si appoggiò di schiena. «Grazie» disse. Non sapeva da dove cominciare, ma di una cosa era sicuro: avrebbe offeso l’ib se avesse sprecato il suo tempo. «Rissa mi ha chiesto di parlarle. Dice che presto lei si scorporerà.»
«Cara, dolce Rissa» commentò Carro Merci. «La sua preoccupazione è toccante.»
Keith guardò la stanza, riflettendo. «Voglio che lei sappia» disse infine «che non è obbligata a scorporarsi, almeno fino a quando resterà a bordo della Starplex. L’intero equipaggio della nave è considerato de facto personale diplomatico: posso sistemare le cose in modo da garantirle l’immunità.» Guardò la creatura. Avrebbe voluto che avesse una faccia… o almeno due occhi normali, dei quali poter leggere l’espressione. «Il suo servizio è stato esemplare. Non c’è ragione per cui lei non debba continuare a prestarlo a bordo della Starplex fino al termine naturale della sua esistenza.»
«Lei è gentile, dottor Lansing. Molto gentile. Io però devo essere onesta con me stessa. Cerchi di capire che, pur non avendo mai parlato con nessuno della mia futura scorporazione, sono ormai secoli che mi preparo ad affrontarla, sia mentalmente sia fisicamente. Ho programmato tutti gli eventi della mia vita per concludersi adesso: non saprei che farmene di altri quarant’anni.»
«Potrebbe continuare le sue ricerche. Chissà, con un altro mezzo secolo di lavoro sul problema della senescenza, forse ce la farebbe. E a quel punto non dovrebbe morire mai più.»
«Un’eternità di vergogna, dottor Lansing? Un’eternità di sensi di colpa? No, grazie. Sono inalterabilmente legata al corso d’azione prestabilito.»
Keith rifletté per qualche istante sulle sue parole. Considerò rapidamente obiezioni e contro-obiezioni, nuove argomentazioni, nuove proposte, ma le scartò tutte. Non erano affari suoi e si sentiva a disagio. Alla fine annuì. «C’è qualcosa che io possa fare per renderglielo più facile? Ha bisogno di attrezzature speciali?»
«Avrà luogo una cerimonia. In genere pochi ib vi partecipano, perché andarvi significa che il colpevole finisce per far sprecare loro altro tempo. Credo che soltanto i miei amici ib più stretti verranno. Di conseguenza non avrei bisogno di una sede molto ampia. Ma, poiché me l’ha chiesto, mi farebbe piacere usare per la cerimonia, se possibile, uno dei moli. E vorrei che, al termine, le mie parti componenti fossero eiettate nello spazio.»
«Se è questo che desidera, ha il mio permesso.»
«Grazie, dottor Lansing. Le sono davvero molto grata.»
Keith fece un cenno di assenso e andò alla porta. Ripercorse il corridoio tiepido e tornò alle condizioni di STRESS dello stelo centrale. Di solito, quando passava da una zona ibese alla bassa gravità del resto della nave gli sembrava di galleggiare, si sentiva leggero come una piuma. Ma non questa volta.
«Un impulso tachionico!» annunciò Rombo dalla postazione delle operazioni esterne. «C’è qualcosa in arrivo dalla scorciatoia. Un oggetto piccolo, al massimo di un metro di diametro.»
“Con ogni probabilità un watson” pensò Keith. «Diamogli un’occhiata, Rombo.» In una zona dell’ologramma sferico comparve una cornice azzurra, nella quale c’era un ingrandimento telescopico dell’oggetto sbucato dalla scorciatoia.
«Bentornato a casa!» esclamò Thor Magnor, con un largo sorriso.
«Meglio che qualcuno faccia scendere Hek e Shanu Azmi» disse Keith.
«Ci penso io» disse Lianne. Dopo un attimo aggiunse: «Arrivano subito.»
Nel panorama stellato si spalancò una porta e lo specialista waldahud in comunicazioni aliene fece il suo ingresso sul ponte. Quasi simultaneamente si aprì dietro le sedie della galleria un’altra porta, dalla quale entrò Shami Azmi. Indossava pantaloni corti e aveva in mano una racchetta da tennis. Keith indicò l’immagine ingrandita: «Guardate che cos’è tornato» disse.
Hek sgranò tutti e quattro gli occhi. «Ma questo è meraviglioso!»
«Rombo» ordinò Keith «controlla che non ci siano trappole. Se è pulito, portalo con un raggio trattore al molo 6.»
«Controllo eseguito… niente di sospetto. Lo aggancio con un raggio trattore.»
«Appena sarà a bordo isolalo in un campo di forza.»
«Lo farò, con rispetto.»
«Vorrei che fosse arrivato la settimana scorsa» disse Azmi.
«Perché?» domandò Rissa.
«Mi avrebbe risparmiato tutto il lavoro che ho fatto per costruirlo.»
Rissa scoppiò a ridere.
«Shanu, Hek, vogliamo avviarci al molo 6?» suggerì Keith.
«Anche a me piacerebbe dare un’occhiata» si affrettò a dire Rissa.
Keith sorrise. «Si accomodi.»
I quattro si trasferirono al molo d’attracco. Quando arrivarono osservarono l’oggetto oltre il velo del campo di forza. Hek era due metri a destra di Keith, Azmi subito dietro di lui, e Rissa era così vicina al marito che i loro gomiti si sfioravano. Il cubo venne spostato all’interno del locale da raggi invisibili. Non appena si posò a terra fu circondato da una bolla di forza, mentre un portello uscito dal soffitto chiudeva l’apertura verso lo spazio. I quattro attesero che l’aria nel molo tornasse alla giusta pressione, poi andarono a dare un’occhiata al cubo.
