4

La macchina del lavoro, il cui nome ufficiale era Registro Centrale di Collocamento, era installata nell’atrio enorme di una cupola geodesica che aveva il diametro di duecento metri. La superficie della cupola era stata rivestita di platino per uno spessore di tre molecole. All’interno, lungo i muri, erano sistemati solo i terminali esterni dei banchi del calcolatore, in realtà situato altrove. Una mente inanimata lavorava instancabilmente a individuare le possibilità di impiego, accordandole con le capacità degli aspiranti.

Norman Pomrath prese un taxiespresso per andare alla cupola. Avrebbe potuto benissimo arrivarci a piedi, risparmiando l’equivalente in denaro di un’ora del suo tempo, ma preferì non farlo. Il suo era uno sperpero voluto. Disponeva di tutto il tempo possibile, mentre le disponibilità di denaro erano molto limitate, malgrado la generosità dell’Alto Governo. L’assegno del sussidio settimanale che gli veniva dato grazie alla bontà di Danton e Kloofman e degli altri membri del governo, era sufficiente a coprire le spese necessarie dei quattro membri della famiglia Pomrath, ma rimaneva ben poco per le spese superflue. Di solito, Pomrath, stava attento a non spendere. Gli seccava vivere del sussidio, ma poiché era molto difficile trovare un lavoro regolare, finiva con l’accettare, come tutti, quel segno impersonale di benevolenza. Nessuno, a meno che lo volesse, moriva di fame e, anche volendolo, non era facile riuscirci.

Pomrath avrebbe potuto benissimo evitare di andare alla macchina. Le linee telefoniche collegavano ogni appartamento con tutti i calcolatori al servizio del pubblico. Sarebbe bastato telefonare per chiedere informazioni e, del resto, se ci fosse stata una possibilità di lavoro, la macchina lo avrebbe avvertito. Ma lui aveva voglia di uscire di casa, anche se conosceva già in anticipo quale sarebbe stata la risposta della macchina. La sua visita non era altro che un semplice rito, uno dei tanti rituali inutili che pure lo aiutavano a sopportare l’avvilente sensazione di essere un uomo finito.

Quando mise piede nell’edificio, i ricognitori sotterranei ronzarono. Era stato controllato, registrato e identificato… Se il suo nome avesse fatto parte dell’elenco degli anarchici conosciuti, non gli avrebbero permesso di varcare la soglia. Dal pavimento sarebbero uscite delle pinze di metallo che, senza fargli male, gli avrebbero immobilizzato braccia e gambe finché fossero venuti gli incaricati a disarmarlo e a portarlo via. Ma Pomrath non aveva alcuna intenzione di danneggiare la macchina. L’ostilità che covava nell’animo era diretta contro l’universo in generale. Era troppo intelligente per sprecare il suo rancore contro i calcolatori.

Le facce benevole di Benjamin Danton e Peter Kloofman gli sorridevano dalla volta della cupola geodesica. Erano due giganteschi ritratti tridimensionali che pendevano dalle lucide travature dell’enorme edificio. Danton riusciva a sembrare severo anche quando sorrideva; Kloofman, che aveva la fama di possedere una grande carica di calore umano, era più simpatico. Pomrath ricordava che, una ventina di anni prima, i pubblici rappresentanti dell’Alto Governo avevano costituito un triumvirato, di cui facevano parte Kloofman e altri due di cui non ricordava più il nome. Poi, improvvisamente, era comparso Danton e i ritratti degli altri due erano stati tolti. Senza dubbio, un bel giorno sarebbero scomparsi anche Danton e Kloofman, e sugli edifici ci sarebbero stati i ritratti di due, o tre, o quattro facce nuove. I cambiamenti che avvenivano nelle alte sfere interessavano ben poco Pomrath. Come molti, dubitava che Danton e Kloofman esistessero davvero. C’erano ottimi motivi per credere che i calcolatori dirigessero tutto lo spettacolo, da un secolo almeno. Tuttavia Pomrath non mancò di chinare rispettosamente la testa davanti ai ritratti tridimensionali, mentre entrava nel palazzo della macchina del lavoro. Per quello che ne sapeva, Danton poteva anche starlo a osservare attraverso i gelidi occhi di quell’enorme ritratto.

