Delta Draconis

«Com’era Saul Ben-Abraham?» domandò Vetro.

Keith osservò la simulazione di foresta che lo circondava, chiedendosi in quanti modi poteva descrivere l’uomo che era stato il suo migliore amico. Alto. Impetuoso. Con una risata che si sentiva a un chilometro di distanza. Capace di indovinare il titolo di una canzone dopo le prime tre note. E di ingurgitare più birra di chiunque Keith avesse conosciuto (doveva avere una vescica grande come l’Islanda). Alla fine Keith tornò in sé. «Peloso.»

«Come ha detto?» chiese Vetro.

«Saul aveva una gran barba» spiegò Keith. «Gli copriva quasi tutta la faccia. E aveva un unico gigantesco sopracciglio, come un braccio di scimpanzé appoggiato sulla fronte. La prima volta che lo vidi in calzoncini corti rimasi stupefatto: sembrava un sasquatch.»

«Sasquatch?»

«Un leggendario primate della regione terrestre da cui provengo. Ricordo ancora che quando l’ho visto in pantaloncini per la prima volta ho esclamato: “Ehi, Saul, tu sì che hai le gambe pelose”. Lui fece esplodere la sua fragorosa risata e disse: “Già, da vero maschio!”. Allora io dissi: “Almeno come dieci veri maschi”.» Keith tacque. «Dio, quanto mi manca. Un amico come lui, che per me significava tutto, si incontra una volta nella vita.»

Vetro rimase in silenzio per una decina di secondi. «Sì» disse infine. «Credo di sì.»

«Naturalmente Saul era qualcosa di più che una massa di peli» disse Keith. «Era brillante: tra le persone che conosco, l’unica che potrebbe essere più intelligente di lui è Rissa. Era un astronomo. Fu lui a scoprire la scorciatoia di Tau Ceti, partendo dalla sua impronta nell’iperspazio. Avrebbe ricevuto il Nobel per questo… se fosse stato possibile assegnarlo postumo.»

«Comprendo il tuo senso di perdita» intervenne Vetro. «È come se… Oh, scusami. Il computatore dice che è in arrivo un pacchetto mentale. Puoi aspettare qualche secondo?»

Keith annuì e Vetro fece un movimento strano, come di sghembo, e scomparve. Sicuramente era passato da una porta nascosta dalla foresta simulata che riempiva il molo d’attracco… l’unica prova visiva che gli fosse stata concessa per contrastare l’impressione di trovarsi sulla Terra. Be’, se c’era una porta l’avrebbe trovata. Mosse una mano nell’aria nel punto in cui Vetro era scomparso, ma senza trovare nulla.

Da qualche parte, comunque, una parete doveva esserci per forza. Il molo non era poi così grande. Keith cominciò a camminare, con la certezza che prima o poi sarebbe andato a sbattere contro una parete. Proseguì per almeno cinquecento metri senza incontrare ostacoli. Era chiaro che se il suo rapitore — appena ebbe formulato mentalmente quella definizione si sforzò di cancellarla e sostituirla con la parola ospite — se il suo ospite avesse voluto batterlo in astuzia avrebbe potuto manipolare le immagini per fargli credere di muoversi in linea retta quando invece camminava in cerchio.

Decise di prendersi un po’ di riposo. Per quanto fin dall’inizio avesse tentato di trovare il tempo per esercitarsi nella palestra terrestre della Starplex, dove la gravità era regolata a 1 G, aveva perso comunque un po’ di tono muscolare dopo tutto quel tempo passato nella più leggera gravità waldahud usata negli ambienti comuni della nave. Avrebbe dovuto accettare le sfide a pallamano che gli faceva Thor Magnor. Con Saul aveva praticato quello sport con regolarità, ma aveva smesso dopo la sua morte.

Keith sedette nuovamente sul terreno, che in quel punto era tappezzato di trifoglio. Passò le dita nel prato apprezzando la sensazione carezzevole che provava sulla pelle. Era una simulazione davvero egregia. Rilassante, molto bella. Guardò alcuni uccelli veleggiare alti nel cielo, troppo lontani per identificarne la specie.

Staccò uno stelo e lo alzò per guardarlo da vicino. Forse era il suo giorno fortunato, sembrava un quadrifoglio…

Che fortuna! Lo era davvero!

Ne raccolse altri e li contemplò a bocca aperta.

Si sdraiò per terra ed esaminò le piantine una per una.

Erano tutti quadrifogli.

Ne raccolse un altro e se lo portò davanti agli occhi, tenendolo tra pollice e indice. Lo scrutò con la massima attenzione, ma sembrava normalissimo trifoglio da ogni punto di vista: aveva perfino una goccia di linfa verde all’estremità dello stelo spezzato. Ciò nonostante tutti quei trifogli avevano “quattro” foglie. Eppure il trifoglio ha tre foglie, lo dice il nome stesso, se non nei rari casi di mutazioni individuali, mentre quelle piante avevano tutte quattro foglie distinte, di forma ovale.

Keith lanciò uno sguardo ai fiorellini bianchi e rosa che spuntavano da alcune piantine: anch’essi confermavano che si trattava di trifoglio. Ma con quattro foglie. Scosse la testa. Com’era possibile che, dopo aver realizzato una simulazione corretta in tutti i dettagli, Vetro avesse commesso un errore del genere? Non aveva senso.

Si guardò intorno, alla ricerca di altre discrepanze. Gli alberi decidui sembravano quasi tutti aceri… aceri da zucchero, per la precisione. E quelle conifere erano pini del genere banksiana, quel grande albero un po’ più lontano era un abete rosso. Inoltre…

E che uccello era quello posato sull’abete rosso? Certamente non un cardinale rosso né una ghiandaia. Aveva sì una specie di pennacchio sulla testa, ma verde smeraldo, e il becco era piatto e a spatola, molto insolito in un uccello canoro.

Quella era la Terra, non c’erano dubbi. Bastava guardare la luna, ancora lassù nel cielo diurno. Eppure non era “esattamente” la Terra: alcuni dettagli non coincidevano.

Keith si mordicchiò il labbro, pensieroso.

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