Aveva resistito bene agli eoni. Sembrava che qualcuno ne avesse sfregato la superficie con una paglietta d’acciaio, ma tutti i segni incisi che rappresentavano le domande erano rimasti leggibili. Quasi subito si resero conto che Rombo aveva manovrato il cubo in modo tale da farlo appoggiare proprio sulla faccia con la risposta.
«Phantom» disse Keith «ruota il cubo di un quarto di giro per farci vedere la faccia di sotto.»
Alcuni raggi trattori manipolarono la capsula temporale. Nello spazio lasciato libero per la risposta c’erano simboli neri tracciati su uno sfondo bianco che sembrava in qualche modo incollato alla superficie del cubo.
«Dèi» esclamò Hek. Rissa spalancò la bocca.
Keith rimase immobile, come pietrificato. Nella parte alta dello spazio per la risposta c’era una serie di numeri arabi:
10-646-397-281
E sotto, in inglese, c’era scritto:
MANDARE INDIETRO LE STELLE È UNA NECESSITÀ, NON UN’AZIONE OSTILE. SARÀ UN BENE PER TUTTI. NON DOVETE AVERNE PAURA.
Ancora più giù, in caratteri un po’ più piccoli, c’era scritto
KEITH LANSING.
«Non ci credo» disse Keith.
«Ehi, guardate» abbaiò Hek, chinandosi più vicino al cubo. «Non è così che si scrive quel carattere. O sbaglio?»
Keith esaminò la scritta. La stanghetta discendente delle “u” minuscole si trovava sulla sinistra della lettera, anziché a destra. «Anche l’apostrofo di “un’azione” è rovesciato» osservò Keith.
«E che ne dite della serie iniziale di numeri?» chiese Rissa.
«Sembra un numero di identificazione personale» suggerì Keith.
«No… un’espressione matematica, piuttosto» disse Hek. «Il risultato è… è… computer centrale?»
“Meno 1314” disse la voce di Phantom.
«No, dev’essere qualcos’altro» intervenne Rissa, scuotendo lentamente la testa. «Quando gli umani scrivono una lettera, quello è il punto in cui mettono la data.»
«In che forma?» domandò Hek. «Prima l’ora, poi il giorno, poi il mese, poi l’anno? No, così non funziona. Potrebbe essere il contrario: il decimo anno e il seicentoquarantaseiesimo giorno, ma neppure questo ha senso, dal momento che nell’anno terrestre ci sono soltanto 400 giorni, o giù di lì.»
«No» disse Rissa. «Il giorno non c’entra. Quello è l’anno. L’intero numero rappresenta l’anno: dieci miliardi seicentoquarantasei milioni trecentonovantasettemila duecentoottantuno.»
«L’anno?» ripeté Hek.
«L’anno» confermò Rissa. «Anno terrestre, dopo Cristo. Cioè cominciando a contare dalla nascita di Cristo, un profeta.»
«Ma io ho visto un sacco di numeri scritti da umani» obiettò Hek. «Lo so che quando sono grandi li separate in gruppi, gruppi di tre cifre, mi sembra… il mio popolo preferisce gruppi di quattro cifre… Però credevo che usaste… come si chiama quel segno scritto in basso?»
«Punto» rispose Rissa. «Usiamo i punti, o qualche volta le virgole.» La donna sembrava avere difficoltà a mantenere l’equilibrio: si avvicinò alla parete del molo e vi si appoggiò. «Ma… immagina un tempo così lontano nel futuro che l’inglese non sia più usato… un tempo nel quale siano trascorsi milioni o miliardi di anni da quando la nostra lingua è stata usata per l’ultima volta» fece un gesto verso Keith. «È possibile che ricordino male qualche particolare: le convenzioni per scrivere i grandi numeri, per esempio, o la grafia dell’apostrofo o magari da che parte si deve mettere la gambetta sporgente della u.»
«Deve essere una contraffazione» disse Keith.
«Se lo è, è perfetta» notò Azmi, che aveva in mano uno scanner portatile. «Abbiamo inserito nella struttura del cubo alcune sostanze radioattive a vita lunghissima. Adesso questo cubo ha un’età di dieci miliardi di anni terrestri, più o meno 900 milioni. L’unico modo per ingannare questo sistema di datazione sarebbe quello di fabbricare un finto cubo usando il giusto rapporto di isotopi per simulare l’età. Questo oggetto, però, è identico all’originale in ogni minimo dettaglio, a parte il decadimento radioattivo e l’abrasione superficiale.»
«Ma il fatto di aver firmato il messaggio con il mio nome» obiettò Keith «non ti sembra un errore?»
«Forse in qualche modo il tuo nome è rimasto associato a quello della Starplex» ipotizzò Hek. «Dopotutto sei il suo primo direttore. E, per essere sincero, noi waldahudin abbiamo sempre pensato che ti siano stati attribuiti meriti in eccesso. Forse quella non è una firma. Forse indica il destinatario, o un saluto, oppure…»
«No» disse Rissa, con occhi sempre più sgranati. La voce le tremava per l’emozione. «No… viene da te.»
«Ma è una follia» esclamò Keith. «Non è possibile che io sia ancora vivo fra dieci miliardi di anni.»
«A meno che non ci sia di mezzo un effetto relativistico» disse Hek. «O l’animazione sospesa.»
«Oppure…» disse Rissa, con la voce che ancora tremava.
Keith la guardò. «Sì?»
Ma Rissa si mise a correre verso l’uscita del molo.
«Dove vai?» abbaiò Hek.
«Da Carro Merci» gridò lei. «Voglio dirle che i nostri esperimenti sul prolungamento della vita avranno successo, oltre le nostre più ardite previsioni.»