Il locale era affollatissimo. Pomrath si diresse verso la parte centrale, e si soffermò un momento ad ascoltare il ronzio della macchina. Alla sua sinistra c’era il Banco Rosso, per i trasferimenti di lavoro. Non faceva al suo caso, perché, per chiedere di cambiare lavoro, bisognava averne già uno. Davanti a lui c’era il Banco Verde, per i disoccupati cronici come lui. Alla destra, il Banco Azzurro, che forniva tutte le informazioni necessarie sui nuovi lavori appena assegnati. C’erano lunghissime file davanti a ciascuno dei tre banchi. I ragazzi a destra, a sinistra un gruppo di benestanti della Decima Classe in attesa di una sistemazione migliore e, dritto davanti a lui, la legione dimessa dei prolets. Pomrath si accodò alla fila davanti al Banco Verde.

La fila procedeva in fretta. Nessuno gli rivolse la parola. Solo con se stesso, Pomrath si chiese, come ormai succedeva sempre più spesso, in quale momento si fosse arenata la sua vita. Sapeva di possedere un alto quoziente d’intelligenza, ottimi riflessi, decisione, ambizione e spirito di adattamento. Se tutto fosse andato liscio, a quest’ora avrebbe fatto parte dell’Ottava Classe.

E invece qualcosa non aveva funzionato a dovere. E non c’era più speranza che la situazione cambiasse. Aveva studiato da tecnico medico, pensando che anche nel migliore dei mondi sarebbero sempre esistite le malattie e chi dovesse curarle. Disgraziatamente, moltissimi altri giovani della sua generazione erano arrivati alla stessa conclusione. Come nelle corse degli artropodi, Pomrath pensava che era necessario scegliere con cura il granchio favorito, giudicandone l’abilità e lo spirito aggressivo con molto acume. Si valutavano tutti i pro e i contro, ma il guaio era che c’erano altri giocatori astuti: se uno riusciva a individuare un corridore fuoriclasse, ci riuscivano anche gli altri, e le poste erano di 11 a 10, o peggio. Quindi, anche vincendo, al più si rientrava nelle spese. Il segreto era di trovare un fuoriclasse dato 50 a 1. Ma se era così bravo, non avrebbe avuto una valutazione simile. L’universo non è ingiusto, pensava Pomrath ma solo indifferente.

Aveva voluto puntare sul sicuro, ma il risultato non era stato che una miseria: qualche settimana di lavoro, molti mesi di disoccupazione. Pomrath era un ottimo tecnico. La sua. abilità poteva essere considerata pari a quella di un buon medico di qualche secolo prima: i veri dottori, che erano rari, appartenevano alla Terza Classe, immediatamente al di sotto dello scalino più basso dei funzionari dell’Alto Governo. Pomrath, poi, malgrado le sue qualità, era relegato nella Quattordicesima Classe di cui condivideva tutti i disagi, e l’unica speranza di poter essere promosso stava nell’accumulare esperienza per poter diventare più abile. Ma non c’era lavoro, o almeno troppo poco.

Che ironia!, pensava. Joe Quellen, che non ha alcuna specializzazione, è un pezzo grosso della Settima Classe. Ha un appartamento a sua disposizione, nientemeno! E io qui, tante classi più in basso. Il cognato era un funzionario del governo, non dell’Alto Governo, naturalmente, cioè non del gruppo che si occupava di politica, ma pur sempre del governo. Così godeva di una posizione di privilegio. Avevano dovuto promuoverlo a una delle classi superiori, perché potesse far valere la sua autorità. Pomrath si mordicchiò un’unghia già mangiucchiata, chiedendosi perché mai non aveva avuto abbastanza buonsenso da intraprendere una carriera governativa.

Ma trovò subito la risposta: in quel caso le probabilità erano anche più sfavorevoli. Quellen aveva avuto fortuna. Forse è stato anche abile, dovette ammettere Pomrath, benché a malincuore. Se, invece di diventare medico, avessi seguito una carriera governativa, molto probabilmente oggi sarei un impiegato di Quattordicesima Classe, con un lavoro regolare, ma senza vantaggi maggiori di quanti ne abbia oggi. L’universo non è ingiusto, ma qualche volta si dimostra terribilmente logico.

Pomrath era adesso il primo della fila.

Davanti a lui c’era una piastra di alluminio di circa mezzo metro quadrato, al cui centro si apriva il rivelatore di vetro smerigliato. In quel momento mandava una luce verde, e Pomrath, seguendo un ormai ben noto rituale, vi posò sopra la mano.

Non era necessario parlare. La macchina sapeva chi era, e che cosa c’era in serbo per lui. Ma Pomrath preferì chiedere lo stesso con la sua voce profonda, un po’ velata: «Non ci sarebbe del lavoro?» e premette un pulsante.

La risposta arrivò subito.

Sotto la lucida lastra di alluminio si sentì il rumore di un congegno che si metteva in moto. L’uomo era convinto che si trattasse di un rumore senza senso, fatto apposta perché i prolets credessero che la macchina lavorava per loro. Nella lastra si aprì una fessura e ne uscì una minischeda arrotolata. Pomrath l’afferrò, e si mise a esaminarla senza molto interesse.

Recava il suo nome, l’indicazione della professione e il resto dei dati che provavano come lui fosse nato e vissuto. Sotto, in stampatello:


PREVISIONE DI LAVORO ATTUALMENTE SFAVOREVOLE. VI INFORMEREMO NON APPENA SI PRESENTERANNO OCCASIONI DI IMPIEGO BEN RETRIBUITO. PREGHIAMO DI ESSERE PAZIENTI E COMPRENSIVI. CIRCOSTANZE AVVERSE IMPEDISCONO TEMPORANEAMENTE ATTUAZIONE PROGETTO ALTO GOVERNO PIENA OCCUPAZIONE.


«Peccato» mormorò Pomrath. «Mi dispiace tanto per l’Alto Governo.»

Infilò la scheda nella fessura dei rifiuti e si voltò, facendosi largo a gomitate in mezzo a quella folla apatica in attesa della propria razione di brutte notizie. La visita alla macchina del lavoro era finita.

«Che ora è?» chiese.

«Le sedici e trenta» rispose l’orologio da orecchio.

«Credo che farò una capatina alla solita casa dei sogni. Ti pare una buona idea?»

L’orologio da orecchio non era programmato per rispondere a domande di quel genere. Pagando il doppio, avrebbe potuto acquistarne uno capace di sostenere una conversazione, oltre che di dire l’ora. Ma Pomrath non poteva permettersi quel lusso. Non era poi così assetato di compagnia da desiderare la conversazione di un orologio. Tuttavia, sapeva che molti non avevano altra consolazione che quella.

Pomrath uscì nel pallido sole del pomeriggio primaverile.

La casa dei sogni che frequentava di preferenza era a quattro isolati di distanza. Ce n’erano a bizzeffe, ma lui andava sempre nella stessa. Perché avrebbe dovuto cambiare? Dispensavano tutte gli stessi veleni, e l’unica differenza che le distingueva era il servizio. Anche a un disoccupato di Quattordicesima Classe piace venire considerato un cliente abituale, sia pure di una casa dei sogni.

Pomrath si incamminò speditamente. Le vie erano affollate. Era tornato di moda andare a piedi, ma a Pomrath dava fastidio farsi largo nella ressa. Impiegò un quarto d’ora ad arrivare. La casa dei sogni si trovava al quattordicesimo piano sotterraneo di un edificio commerciale. Tutti i locali in cui si vendevano sogni dovevano essere situati sottoterra per legge, in modo che anche i bambini più impressionabili, vedendoli, non fossero corrotti prima del tempo. Pomrath entrò e scese con l’ascensore espresso fino a centottanta metri sottoterra. I piani sotterranei erano ottanta, e poi si aprivano delle gallerie che collegavano quell’edificio ad altri. Pomrath non era mai sceso fin laggiù. Preferiva lasciare quelle avventure ai membri dell’Alto Governo e non aveva il minimo desiderio di trovarsi faccia a faccia con Danton nelle viscere della Terra.

La casa dei sogni era illuminata all’esterno da vivaci luci all’argo. Pomrath la preferiva perché, a differenza di quasi tutte le altre, era gestita da personale umano anziché funzionare meccanicamente. Entrò, e subito dietro la porta c’era il buon vecchio Jerry che lo scrutava con occhi veri, umani.

«Norman. Contento di vedervi.»

«Non ne sono tanto sicuro. Affari?»

«Scarsi. Una maschera?»

«Grazie. E la moglie. È incinta?»

L’uomo grassoccio dietro al banco sorrise. «Vi pare che farei una simile pazzia? Nella Quattordicesima Classe è proprio necessaria una casa piena di bambini? Ho pronunciato il Giuramento di Sterilità, Norm, non lo ricordate?»

«Già, mi pareva. Be’, qualche volta mi pento di non averlo fatto anch’io. Datemi la maschera.»

«Cosa volete aspirare?»

«Mercaptano di butile» gli rispose Pomrath a caso.

«Andiamo! Sapete che non…»

«Allora, acido piruvico, con una spruzzata di deidrogenase cinque lattato per insaporirlo.»

Jerry rise, ma la sua era la tipica risata professionale di chi vuole far divertire un cliente un po’ di malumore. «Su, Norm, smettetela di corrompermi il cervello, e prendete questo. Buoni sogni. È libera la cuccetta nove. Mi dovete un’unità di credito e mezzo.»

Pomrath prese la maschera e mise alcune monete nella mano carnosa di Jerry, prima di avviarsi verso la cuccetta. Si tolse le scarpe e si sdraiò. Si posò la maschera sulla faccia, e aspirò. Un passatempo innocuo, un gas blandamente allucinogeno, una breve illusione per passar meglio un pomeriggio. Mentre perdeva coscienza, Pomrath sentì gli elettrodi che scivolavano a stringergli il cranio. Ufficialmente, gli elettrodi servivano a controllare il suo ritmo alfa; se l’illusione assumeva aspetti di violenza, la direzione poteva svegliarlo prima che si facesse del male. Ma Pomrath aveva sentito dire che usavano gli elettrodi anche per un altro scopo ben più sinistro: servivano cioè a registrare le sue allucinazioni, a beneficio dei miliardari di Seconda Classe che si divertivano così a penetrare nei recessi della mente di un prolet. Pomrath aveva indagato in proposito, parlandone a Jerry, ma l’uomo aveva negato. Del resto, non avrebbe potuto fare diversamente. Ma in fondo non era poi tanto importante se le case dei sogni fornivano ad altri allucinazioni di seconda mano. Se lo desideravano, che controllassero pure i suoi ritmi alfa, purché lo lasciassero in pace a divertirsi per la modica somma di un credito e mezzo.

Era partito.

Apparteneva alla Seconda Classe ed era proprietario di una villa su un’isola artificiale del Mediterraneo. Coperto solo da una striscia di stoffa intorno ai fianchi, riposava in riva al mare su una poltrona pneumatica. Una giovane donna nuotava fra le onde, e la sua pelle abbronzata luccicava al sole. Gli sorrise, e Pomrath rispose con un gesto distratto. Era bella, nell’acqua.

Pomrath era viceré delle relazioni interpersonali, nell’Oriente Mussulmano, comoda e redditizia sinecura che richiedeva di tanto in tanto una visita alla Mecca e un paio di conferenze al Cairo, durante l’inverno. Aveva una bella casa vicino a Fargo, nel Nord Dakota, un discreto appartamento a New York, nella zona di Appalachia, e, inoltre, quell’isola nel Mediterraneo. Al prossimo avanzamento di personale dell’Alto Governo, sarebbe stato promosso alla Prima Classe. Danton lo consultava di frequente. Kloofman lo aveva invitato parecchie volte a pranzo, giù, al Piano Cento. Avevano parlato di vini. Kloofman era un conoscitore; lui e Pomrath avevano trascorso una splendida serata analizzando le virtù del Chambertin prodotto per sintesi nel ’74. Ottima annata, il ’74, specie per i vini di Borgogna.

Helaine risalì dall’acqua e rimase splendidamente nuda davanti a lui, col bel corpo pieno che scintillava alla calda luce del sole.

«Caro, perché non vieni a nuotare?» chiese.

«Sto pensando. Progetti delicatissimi.»

«Ma lo sai che poi ti viene il mal di testa! Non c’è il governo che pensa per te?»

«Dovrei fare il tirapiedi come tuo fratello Joe? Non dire sciocchezze, amore. C’è un governo, e c’è l’Alto Governo, e sono due cose ben distinte. Ho delle responsabilità. Devo riflettere.»

«A cosa pensi?»

«Al modo di aiutare Kloofman ad assassinare Danton.»

«Davvero amore? Ma io pensavo che tu fossi dalla parte di Danton!»

Pomrath sorrise. «Lo ero. Ma Kloofman è un intenditore di vini rari. Mi ha tentato. Sai cos’ha macchinato per Danton? Un laser automatico programmato per entrare in funzione proprio mentre…»

«Non me lo dire» lo interruppe Helaine. «Potrei svelare il segreto. Gli voltò la schiena, e gli occhi di Pomrath si bearono alla vista succulenta della sua voluttuosa bellezza. Non era mai stata così bella. Chissà se non avrebbe fatto meglio a svelare a Danton il progetto di Kloofman… Danton avrebbe potuto ricompensarlo. Valeva la pena di pensarci.»

Il maggiordomo automatico uscì dalla villa e si piantò sulle quattro tozze gambe telescopiche accanto alla poltrona. Pomrath guardò con affetto quella grossa scatola grigia. Cosa poteva esserci di meglio di un maggiordomo omeostatico, programmato secondo il consumo d’alcool del suo padrone?

«Un rum filtrato» ordinò Pomrath.

Prese il bicchiere offertogli da un braccio scheletrico di fibre di titanio intrecciate, e lo sorseggiò. A un centinaio di metri dalla spiaggia, il mare cominciò a ribollire come se qualche creatura mostruosa stesse risalendo dalle profondità. Un enorme muso a cavatappi ruppe la superficie. Un mostro marino di metallo venuto a fargli visita. Pomrath fece un gesto e subito le cellule a guardia dell’isola eressero una palizzata di metallo fatta di grossi fili di rame, tesi a intervalli regolari, alta due metri. Tra un filo e l’altro scintillava lo schermo difensivo.

Il mostro avanzò torreggiando verso la spiaggia. Non cercò d’infrangere la barriera. Ergendosi a un’altezza di sei metri sulla superficie del mare, gettava la sua ombra su Pomrath ed Helaine. Aveva enormi occhi gialli. Sul cranio tubolare si aprì una fessura, scivolò un pannello e comparve una figura umana. Dunque, il mostro non era che un mezzo di trasporto. Pomrath guardò attentamente, e dopo aver riconosciuto il visitatore, ordinò allo schermo di riabbassarsi.

Era Danton.

Occhi gelidi, sottile naso aquilino, labbra strette, pelle scura, che tradiva un’ascendenza di sangue misto. Mentre metteva piede sulla spiaggia, il potente di Prima Classe salutò con un cenno la nuda Helaine e tese ambedue le mani al preoccupato Pomrath. Questi premette un pulsante sul quadro comandi del maggiordomo, che si allontanò per andare a prendere un’altra poltrona. Danton vi si sedette, e Pomrath gli offrì da bere. Mentre l’ospite ringraziava, Helaine si stese a prendere il sole.

«E adesso parliamo di Kloofman» cominciò l’ospite. «È venuto il momento…»

Pomrath si svegliò con un sapore amaro in bocca. Proprio quando l’allucinazione si faceva più interessante, ecco che s’interrompeva. Qualche volta, tanto per provare, aveva pagato per una dose doppia, perché il sogno durasse di più. Anche allora, però, si era interrotto a metà.

CONTINUA LA PROSSIMA VOLTA, diceva la maschera, invariabilmente. Ma cosa si era aspettato? Un episodio completo di prologo, scena madre e conclusione? Da quando in qua l’universo funzionava così? Si tirò su a fatica e andò al banco per restituire la maschera.

«È stato bello?» chiese Jerry.

«Terrificante» rispose Pomrath. «Ero stato retrocesso alla Ventesima Classe e messo in isolamento totale. Poi trovavo da lavorare per un robot sanitario in qualità di cavia. Dopodiché, mi ammalavo di cancro all’orecchio interno e…»

«Ehi, non prendetemi in giro. Avete fatto davvero un sogno simile?»

«Certo! Mica male per un’unità di credito e mezzo, no? Divertente!»

«Avete uno strano senso dell’umorismo, Norm. Non so dove trovi la voglia di scherzare, uno come voi.»

«È un dono del cielo» replicò Pomrath, sorridendo a denti stretti. «Sono cose che non si sa come nascano… proprio come il cancro all’orecchio interno. Arrivederci Jerry.»

Prese l’ascensore e risalì al pianoterra. Era tardi, quasi ora di cena. Avrebbe voluto fare una passeggiata, ma sapeva che Helaine avrebbe fatto il diavolo a quattro, se lui avesse tardato a tornare. Si incamminò verso la più vicina rampa di taxiespresso. A un tratto vide un individuo dall’aria malandata che gli si avvicinava rapidamente. Pomrath si irrigidì. Sono pronto a tutto, pensò. Vediamo che intenzioni ha.

«Leggi qui» disse l’uomo infilandogli in mano una scheda sgualcita.

Pomrath svolse la striscia di rigida fibra sintetica gialla. Il messaggio era semplicissimo, stampato a lettere rosse, al centro della scheda.


DISOCCUPATO?
PARLANE A LANOY.

Interessante, pensò Pomrath. Devo proprio avere la faccia del disoccupato cronico. Disoccupato? Ma certo! Però, chi diavolo è questo Lanoy?

Загрузка...